1. Il Libro dell’inquietudine (Livro do desassossego in portoghese) è un libro strano e straniante. Sorta di «non-libro», «libro impossibile», «testo-agonia», «testo suicida» [1], scritto da Bernardo Soares, semieteronimo di Fernando Pessoa. L’uomo del mezzanino questo Bernardo Soares, modesto aiuto contabile nella città di Lisbona (una piccola Lisbona, circoscritta a pochissimi luoghi), che appare a Pessoa «ogni volta che mi sento stanco o insonnolito, allorché le mie qualità di raziocinio e inibizione si sono un po’ allentate; la sua prosa è un continuo vaneggiamento» [2].
2. Il Libro dell’inquietudine è la testimonianza di una d-esistenza sospesa, vissuta, oscillando tra il tedio e l’angoscia, nell’intervallo tra essere e non essere, stato intermedio, come intermedio è il luogo abitato da Bernardo Soares, il mezzanino, di nuovo. Una congerie di frammenti che si rincorrono, o meglio, si calpestano l’un l’altro al di fuori di ogni logica, senza un inizio né una fine, ovviamente.
3. Il Libro dell’inquietudine sancisce il fallimento dell’esperimento eteronimico, quell’esperimento a cui, fino alla metà degli anni Venti, Fernando Pessoa aveva affidato l’integrità della propria coscienza, in realtà esplosa [3], sulla scia di quella crisi dell’individuo e della storia sintetizzata dalla geniale formula di Nietzsche «Dio è morto» [4], e con lui l’uomo, certo.
4. D-esiste tra Bernardo Soares, in una solitudine perfetta, cosmica, nella quale tutti gli altri individui – principali, colleghi, fattorini, passanti – sfilano inconsistenti come ombre. E nell’epoca della crisi di tutti i valori, l’inattuale aiuto contabile di Rua dos Douradores se ne inventa di nuovi: l’insensatezza, l’inazione, l’indifferenza. Ripiegato su se stesso, fondale del Nulla, egli vive in negativo.
Ora, tra tutti gli innumerevoli frammenti che compongono il Libro dell’inquietudine, ce n’è uno che reputo emblematico più di tutti gli altri, e che racchiude quanto detto finora. Bernardo Soares osserva – la vista è il suo senso – due «creature» sedute al tavolo da tè e ne immagina la conversazione. L’irrealtà è più reale della realtà stessa, e quello di Soares, «più che un lavoro letterario, è un lavoro da storico».
366.
Non faccio conoscere ai miei sentimenti ciò che farò loro sentire… Gioco con le mie sensazioni come una principessa molto annoiata con i suoi grandi gatti agili e crudeli…
Chiudo immediatamente le porte dentro di me, laddove certe sensazioni devono passare per realizzarsi. Ritiro bruscamente dal loro cammino gli oggetti spirituali che imprimeranno loro certi gesti.
Piccole frasi prive di senso, introdotte nelle conversazioni che supponiamo stiano facendo; affermazioni assurde fatte delle ceneri delle altre che già di per sé non significano niente…
– Il suo sguardo ha qualcosa della musica suonata a bordo di un battello in mezzo a un fiume misterioso con foreste sulla riva opposta…
– Non dica che una notte di chiardiluna è fredda. Non sopporto le notti di chiardiluna… C’è realmente chi ha l’abitudine di suonare musica nelle notti di chiardiluna…
– Anche questo è possibile… Ed è deplorevole, è chiaro… Ma il suo sguardo ha realmente il desiderio della persona nostalgica di qualche cosa… Gli manca il sentimento che esprime… Trovo nella falsità della sua espressione una quantità di illusioni che ho avuto…
– Mi creda, a volte sento quel che dico, e persino, nonostante sia donna, quello che dico con lo sguardo…
– Non sarà crudele con se stessa? Noi sentiamo realmente ciò che pensiamo che stiamo sentendo? Questa nostra conversazione, per esempio, ha sembianze di realtà? Non le ha. In un romanzo non sarebbe tollerata.
– Giustamente… Io non ho la certezza assoluta di stare a parlare con lei, guardi… Nonostante sia donna, mi sono creata un certo dovere di essere la figura di un libro di immagini di un disegnatore folle… Ho in me particolari esageratamente nitidi… Lo so, dà un po’ l’impressione di una realtà eccessiva e quasi forzata… Credo che l’unica cosa degna di una donna contemporanea sia questo ideale di essere immagine. Quando ero bambina volevo essere la regina di un seme qualsiasi di un mazzo di carte vecchie che era nella mia casa… Credevo fosse necessaria un’araldica realmente compassionevole… Ma quando si è bambini, si hanno simili aspirazioni morali… Solo in seguito, nell’età in cui le nostre aspirazioni sono tutte immorali, pensiamo seriamente a questo…
– Io, siccome non parlo mai ai bambini, credo nel loro istinto artistico… Sa, mentre sto parlando, proprio adesso, cerco di penetrare l’essenza intima delle cose che mi stava dicendo… Mi perdona?
– Non del tutto… non si devono mai scoprire i sentimenti che gli altri fingono di avere. Sono sempre troppo intimi… Creda, mi arreca realmente dolore stare a fargli queste confidenze intime, che, sebbene tutte false, rappresentano veri brandelli della mia povera anima… In fondo, mi creda, ciò che siamo di più doloroso è ciò che non siamo realmente, e le nostre maggiori tragedie si verificano nella nostra idea di noi.
– Questo è assolutamente vero… Perché dirlo? Mi ha ferito. Perché privare la nostra conversazione della sua irrealtà costante? In questo modo è quasi una conversazione possibile, fatta a un tavolo da tè, tra una bella donna e un immaginatore di sensazioni.
– Sì, certo… Ora tocca a me chiedere perdono… Ma guardi che ero distratta e non mi sono accorta davvero di aver detto una cosa giusta… Ma, cambiamo argomento… Quanto è sempre tardi! Non si arrabbi di nuovo… Guardi che questa mia frase non voleva avere assolutamente alcun senso…
– Non mi chieda scusa, non faccia caso a ciò che stiamo dicendo… Ogni buona conversazione deve essere un monologo a due… In fondo, non dobbiamo poter avere la certezza se conversiamo realmente con qualcuno o se la conversazione è del tutto immaginaria… Le migliori e le più intime conversazioni, e soprattutto le meno moralmente istruttive, sono quelle che i romanzieri intessono fra due personaggi delle loro novelle… Come ad esempio…
– Per l’amor di Dio! Non mi citerà certo degli esempi… Questo si fa solo nelle grammatiche; non so se ricorda che non le abbiamo neppure mai lette.
– Ha mai letto una grammatica?
– Mai. Ho sempre avuto una profonda avversione a conoscere come si dicono le cose… La mia unica simpatia, nelle grammatiche, andava alle eccezioni e ai pleonasmi… Sfuggire alle regole e dire cose inutili riassume bene l’attitudine essenzialmente moderna… Non è così che si dice?…
– Assolutamente… Ciò che c’è di antipatico nelle grammatiche (ha già fatto caso alla deliziosa impossibilità di stare a parlare di questo argomento?) – ciò che di maggiormente antipatico c’è nelle grammatiche è il verbo, i verbi… Sono le parole che danno significato alle frasi… Una frase onesta deve sempre poter ammettere vari significati… I verbi!… Un mio amico che si è suicidato – ogni volta che ho una conversazione un po’ lunga suicido sempre un amico – aveva avuto l’intenzione di dedicare tutta la sua vita a distruggere i verbi…
– Lui perché si è suicidato?
– Aspetti, ancora non lo so… Lui voleva scoprire e fissare il modo di non completare le frasi senza dare a vedere di farlo. Era solito dirmi che ricercava il microbo della significazione… Si è suicidato, ovviamente, perché un giorno ha riflettuto sull’immensa responsabilità che prendeva su di sé… per l’importanza del problema gli ha dato di volta il cervello… Un revolver e…
– Ah, no… Questo assolutamente no… Non vede che non poteva essere un revolver?… Un simile uomo non si sparerebbe mai un colpo in testa… Lei non se ne intende molto degli amici che non ha mai avuto… È un difetto grande, sa?… La mia migliore amica – una deliziosa ragazza che ho inventato… –
– State bene insieme?
– Per quello che è possibile… Ma questa ragazza, non immagina, […]
Le due creature che stavano al tavolo da tè certamente non hanno avuto questa conversazione. Ma erano così composte e ben vestite che era un peccato che non parlassero così… Per questo ho scritto questa conversazione perché loro l’avessero avuta… I loro atteggiamenti, i loro piccoli gesti, i loro sguardi e sorrisi puerili, momenti di conversazione che aprono intervalli nel sentimento che abbiamo di esistere, hanno detto chiaramente ciò che fedelmente fingo di riportare… Quando un giorno saranno entrambi sposati, ognuno per proprio conto – in intenti ben più affini, per potersi sposare fra loro – se loro per caso getteranno uno sguardo su queste pagine, sono certo che riconoscerebbero ciò che non hanno mai detto e non trascurerebbero di essermi grati per aver interpretato così bene, non solo ciò che loro sono realmente, ma quello che non hanno mai desiderato essere, né sapevano di essere…
Se loro mi leggessero, crederebbero che è stato proprio questo che hanno realmente detto. Nella conversazione apparente che hanno ascoltato l’uno dell’altra mancavano tante cose che […] – è mancato il profumo dell’ora, l’aroma del tè, la significazione per il caso della composizione di […] che lei aveva sul decolletè… Tutto questo, che in qualche modo ha costituito parte della conversazione, essi si sono dimenticati di dirlo… Ma tutto questo era lì, e ciò che sto facendo, più che un lavoro letterario, è un lavoro da storico. Ricostruisco, completando… e questo servirà a discolparmi con loro, per essere stato ad ascoltare in modo così insistente ciò che dicevano e non avrebbero voluto dire [5].
NOTE
[1] Eduardo Lourenço, Il libro dell’inquietudine testo suicida?, in E. Lourenço, Fernando re della nostra Baviera, dieci saggi su Fernando Pessoa, a cura di Daniela Stegagno, Edizioni Empirìa, Roma 1997.
[2] Fernando Pessoa, La genesi degli eteronimi secondo Fernando Pessoa, in F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine e Poesie, a cura di Orietta Abbati, Newton Compton editori, Roma 2013.
[3] Di «coscienza esplosa» parla Eduardo Lourenço nel saggio Fernando Pessoa o lo straniero assoluto, in E. Lourenço, Fernando re della nostra Baviera, dieci saggi su Fernando Pessoa, op. cit.
[4] Nel celebre aforisma numero 125 della Gaia scienza (1882).
[5] Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, in F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine e Poesie, op. cit., pp. 248-251.
In copertina: Almada Negreiros, Ritratto [postumo] di Fernando Pessoa, 1954.