L’indefessa ingordigia letteraria di cui sono vittima dall’adolescenza – se non leggo muoio -, mi ha portato spesso a scoprire autori sconosciuti, o comunque poco noti. In alcuni casi – pochi, del resto, visto il mio Canone intransigente – tale oblio è giustificato, in altri invece si tratta di vere e proprie ingiustizie.
Knut Hamsun
Knut Hamsun (1859-1952) è stato cancellato dalla storia della letteratura a causa delle sue simpatie per il Nazismo. A Goebbels donò la medaglia del premio Nobel, conferitogli nel 1920, e alla morte di Hitler scrisse un necrologio che a leggerlo viene la pelle d’oca. Hamsun è colpevole, ma le sue opere no. Romanzi come Fame (1890), Pan (1894), Victoria (1898), Il risveglio della terra (1917) meritano di essere ricordati e tramandati.
Fame, in particolar modo, è un romanzo incredibile. In questo lungo incubo claustrofobico che si snoda per le vie di Christiania – la Oslo di fine secolo -, Hamsun descrive lo sfacelo psico-fisico dell’uomo affamato. I vagabondaggi del protagonista, uno scrittore che non ha più niente, eccetto carta e matita, sono al tempo stesso la ricerca disperata di cibo e la discesa vorticosa nella follia. E all’interno di questo quadro angoscioso e desolante per l’affamato non c’è scampo. La sua è una lenta e dolorosissima agonia, la cui fine verrà comunque in ritardo. Quei rari, rarissimi barlumi di speranza che compaiono qua e là nel romanzo – un articolo pubblicato, un amore inatteso -, sono inconsistenti ed effimeri come fuochi fatui, che brillano, ma non illuminano né riscaldano. Il protagonista di Fame, che ha molto, se non tutto dello stesso Hamsun, è quel che resta di un uomo, è un corpo scheletrico che ha iniziato a imputridire prima ancora di morire.
In questo splendido passo, proprio come un cane randagio, l’affamato si avventa su un osso. Poi, disperato, leva la sua maledizione contro Dio. Sono righe in cui riecheggia la triste vicenda di Giobbe, in una reinterpretazione spietata, efferata del mito biblico.
«Poi tutto ad un tratto mi viene l’idea di scendere in uno dei bazar che stanno da basso per procurarmi un pezzetto di carne cruda. Mi alzo e percorro tutta la balaustrata obbliquamente fino all’altra estremità dei tetti dei bazar e scendo. Quando fui sceso quasi all’altezza di una macelleria gridai su per la scalinata e guardavo indietro con faccia minacciosa come se parlassi ad un cane, e mi rivolsi sfacciatamente al primo macellaio che incontrai.
– Oh, sia buono, mi dia un osso per il mio cane! – dissi. – Un osso soltanto; non importa che sia scarnito; il cane ha bisogno di portare qualche cosa in bocca.
Ebbi l’osso, un magnifico piccolo osso dov’era rimasta attaccata ancora della carne, e me lo ficcai sotto la giacca. Ringraziai quell’uomo con tanto calore che egli mi guardò stupito.
– Niente grazie – disse.
– Oh, non dica così – mormorai – molto gentile da parte sua.
E tornai di sopra. Il cuore mi batteva forte.
Infilai il Vicolo dei Fabbri, m’inoltrai sino in fondo, fin dove potei arrivare e mi fermai davanti a un vecchio portone che dava su un cortile. Non si vedeva luce da nessuna parte, una benedetta oscurità intorno a me; e mi gettai sull’osso.
Non aveva alcun sapore; un odore nauseante di sangue stantio veniva fuori dall’osso e dovetti subito cominciare a sputare. Tentai di nuovo; se fossi stato capace di tenerlo, ne avrei avuto un beneficio; si trattava di tenerlo nello stomaco. Ma rimisi di nuovo. Mi adirai, addentai con forza l’osso, ne strappai un pezzettino di carne e lo ingoiai per forza. Ma non servì a nulla; non appena quei pezzettini di carne si scaldavano nello stomaco tornavano su. Congiunsi convulsamente le mani, mi misi a piangere dalla disperazione, addentavo come un pazzo; piangevo e l’osso si bagnò di lacrime, rigettai, imprecavo e rodevo di nuovo, piangevo come se il cuore mi si spezzasse e di nuovo rigettavo. E a voce alta bestemmiavo, maledicendo tutte le potenze del mondo.
Silenzio. Nessuno è dintorno, nessuna luce, nessun rumore. Provo una esasperata eccitazione dei sensi, respiro a stento e affannosamente e piango digrignando i denti ogni volta che devo restituire quei pezzetti di carne che potrebbero nutrirmi un po’. Poiché tutto questo non giova malgrado ogni mio sforzo scaglio l’osso contro il portone pieno d’incontenibile odio, trascinato dall’ira, grido e minaccio con forza contro il Cielo, grido il nome di Dio con voce rauca e con dispetto e contorco le dita come artigli… Io ti dico, sacro Baal del Cielo, tu non esisti, ma se esistessi io ti maledirei tanto che il tuo Cielo tremerebbe per il fuoco dell’Inferno. Io ti dico, ti ho offerto i miei servigi e tu li hai rifiutati, tu mi hai respinto ed io per sempre ti volto le spalle perché non hai saputo prendere cura di me. Io ti dico, so che devo morire eppure ti odio, tu Apis celeste, con la morte tra i denti. Tu hai usato la tua potenza contro di me e non sai che giammai mi piegherò nelle avversità. E non lo sai? Hai dato forma al mio cuore nei sonni? Ti dico, tutta la mia vita ed ogni stilla di sangue che è in me gode nell’odiarti e nello sputare sopra la tua grazia. Da questo momento voglio fare a meno di ogni tuo atto e del tuo essere, voglio maledire il mio pensiero se ancora penserò a te e voglio strapparmi le labbra se ancora nomineranno il tuo nome. Se esisti, voglio dirti l’ultima parola nella vita e nella morte, ti dico addio. E così ti volto le spalle e me ne vado per la mia strada…» [1].
Carlo Vallini
Tra tutte le innumerevoli e illustri voci poetiche che costellano il Novecento italiano – un’abbondanza stupefacente, sconosciuta forse ad ogni altro paese -, ce n’è una dimenticata eppure bellissima. La voce di Carlo Vallini (1885-1920).
Intimo amico di Guido Gozzano, Vallini fu un poeta crepuscolare dal tocco pregevole, autore di versi preziosi, la cui dimenticanza è un vero e proprio delitto. La raccolta La rinunzia e il poemetto Un giorno, pubblicati entrambi nel 1907, sono piccoli tesori dal valore inestimabile.
Leggete. E poi ditemi se non ho ragione.
L’amore
Rapido è il tempo che passa
e che ci affoga nel nulla:
ieri eri ancor nella culla,
domani sarai nella cassa:
è vano che metta radici
la gioia nel nostro petto
se quello che reca diletto
è quello che rende infelici:
l’amore è la vanità
maggiore d’ogni altra, poiché
vorrebbe rinchiudere in sé
l’idea dell’eternità.
Piccola donna, che sempre
ricorderò nei miei brevi
giorni, come sapevi
dir la parola per sempre!
Il tuo per sempre s’è sciolto
nel nulla, dopo non molto,
come la neve nel sole;
l’altre tue buone parole
m’hanno fiorito la via
della malinconia,
m’hanno cosparso di pianti
la triste via dei rimpianti.
Ma il bel fanciullo, l’Amore,
s’è addormentato nel fondo
del cuore, d’un sonno profondo:
un sonno piú grave e profondo
di tutta l’acqua del mare
gli appesantisce le membra
con tanta gravezza, che sembra
che piú non si possa destare.
E se non si desterà piú,
pace su lui! Cosí sia.
Non resta la malinconia
lontana d’un bene che fu?
Ma neppure quella rimane,
piccola donna! Il ricordo
giorno per giorno scompare:
il cuore è sempre piú sordo
ai miseri casi lontani.
E forse un giorno, domani,
se t’incontrassi per via,
quest’anima mia, che si duole
in tanta malinconia,
per la sua piccola amica
ritroverebbe a fatica
gelide e rare parole.
E tu, dolorosa, che guardi
farsi piú sempre profondi
i segni degli anni sul viso
pallido e pensi che è tardi
ed a te stessa nascondi
con un tuo gesto improvviso
un filo che ieri divenne
piú chiaro fra le tue chiome
e brilla nel muoversi come
per un riflesso di gemme,
donna d’adesso, non vedi
tu che l’amore è dolore?
Quale conforto all’amore
tardivo e triste mai chiedi?
O donna, tu pensi che mai
bisognerebbe morire
come quand’è per finire
tutto e che senti e che sai
prossimo il dí che l’amore
naufragherà nel dolore.
E tu che a nome non chiamo
perché non so chi tu sei,
o tu, che forse amerei,
è meglio che non c’incontriamo!
Sai tu che cos’è la tristezza?
Io guardo la mia giovinezza
sorgere a un tratto su questo
mondo, vigile e viva,
come l’infermo mal desto
dall’incubo che l’atterriva
vede che il cielo è di rosa,
ed un’angoscia affannosa
lo stringe, poich’egli ignora
se sia il tramonto o l’aurora.
O donna, la mia giovinezza
è forse un tramonto: ogni giorno
qualcosa non fa piú ritorno,
qualche idolo nuovo si spezza.
Non si spezza, no: si dissolve
col tempo, non si sa come:
non ne rimane che il nome
e un po’ di misera polvere.
Il tempo sgretola, annulla
regolarmente entro me
quello che trova, finché
non ne rimanga piú nulla.
Da questo perenne pensare,
da questo perenne soffrire
si può sperar di guarire?
Si può sperare d’amare?
Io sento che non si può
mai piú guarire; lo sento:
da questo strano tormento
non si guarisce: lo so.
S’annida in te a tradimento
quando agisci e quando riposi:
è come la tubercolosi
cronica del sentimento [2].
Lorenzo Viani
Lorenzo Viani (1882-1936) non fu solamente un grande pittore. Lorenzo Viani fu anche un grande scrittore. Particolarmente prolifico, tra l’altro, autore di numerosi racconti e diversi romanzi. Il suo capolavoro letterario è senza dubbio Parigi (1925), in cui l’anarchico cane randagio viareggino racconta il suo primo vagabondaggio nella capitale francese. Con la sua penna espressionista, cinica come la punta di un coltello a serramanico, Viani mostra il lato oscuro, angosciante ed oppressivo di Parigi, che, nelle pagine conclusive del libro, giunge a definire «immane ergastolo».
Tra i tanti passi memorabili, ce n’è uno che reputo davvero straordinario. Moammed Sceab – sì, proprio lui, l’amico di Ungaretti a cui il poeta dedica la meravigliosa In memoria [3] – accompagna Viani al Pantheon. All’improvviso nevica.
«L’arabo Ceab si offerse di accompagnarmi al Pantheon. Uscimmo, egli taceva come tutti i mortificati e guardava in terra come i vinti. Quella testa arsa come la noce del cocco, smaltata di due occhi bianchi e morelli, colorata dalle labbra violette e dalla barba d’ebano, mi muoveva a pietà: quel corpo così bene attagliato nelle rivolte del barracano, umiliato nella tragedia di quei vestiti di bordatino e il capo in cui un tempo aveva rosseggiato il tarbuscio rosso, ora ricalcato dentro lo chapeau Melon, mi fecero dirgli disperato: “Ma perché sei venuto a Parigi?”.
Egli mi guardò stupito, vidi ne’ suoi occhi di mussulmano che la Mecca era stata sostituita da questa città dove singhiozzavano i violini.
“Vous savez, monsieur Viani, Paris est Paris.”
Il vento faceva svettare le rame degli alberi e parevano tante verghe di metallo, la gente rincasava infreddolita, delle nuvole cariche di verde poggiavano sui tetti; mentre s’andava là là pensosi, sentii che sul mio viso si scioglievano degli stracci di neve. “Ci mancavi anche te” dissi e scossi i ciuffi dei capelli. Ceab guardò il cielo con lo stupore di un giudeo quando vide che Cristo avea scoperchiato l’avello.
Ceab guardò a terra, si scosse le maniche della giubba: “Che cos’è questo?” e gli tremava il cuore e le mani. “Che cos’è questo?” richiese supplichevole.
“È neve” gli risposi.
“Viani,” mi disse timido “sono venuto a Parigi per vedere la neve: sì, la neve, la neve: scusatemi, gradirei godere da solo questo spettacolo.” S’inchinò rispettosamente e s’avviò passo passo verso i giardini del Lussemburgo. Ceab sparì sotto un viale di tigli, sfaldato dalla neve che cadeva dal cielo. Dopo qualche mese ricevei un biglietto: ‘Una brutta notizia. Ceab si è sparato un colpo di pistola fracassandosi il cranio. È stato trovato stamani sopra una panchina del Lussemburgo, coperto dalla neve’» [4].
La letteratura italiana è morta, ma da un pezzo ormai. Tutto, ma proprio tutto ciò che viene pubblicato oggi non ha alcun valore letterario. Dunque, che fare? Riscoprire autori colpevolmente dimenticati come Lorenzo Viani e Carlo Vallini può essere un modo per colmare il vuoto di questa nostra sciocca contemporaneità.
NOTE
[1] Knut Hamsun, Fame, in Knut Hamsun, Pan e altri racconti, trad. it. di Clemente Giannini, Sansoni Editore, Firenze 1966, pp. 486-488.
[2] Carlo Vallini, Un giorno, 1907.
[3]
Locvizza il 30 settembre 1916
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse
Giuseppe Ungaretti, In memoria, in Il porto sepolto, 1916.
[4] Lorenzo Viani, Parigi, a cura di Tiziano Gianotti, Ponte alle Grazie, Firenze 1994. Il libro è disponibile gratuitamente sulla biblioteca digitale Liber Liber. Non avete scuse.
In copertina: Lorenzo Viani, Consuetudine, 1907-1909.