Nel 1575, anno in cui termina di scrivere Il Goffredo (poema pubblicato poi nel 1581, contro la volontà dell’autore, con il titolo Gerusalemme liberata), Torquato Tasso è all’apogeo del successo. Al tempo stesso però le sue condizioni psicologiche iniziano a subire misteriosi e preoccupanti scompensi. Nello stesso anno si reca a Roma, per sottoporre il poema all’attenzione di alcuni noti letterati dell’epoca. L’anno seguente scrive un’artefatta Allegoria. Nel 1577, ancora incerto, tormentato da annosi dubbi sulla propria fede, si fa addirittura esaminare dall’Inquisitore di Ferrara, che lo assolve. Nonostante l’assoluzione, è colto da crisi di «mal farnetico». Crisi evidentemente così numerose e violente da portare alla reclusione di Tasso, prima in una stanza del Castello Estense, poi nel convento di San Francesco. Il poeta riesce però a fuggire. Lascia Ferrara e si rifugia a Sorrento, la città natale, presso la sorella. Poi si lancia in una serie di pellegrinaggi – Mantova, Urbino, Torino – il cui scopo è la ricerca di nuovi protettori. Provato da tanto e indefesso girovagare, spossato dalla malattia, Tasso nel 1579 rientra a Ferrara. Il Duca Alfonso II d’Este lo rinchiude nello Spedale di Sant’Anna, nell’ala riservata ai malati di mente, dichiarandolo «pazzo». Sette anni di dura prigionia, in cui però l’attività letteraria di Tasso non si arresta, anzi: durante la lunga e gravosa reclusione egli scrive la maggior parte dei Dialoghi e numerose Rime.
Tra i Dialoghi più celebri risalenti a questo periodo, vi è certamente Il Messaggiero (1580), in cui Tasso discorre con il suo «gentile spirto», che gli appare nella sua angusta cella sotto forma di giovane, «ne’ confini de la fanciulezza e de la gioventù», dalle fattezze angeliche. È questo il Dialogo che ispirerà Giacomo Leopardi nella scrittura di quella meravigliosa Operetta che è il Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare (1824).
Sono numerosi i temi affrontati in questo testo: i rapporti tra la realtà e il sogno, il ruolo degli angeli e dei demoni nell’universo, la creazione del mondo e dell’anima, l’ufficio dei «messaggieri» celesti, le funzioni e i compiti dell’ambasciatore in relazione alla natura del signore per cui si lavora.
Tasso inoltre, in un passo del Dialogo davvero eccezionale, parla della propria malattia, definita, in un momento di estrema lucidità, con disarmante sincerità, «nova pazzia». Leggiamo il passo in questione.
«E certo egli non si può negare che non si dia alcuna alienazione di mente, la quale, o sia infirmità di pazzia, come quella d’Oreste e di Penteo, o sia divino furore, come quello di coloro che da Bacco o da l’Amor son rapiti, è tale che può non meno rappresentar le cose false per vere di quel che faccia il sogno; anzi pare che via più possa farlo, perché nel sonno solo i sentimenti son legati, ma nel furore la mente è impedita: ond’io dubiterei forte che, se fosse vero quel che communemente si dice de la mia follia, la mia visione fosse simile a quella di Penteo o d’Oreste. Ma perché di niun fatto simile a quelli d’Oreste e di Penteo sono consapevole a me stesso, come ch’io non nieghi d’esser folle, mi giova almeno di credere che questa nova pazzia abbia altra cagione. Forse è soverchia maninconia, e i maninconici, come afferma Aristotele, sono stati di chiaro ingegno ne gli studi de la filosofia e nel governo de la republica e nel compor versi; ed Empedocle e Socrate e Platone furono maninconici; e Marato poeta ciciliano allora era più eccelente ch’egli era fuor di sé, anzi quasi lontano da se stesso; e molti anni dapoi Lucrezio s’uccise per maninconia; e Democrito caccia di Parnaso i poeti che sian savi. Né solo i filosofi e i poeti, ma gli eroi, come dice l’istesso Aristotele, sono infestati dal medesimo vizio: e fra gli altri Ercole, dal quale il mal caduco fu detto erculeo. Si possono anche tra’ maninconici annoverare Aiace e Belloferonte: l’uno de’ quali divenne pazzo a fatto; l’altro era solito d’andare pe’ luoghi disabitati, laonde poteva dire:
Solo e pensoso i più deserti campi
Vo misurando a passi tardi e lenti,
E porto gli occhi per fuggire intenti
Ove vestigio uman l’arena stampi.
E per fermo non fu più faticosa operazione il vincer la chimera che ‘l superar la maninconia, la qual più tosto a l’idra ch’a la chimera potrebbe assomigliarsi, perch’a pena il maninconico ha tronco un pensiero che due ne sono subito nati in quella vece, da’ quali con mortiferi morsi è trafitto e lacerato. Comunque sia, coloro che non sono maninconici per infermità ma per natura, sono d’ingegno singolare, e io son per l’una e per l’altra cagione: laonde in parte vo consolando me stesso. E quantunque io non sia pieno di soverchia speranza, come si legge d’Archelao re di Macedonia, nondimeno io non sono così freddo e gelato ch’io sia costretto ad uccidermi, ma a guisa di cacciatore il quale abbia lanciato il dardo mi par di aver fatto preda prima ch’io abbia presa la fera con le mani, e mi par di antiveder di lontano le cose simili e le consequenti: e facendo imagini e sogni infiniti, come credo pur che sia questo, a guisa d’arciero che saetti tutto il giorno colpirò per aventura una volta il segno de’ miei pensieri» [1].
La «pazzia» di cui è vittima Tasso è «nova» perché differente da quella dei due celebri personaggi del mito Oreste e Penteo. La «pazzia» del poeta ha un’«altra cagione», e si tratta forse di «soverchia maninconia» [2]. Dopo questa lucidissima analisi, il passo assume toni commoventi. Tasso, rinchiuso in un manicomio, isolato, almeno fisicamente, dal mondo intero, tenta di riabilitare se stesso, e cita numerosi casi di illustri «maninconici». Ed è straordinario il paragone della «maninconia» con l’idra, il mostro mitologico dalle numerose teste che, se tagliate, rinascono.
Tasso continua nella sua auto-analisi. Puntualizza che, sebbene sia del tutto privo di speranza, non è così «freddo e gelato» [3] da anelare al suicidio. Infine descrive i sintomi, servendosi della diffusa metafora della caccia e del bersaglio, concludendo con un toccante augurio: «colpirò per aventura una volta il segno de’ miei pensieri».
Nei secoli successivi Torquato Tasso diverrà un vero e proprio mito, soprattutto per i romantici, che in lui vedranno l’emblema del malinconico (in tal senso si veda il significativo dipinto di Delacroix riprodotto in copertina). E ancora oggi la sua vicenda esistenziale, tra le più singolari dell’intera storia della letteratura, riesce ad affascinare come poche altre.
NOTE
[1] Torquato Tasso, Il Messaggiero, in Dialoghi, a cura di Bruno Basile, Gruppo Ugo Mursia Editore, Milano 1991, pp. 48-50.
[2] Secondo la medicina antica l’atrabile, l’umor nero.
[3] La bile nera, fredda e secca, poteva raggelarsi e portare il melanconico al suicidio.
In copertina: Eugène Delacroix, Tasso nello Spedale di Sant’Anna, 1839.