“Uno sguardo verso Nord” è quello che un uomo in qualsiasi luogo volge in maniera del tutto ingenua verso un mondo quasi ignoto, poiché lontano dalla propria cultura, ma che getta un ponte per tentare di varcare l’argine utilizzando l’arte come zattera, in qualità ambasciatrice di quello che dovrebbe essere il Patrimonio storico e culturale di un luogo, e quindi la conoscenza del luogo stesso.
Il nostro sarà un viaggio attraverso i paesaggi, le luci, il tepore, il fumo dei camini e le debolezze dell’uomo, la resistenza della legna bagnata al fuoco e quella della neve ad un passo.
Nel percorso intrapreso fino ad ora, raramente il nostro orecchio ha catturato quei suoni antichi che provengono dal cuore della cultura mondiale, quella lingua yiddish che è il verbo degli ebrei dell’est europa, lituani, polacchi e, come in questo caso, scandinavi, alberi sradicati con accenti dell’est. Quest’oggi la pittura ci porterà in casa del pittore ebraico più importante dell’800 svedese, Ernst Josephson uno dei rari casi emersi in questa cultura per via del severo divieto biblico di ritrarre ritratti e affini. Ma Josephson non è un classico praticante, bensì di un ribelle scevro da usi e costumi classici e per questo interessante socialmente prima ancora che artisticamente.

Nato a Stoccolma nel 1851, ebbe fin da giovane l’opportunità di girare l’Europa per studiare pittura. Così in breve tempo arriva in Francia, Italia e soprattutto in Olanda dove resterà affascinato dalle meraviglie di Rembrandt. E fu proprio in uno di quei momenti probabilmente che venne rapito dalla ribellione e l’irriverenza giovanile, pronunciando una frase che lo renderà famoso alle future generazioni: “O diventerò il Rembrandt svedese oppure morirò!”. Parole piene di presunzione per certi versi, ma anche molto coraggiose.

Sfortunatamente si ammalò nel 1888, durante una visita in Bretagna, contraendo la sifilide. Questo è dovuto probabilmente allo stile di vita che era solito condurre. Sta di fatto che questo avvenimento peggiorerà le sue condizioni fisiche oltre che mentali, accrescendo il suo ego fino a condurlo ad un delirio sfrenato che lo porterà a credersi Dio sceso in terra oltre che Cristo. Fu successivamente condotto in ospedale dove gli fu diagnosticata la schizofrenia, malattia che lo condusse a cambiare drasticamente lo stile di vita, riducendolo spesso in stato di trance, ma che non gli impedirà di dipingere, anzi è proprio in questo periodo che dipinge le sue migliori opere.
Successivamente Josephson si dedicò anche alla scrittura. Durante la sua breve vita produsse “Svarta rosor” e “Gula rosor”, due raccolte di poesie, uscite rispettivamente nel 1888 e nel 1896. Il suo quadro più rappresentativo è probabilmente “Lo spirito dell’acqua”, che per assurdo non fu mai acquistato dal museo nazionale di Stoccolma. Secondo il mito, la musica di violino dello “spirito dell’acqua” ha il compito di attirare la gente in acqua, dove vederla annegare miseramente. La sua musica in questo caso duetta con il suono della cascata dietro di lui, mentre il corpo giovane e forte dello “spirito” androgino è avvolto dall’erba, sovrastato dagli schizzi dell’acqua.
L’espressione viva della sensualità e della sessualità scioccò il pubblico del tempo. Nel 1890, Nationalmuseum ne rifiutò una versione che fu acquistata però dal principe Eugenio. Un’altra versione di “Lo spirito dell’acqua” è nella collezione del Museo d’Arte di Göteborg, un’altra ancora è al Nationalmuseum di Stoccolma nel 1915.
In quest’opera e nei suoi tratti si sono spesso intraviste delle similitudini con il lavoro del norvegese Edvard Munch, tanto da essere spesso soprannominato il “Munch ebreo”.
In sintesi il suo lavoro è importante perché funge da ponte per il nascente Espressionismo, ma anche i suoi studi quasi antropologici dedicati alla vita folk ebraica, fino ad allora rimasta quasi esclusivamente un tabù, apriranno una porta di questa cultura al mondo dell’arte. E’ uno sguardo su un’universo scomparso da un anomalo osservatore.