ogni amore è onesto e ogni amatore è giusto, perché ogni vero amore è bello e condecente, e propriamente le cose a sé simili ama.
Marsilio Ficino, El libro dell’amore, 1491.
Il pensiero
Accanto a Nicola Cusano [1], l’altro maggior esponente del platonismo rinascimentale fu Marsilio Ficino (1433-1499). Prolifico traduttore, riportò infatti in latino i Dialoghi di Platone, le Enneadi di Plotino e diverse altre opere, concentrò le sue attenzioni sul processo di rinnovamento tra religione e filosofia, unite in un sodalizio “sacro” che ha lo scopo di restaurare innanzitutto l’uomo e il mondo che gli appartiene.
Secondo Ficino l’intera realtà è suddivisa in quelli che potremmo definire livelli. Nell’ordine: corpo, qualità, anima, angelo e Dio. Trovandosi esattamente al centro di tale costruzione, l’anima rappresenta il fulcro della creazione, la «copula del mondo», come la definisce lo stesso pensatore, e per questo è indistruttibile e infinita, immune al trascorrere del tempo e ai suoi effetti devastanti.
La forza, la potenza che interviene a unire in maniera equilibrata e armoniosa tra loro tutte le parti della creazione è l’amore. È proprio a causa dell’amore che l’universo nel suo insieme si spinge a Dio, estraendosi così dal caos, organizzandosi e raggiungendo un ordine completo, realizzato e ideale. Inoltre, per amore Dio accudisce il mondo sistemandolo e donandogli la vita.
Se l’originario neoplatonismo poneva al centro della sua visione filosofica Dio, l’ente metafisico par excellence, Ficino, come Cusano, opta per un riposizionamento, un accentramento dell’uomo, essere mediatore tra i gradi della realtà, capace di provare e diffondere amore. L’individuo è essenziale per l’ordine e l’unione dell’essere, il quale, se deve ancora moltissimo al Creatore, raggiunge la sua perfezione nella realizzazione umana, e nell’affetto amoroso che lo tiene stretto a Dio. Certo, l’uomo deve muoversi entro certi confini, è un individuo per forza di cose limitato, ma tale limitazione rappresenta, per Ficino come ancora per Cusano, la singolare caratteristica dell’umanità, nonché l’ideale fondante delle sue virtù e, soprattutto, della sua libertà.
El libro dell’amore
L’opera nella quale Ficino espone il più esaustivamente possibile la sua teoria dell’amore, l’aspetto più originale della sua filosofia, dunque quello sul quale vale la pena soffermarsi un istante, è El libro dell’amore (1491). Suddiviso in sette orazioni, il testo esamina a fondo, e con grande entusiasmo, le caratteristiche dell’amore, lanciandosi spesso in una celebrazione del Dio cristiano e della sua sconfinata e incommensurabile bellezza. Di seguito, propongo alcuni brani fondamentali estratti dall’opera, attraverso i quali comprendere meglio, e soprattutto concretamente, la filosofia di Ficino.
Proemio
«Sogliono e mortali quelle cose che generalmente e spesso fanno dopo lungo uso farle bene, e quanto più le frequentano, tanto farle meglio. Questa regola per la nostra stoltitia e ad nostra miseria falla nello amore. Tutti continuamente amiamo in qualche modo, tutti quasi amiamo male e quanto più amiamo tanto peggio amiamo, e se uno in centomila ama rectamente, perché questa non è comune usanza, non si crede. Questo monstruoso errore, guai ad noi, ci adviene perché temerariamente entriamo prima in questo faticoso viaggio d’amore che impariamo el termine suo, e modo di camminare, e e pericolosi passi del cammino.
E però quanto più andiamo tanto più, omè miseri, ad nostro gran danno erriamo. Tanto più importa lo sviarsi per questa selva obscura che per gli altri viaggi, quanto più numero e più spesso ci cammina.
El sommo amore della providentia divina, per ridurci alla diritta via da noi smarrita, anticamente spirò in Grecia una castissima donna chiamata Diotima, sacerdote, la quale da Dio spirata, trovando Socrate philosopho dato sopra tutti allo amore, gli dichiarò che cosa fussi questo ardente desiderio e per che via ne possiamo cadere al sommo male, e per che via ne possiamo salire al sommo bene. Socrate rivelò questo sacro mysterio al nostro Platone, Platone, philosopho sopra gli altri pio, subito uno libro per rimedio de’ Greci ne compose. Io per rimedio de’ Latini el libro di Platone di greca lingua in latino tradussi e, confortato dal nostro magnifico Lorenzo de’ Medici, e mysterii che in decto libro erano più difficili comentai, e acciò che quella salutifera manna a Diotima dal cielo mandata a più persone sia comune e facile, ho tradocto di latina lingua in toscana e decti platonici mysterii insieme col comento mio. El qual volume dirizzo principalmente ad voi Bernardo del Nero e Antonio Manetti, dilectissimi miei, perché son certo che l’amore el quale vi manda el vostro Marsilio Fecino con amore riceverete, e darete ad intendere a qualunque persona presumessi leggere questo libro con negligentia o con hodio, che non ne sarà capace in sempiterno; imperò che la diligentia dello amore non si comprende colla negligentia, e esso amore non si piglia con l’odio. El Santo Spirito, Amore Divino, el quale spirò Diotima, ci allumini la mente e accenda la volontà in modo che amiamo Lui in tutte le sue opere belle, e poi amiamo l’opere sue in Lui, e infinitamente godiamo la infinita sua bellezza» [2].
Nel Proemio dell’opera c’è un evidente richiamo all’incipit della Commedia dantesca. Palese l’accenno alla «selva», e la necessità di ritornare alla «diritta via da noi smarrita». In questo senso, il cenno manifesto al poema di Dante, simboleggia la volontà di intraprendere un percorso, un viaggio che riporti dalle tenebre alla luce, alla salvezza, alla grazia.
Il secondo richiamo evidente è quello al Simposio di Platone, dialogo tradotto in latino da Ficino. Viene in particolar modo citata Diotima, colei che nell’importante testo platonico spiega l’amore niente di meno che a Socrate. Ebbene, la donna rivela la vera natura di Eros, definito come via di mezzo, Dèmone nato dall’unione tra Poro, l’Abbondante e Penia, la Povertà. A questo punto è d’obbligo riportare il passo in questione, tratto dal Simposio di Platone. A parlare è ovviamente Diotima.
«Va un po’ per le lunghe, pure te la racconto. Quando nacque Venere, banchettarono gl’Iddii: fra gli altri ci era Poro, o l’Abbondante, il figliuolo di Meti, o della Sapienza. Mangiato ch’ebbero, se ne venne Penia, o la Povertà, ad accattare, come si è usati fare ai banchetti; e se ne stava alla porta. Avvenne caso che Poro, inebbriato dal nettare (che non ce ne aveva ancora del vino), entratosene negli orti di Giove, gravato com’era, sdraiossi e s’addormentò. La Povertà, pungendola il bisogno, fe’ disegno d’avere un figliolo da Poro: vassene pian piano, e giace con lui e concepí Amore: e però Amore è compagno e ministro di Venere; e da poi che fu generato nelle natalizie di lei, ed è per natura amante della bellezza, ama Venere, che è bella. E perciò che Amore è figliuolo di Poro e di Penia, il suo destinato è questo: primieramente d’essere povero sempre, e tutt’altro che tenerello e bello, quale se lo figurano molti, è duro, squallido, scalzo, e senza casa; e gittasi in terra, senza copertoio, accosto agli usci o in mezzo della via, e dorme al sereno; e in ciò ritrae della madre; e compagna sua, che non gli si spicca mai dal fianco, è l’Inopia. Per padre poi, egli è insidiatore ai belli e ai buoni, forte essendo, audace, subitaneo e collerico, valente cacciatore, intento sempre a parare lacciuoli, uno curioso di sapere, un che si tira via d’ogni impiccio, un che il tempo passa a filosofeggiare, incantatore spaventoso, maestro di veleno, sofista. Egli non nacque immortale né mortale, e in uno stesso giorno fiorisce, quando tutto gli dice bene, e va in rigoglio, muore e rivivisce; perciò che ritrae di suo padre: e le ricchezze che procura gli scappan via, ché ha le mani forate tanto che Amore né è povero mai, né è ricco. Sta poi in mezzo alla sapienza ed alla ignoranza: ecco come. Nessun Dio ama la sapienza, né desidera diventare sapiente; che è già; e se v’ha alcuno altro sapiente, la sapienza egli non l’ama; e neppure l’amano gl’ignoranti, né desiderano essi diventare sapienti; che in ciò appunto l’ignoranza danneggia, ché ella fa che chi non è bello, buono, prudente, si creda già d’essere a perfezione, e però non desidera quello di che non pare a lui patire mancamento né avere bisogno» [3].
Oratione I – Capitolo IV – Della utilità d’amore
«Abbiamo insino a hora della sua origine e nobiltà parlato; della sua utilità stimo già sia da disputare. Certamente superfluo sarebbe narrare tutti e beneficii che l’amore arreca alla humana generatione, maxime potendo in somma tutti ridurgli. Perché l’uficio della vita humana consiste in questo: che ci scostiamo dal male e accostiànci al bene. El male dell’uomo è quello che è inonesto, e quello che è il suo bene è l’onesto. Sanza dubio tutte le leggi e discipline non d’altro si sforzano che dare agli huomini tali instituti di vita che dalle cose brutte si guardino, e le honeste mandino ad executione. La qual cosa finalmente appena con grande spatio di tempo, legge e scientie quasi innumerabili possono conseguire, e esso semplice amore in brieve mette ad effecto. Perché la vergogna delle cose turpe, cioè brutte, rimuove, e il desiderio dell’essere excellente alle honeste gli huomini tira. Queste due cose non per alcuno altro modo che per amore possono gli huomini con più facilità o prestezza conseguire. Quando noi diciamo amore, intendete desiderio di bellezza, perché così apresso di tutti e philosaphi è la diffinitione d’amore; e la bellezza è una certa gratia la qual maximamente el più delle volte nasce dalla conrispondentia di più cose; la qual conrispondentia è di tre ragioni. Il perché la gratia che è negli animi è per la conrispondentia di più virtù; quella che è ne’ corpi nasce per la concordia di più colori e linee. Ancora gratia grandissima ne’ suoni per la consonantia di più voci apparisce. Adunque di tre ragioni è la bellezza: cioè degli animi, de’ corpi e delle voci. Quella dell’animo con la mente solo si conosce; quella de’ corpi con gli occhi; quella delle voci non con altro che con gli orecchi si comprende. Considerato adunque che la mente, el vedere e l’udire sono quelle cose con le quali sole noi possiamo fruire essa bellezza, e l’amore di fruire la bellezza desiderio sia, l’amore sempre della mente, occhi e orecchi è contento. Or che gli fa bisogno d’odorare, di gustare o di toccare, con ciò sia che questi sensi non altro che odori, sapori, caldo e freddo, molle e duro o simil cose comprendino? Nessuna di queste cose adunque, da poi ch’elle sono semplice forme, è la bellezza humana; maxime considerato che la pulcritudine del corpo humano richiegga concordia di varii membri, e l’amore riguardi la fruitione della bellezza come suo fine. Questa solo alla mente e al vedere e allo udire s’apartiene. Lo amore adunque in queste tre cose si termina.
E lo appetito che gli altri sensi seguita non amore, ma piuttosto libidine o rabbia si chiama. Oltre ad questo, se lo amore inverso lo huomo desidera essa bellezza humana, e la bellezza del corpo humano in una certa conrispondentia consiste, e la conrispondentia è certa temperantia, seguita che non altro appetisca amore se non quelle cose le quali sono temperate, modeste e onorevoli. Sì che e piaceri del gusto e tacto che sono voluptà, cioè piaceri tanto vehementi e furiosi che la mente del proprio stato rimuovono, e l’uomo perturbano, non solo non le desidera amore anzi l’ha in abbominatione, e quelle fugge come cose che per la loro intemperanza sono contrarie alla bellezza. La rabbia venerea, cioè luxuria, tira gli huomini alla intemperanza, e per conseguente alla inconrispondentia; il perché similmente pare che alla deformità, cioè bruttezza, gli huomini tiri, e amore alla bellezza: la deformità e la pulchritudine sono contrarii.
Questi movimenti adunque che alla deformità e pulchritudine ci rapiscono, medesimamente appariscono intra loro essere contrarii. Per la qual cosa l’appetito del coito e lo amore non solamente non sono e medesimi moti, ma essere contrarii si mostrano. E questo testificano gli antichi theologi e quali a Dio el nome d’Amore hanno attribuito. La qual cosa ancora e cristiani theologi sommamente confermano, e nessuno nome comune con le cose disoneste è conveniente a Dio. E però ciascuno che è d’intellecto sano si debba guardare che l’amore, certamente nome divino, alle stolte perturbationi scioccamente non transferisca. Vergognisi adunque Dicearco e qualunque altro ha ardire di riprendere la maestà di Platone, che abbi troppo allo amore attribuito. Imperò che agli affecti onesti, onorevoli e divini, non solamente troppo, ma abastanza mai attendere non possiamo. Di qui nasce che ogni amore è onesto e ogni amatore è giusto, perché ogni vero amore è bello e condecente, e propriamente le cose a sé simili ama. Ma lo sfrenato incendio dal quale agli acti lascivi siamo tirati, con ciò sia che egli tragga alla deformità, giudicasi alla bellezza essere contrario. Acciò che adunque noi ritorniamo qualche volta alla utilità d’amore, el timore della infamia che dalle cose inoneste ci discosta, e el desiderio della gloria che alle honorevoli imprese ci fa caldi, agevolmente e presto da amore procedono. E prima perché amore appetisce le cose belle, sempre le laudabili e magnifiche desidera; e chi ha in odio le deforme, necessario è che le disoneste e spurche sempre fugga. Ancora se due insieme s’amano, l’uno all’altro con diligentia attendono, e doversi piacere scambievolmente desiderano: in quanto l’uno dall’altro è atteso, come quegli che mai non mancano di testimonianza, sempre si guardano dalle disoneste cose; in quanto ciascuno di piacere all’altro s’ingegna, sempre con ogni sollecitudine e diligentia alle magnifiche si mettono, acciò che e’ non sieno a disprezzo alla persona amata, ma d’essere degni di reciproco amore si stimino. Ma questa ragione copiosissimamente la dimostra Phedro, e pone tre exempli d’amore: uno di femmina di maschio innamorata, dove parla d’Alceste moglie di Admeto, la qual fu contenta morire pe’ l suo marito; l’altro di maschio innamorato di femmina, come fu Orfeo di Euridice; terzo di maschio a maschio come fu Patroclo d’Achille, dove dimostra nessuna cosa quanto amore rendere gli huomini forti. Ma l’allegoria d’Alceste o d’Orfeo al presente non ricercheremo; imperò che queste cose, narrandole come storie, molto più mostrano la forza e lo ’mperio d’amore che volendo a quelle sensi allegorici dare. Adunque confessiamo al tutto che Amore sia iddio grande e mirabile; ancora nobile e utilissimo, e in tal modo allo amore opera diamo che del suo fine, che è essa bellezza, rimaniamo contenti.
Questa bellezza con quella parte solo con la quale è conosciuta si fruisce, con la mente e col vedere e con l’udire la conosciamo. Adunque con questi tre la possiamo fruire; con gli altri sensi non la bellezza, la quale desidera amore, ma più tosto qualche altra cosa che fa bisogno al corpo possediamo. Con questi tre adunque la bellezza cercheremo, e per quella che si mostra ne’ corpi o nelle voci, come per certi vestigi, cioè mezzo conveniente, quella dell’animo investighereno. Lodereno la corporale e quella approvereno, e sempre ci sforzereno d’observare che tanto sia l’amore quanto sia essa bellezza; e dove non l’animo ma solo el corpo fussi bello, quello come ombra e caduca imagine della bellezza appena e leggermente amiamo; dove solamente fussi l’animo bello, questo perpetuo ornamento dell’animo ardentemente amiamo; e dove l’una e l’altra bellezza concorre, vehementissimamente piglieremo admiratione. E così procedendo dimostreremo che noi siamo in verità famiglia platonica, la qual certamente non altro pensa che cose liete, celeste e divine. E questo basti quanto alla oratione di Phedro. Adunque vegnamo a Pausania» [4].
In questo passo Ficino fonda la dissertazione sull’opposizione tra bene e male, sostenendo come «l’uficio della vita humana consiste in questo: che ci scostiamo dal male e accostiànci al bene.» E la massima espressione della bontà è proprio l’amore, del quale il filosofo fornisce la sua definizione: «Quando noi diciamo amore, intendete desiderio di bellezza, perché così apresso di tutti e philosaphi è la diffinitione d’amore».
Sempre riguardo al capitolo IV della I orazione, è interessante porre l’attenzione su due affermazioni di Ficino, «che ogni amore è onesto e ogni amatore è giusto, perché ogni vero amore è bello e condecente, e propriamente le cose a sé simili ama», e che «amore appetisce le cose belle, sempre le laudabili e magnifiche desidera». Da questi passi è possibile comprendere tutta la nobiltà e la sacralità del sentimento amoroso. Inoltre, oltre al richiamo platonico, vedo in queste affermazioni un richiamo a Dante, già citato nel Proemio. Ficino infatti rielabora i mitici due assiomi dell’amore sostenuti dall’autore fiorentino – per bocca di Francesca – nel celebre Canto V dell’Inferno della Commedia: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende» e «Amor, ch’a nullo amato amar perdona» (vv. 100 e 103) [5].
Oratione II – Capitolo II – Come la bellezza di Dio partorisce l’amore
«E questa spetie divina, cioè bellezza, in tutte le cose l’amore, cioè desiderio di sé, ha procreato. Imperò che se Idio ad sé rapisce el mondo e el mondo è rapito da lui, un certo continuo attraimento è tra Dio e el mondo, e da Dio comincia e nel mondo passa, e finalmente in Dio termina, el quale come per un certo cerchio donde si partì ritorna. Sì che un cerchio solo è quel medesimo da Dio nel mondo, e dal mondo in Dio, e in tre modi si chiama: in quanto e’ comincia in Dio e allecta, bellezza; in quanto e’ passa nel mondo e quello rapisce, amore; in quanto, mentre che e’ ritorna nell’Auctore, a·Llui congiugne l’opera sua, dilectatione. L’amore adunque cominciando dalla bellezza termina in dilectatione. E questo intese Ieroteo e Dionisio Ariopagita in quel loro inno preclaro, nel quale così questi teologi cantarono: “Amore è un cerchio buono el quale sempre da bene in bene si rivolta”. E necessario è che l’amore sia buono, con ciò sia che lui, nato da bene, si ritorni in bene; perché quel medesimo iddio è la bellezza el quale tutte le cose desiderano, e nella cui possessione tutte si contentono, sì che di qui el nostro desiderio s’accende, qui l’ardore degli amanti si riposa: non che si spenga, ma perché e’ s’adempie. E non sanza ragione Dionisio aguaglia Iddio al sole: imperò che sì come el sole illumina e corpi e scalda, similmente Iddio lume del vero agli animi concede e ardore di carità. Questa comparazione del sexto libro della Republica di Platone certamente in questo modo come udirete si trae. Veramente el sole e corpi visibili crea, e così gli occhi co’ qual’e’ si vede; e acciò che gli occhi veghino infonde in loro spirito rilucente, e acciò che e corpi sieno veduti questi di colore gli dipigne. Né ancora el proprio razzo agli occhi, né e proprii colori a’ corpi all’uficio del vedere sono abastanza, se già quello lume che è uno sopra tutti e lumi, dal quale lume molti e proprii lumi agli occhi e a’ corpi sono distribuiti, in loro non discenda e quegli inlumini, desti e aumenti. In questo medesimo modo quel primo acto di tutte le cose el quale si dice Idio, producendo le cose, a ciascuna ha donato spetie e acto, el quale acto certamente è debole e impotente alla executione dell’opera, perché da cosa creata e da patiente subiecto fu ricevuto. Ma la perpetua e invisibile unica luce del divino sole sempre a tutte le cose, con la sua presentia, dà conforto e vita e perfectione. Della qual cosa divinamente cantò Orfeo, dicendo esso Iddio confortare tutte le cose e sé sopra tutte spandere. In quanto Iddio è acto di tutte le cose e quelle aumenta, si chiama bene; in quanto egli secondo le loro possibilità le fa deste, vivaci, dolce e grate e tanto spirituali quanto esser possono, si dice bellezza; in quanto egli allecta quelle tre potentie dell’anima, mente, viso e audito, agli obiecti che hanno a essere conosciuti, pulchritudo si chiama; e in quanto, essendo nella potentia che è apta al conoscere, quella congiugne alla cosa conosciuta, si chiama verità. Finalmente come bene crea e regge e dà alle cose perfectione, come bello le illumina e dà loro gratia» [6].
L’amore dunque parte dalla bellezza divina, propria del Creatore. La bellezza, altro concetto fondamentale senza il quale è impossibile provare affetto. In questo passo Ficino spiega inoltre le modalità di diffusione dell’amore di Dio all’uomo e al mondo. Dio emana il suo sentimento che raggiunge gli uomini irradiandoli di una splendente luce divina, tornando poi in sé, come inserito in un tragitto circolare che prosegue all’infinito. Ed è così che gli uomini ricevono l’affetto divino e ricambiano. L’amore è necessariamente reciproco, senza una delle due componenti coinvolte molto semplicemente non esisterebbe.
L’amore muove dalla bellezza di Dio, e «termina in dilectatione.» Fine ultimo dell’affetto devono essere infatti il diletto e il piacere, senza queste due sensazioni finali l’amore non avrebbe senso di esistere.
NOTE
[1] Per un approfondimento su Cusano si veda l’articolo Nicola Cusano, il maggior esponente del platonismo rinascimentale.
[2] Marsilio Ficino, El libro dell’amore, a cura di Sandra Niccoli, Olschki, Firenze 1987.
[3] Platone, Convito, tratto da Platone, Dialoghi, a cura di Carlo Carena, CDE, Milano 1988.
[4] Marsilio Ficino, El libro dell’amore, a cura di Sandra Niccoli, Olschki, Firenze 1987.
[5] Per una lettura e un’analisi del canto V dell’Inferno si veda l’articolo Divina domenica – Inferno – Canto V.
[6] Marsilio Ficino, El libro dell’amore, a cura di Sandra Niccoli, Olschki, Firenze 1987.
In copertina: Gustave Doré, Rosa celeste.