Heinrich von Kleist – La marchesa di O…

Kleist si avvicina al genere letterario del racconto suo malgrado, più per necessità che per vocazione – sono infatti i ripetuti fallimenti teatrali e le disastrose condizioni finanziarie in cui versa a imporgli questa scelta. È quanto emerge dal seguente giudizio sul romanzo, di cui il racconto è una sorta di sottoinsieme, contenuto in una lettera indirizzata nel 1801 da Parigi alla fidanzata Wilhelmine: «I romanzi ci hanno guastato la mente. Con essi il sacro ha cessato di essere sacro e la più pura, umana, ingenua felicità è stata degradata a mera fantasticheria» [1]. Inoltre, da una dichiarazione di Ernst von Pfuel, intimo amico di Kleist, citata da Brentano in una missiva ad Arnim, veniamo a conoscenza del fatto che per l’autore passare dal teatro, e in particolar modo dalla tragedia al racconto è una «sconfinata umiliazione» [2].

A malincuore Kleist si allontana dal mito, dai personaggi straordinari e imponenti che lo caratterizzano, per concentrarsi sulla quotidianità, scrutando con occhio vigile gli interni della borghesia e della piccola nobiltà, e prendendo nota di quanto accade in essi. A questo cambiamento di materia corrisponde necessariamente un cambiamento di stile. Kleist crea una prosa essenziale, dal ritmo incalzante, talvolta febbrile, in cui discorso diretto e indiretto si accavallano, si confondono, quasi si calpestano l’un l’altro. Leggendo i racconti di Kleist si ha come la sensazione che l’autore abbia fretta di giungere al termine di una mera cronaca giornalistica. Ciò tuttavia non gli impedisce di mettere in risalto alcuni dettagli che rendono unica l’intera vicenda – facendo riferimento alla Marchesa di O… vien subito da pensare agli innumerevoli rossori dei personaggi.

Scrivere racconti per Kleist è umiliante, eppure la critica del tempo li accoglie con entusiasmo, con maggiore entusiasmo rispetto ai drammi. E già allora inizia a diffondersi l’idea, giunta di fatto fino a noi, che i suoi racconti posseggano un valore letterario di gran lunga superiore rispetto alle sue opere teatrali. È quanto sostengono Tieck e i fratelli Jakob e Wilhelm Grimm. Quest’ultimo li definisce il meglio della letteratura tedesca «per radicalità, profondità e per senso puro della vita come pure per l’energia, l’evidenza e l’efficacia della forma» [3].

Kleist concepisce La marchesa di O… nel 1805-1806 a Königsberg. Scrive poi il racconto nel 1807, durante i mesi di prigionia trascorsi a Fort-Joux e Châlons-sur-Marne, e lo pubblica, in una prima versione, nel febbraio del 1808, tra le pagine del secondo numero del «Phöbus» [4].

Il discorso sulle fonti alle quali l’autore tedesco attinge per la creazione della Marchesa di O… è colmo di punti interrogativi, numerosi sono infatti i casi di abusi sessuali nel sonno e di concepimenti involontari nella letteratura precedente a Kleist – i più illustri si trovano nel Saggio sull’ubriachezza di Montaigne, contenuto nei Saggi (1588), e nelle Novelle esemplari (1613) di Cervantes. Non ci sono dubbi invece sul modello che ispira l’incestuosa scena di riconciliazione tra l’inconsapevole protagonista e l’arcigno padre: il romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa (1761) di Rousseau [5].

Kleist dona alla letteratura tedesca una vicenda licenziosa per la quale essa, a differenza della letteratura francese, non è ancora moralmente pronta, e infatti La marchesa di O…, come accade con la Pentesilea, è accolta con sdegno e imbarazzo – tra tutti i giudizi negativi, emblematico quello di Henriette von Knebel (1755-1813), autorevole ed erudita dama di Weimar, che trova la storia oscena e soporifera [6].

In apertura del racconto Kleist colloca quel fatto sconvolgente che anima e alimenta l’intera vicenda: il famigerato annuncio sul giornale da parte della marchesa.

«A M…, una importante città dell’alta Italia, la marchesa di O…, vedova di eccellente reputazione e madre di più figli ben educati, rese noto attraverso i giornali: che si trovava, senza sapere come, in stato interessante, che il padre del bambino che avrebbe partorito si presentasse, e che lei, per riguardo alla famiglia, era deciso a sposarlo» [7].

Le ragioni che hanno portato la rispettabile signora a compiere «un passo singolare, tale da suscitare lo scherno del mondo», si intrecciano con la storia. Durante le guerre napoleoniche infatti, la cittadella di M… è presa d’assalto dalle truppe russe, e durante l’offensiva militare la marchesa, nel mezzo di una complicata fuga, si imbatte «in un manipolo di fucilieri nemici», una «orribile masnada» che la agguanta proprio come una succulenta preda e la trascina via con violenza, animata dalle peggiori intenzioni.

«Fu trascinata nella corte posteriore, dove, tra i più ignobili maltrattamenti, stava per cadere a terra, quando, richiamato dalle sue grida di aiuto, apparve un ufficiale russo, il quale disperse con rabbiosi fendenti quei cani avidi di una simile preda. Alla marchesa parve un angelo del cielo. Lui colpì anche l’ultimo bestiale farabutto, che la teneva stretta per la vita sottile, in pieno viso con l’elsa della spada, così che quello, con il sangue che gli sgorgava dalla bocca, arretrò barcollando: poi offrì il braccio alla signora, rivolgendole amabili parole in francese, e la condusse, ammutolita per tutte quelle scene, nell’altra ala del palazzo, non ancora lambita dalle fiamme, dove lei cadde a terra totalmente priva di sensi. Qui – diede disposizioni, quando poco dopo apparvero le donne spaventate, perché fosse chiamato un medico, assicurò, rimettendosi il cappello, che si sarebbe presto ripresa e tornò nella battaglia» [8].

Il trattino più celebre dell’intera letteratura tedesca contiene e racchiude l’abuso. Un segno grafico piccolo, apparentemente insignificante, ma dotato di una potenza eccezionale.

Compiuto l’infido e dissoluto gesto, l’angelico ufficiale russo, il conte F…, si impegna in prima persona, con impeto e coraggio, a spegnere le fiamme che sferzano la cittadella oramai conquistata, in preda a un’incontenibile iperattività.

«Ora si arrampicava, con il tubo in mano, sui tetti in fiamme e dirigeva il getto d’acqua, ora si introduceva, riempiendo di terrore gli animi degli asiatici, negli arsenali e ne faceva rotolare fuori barili di polvere e bombe cariche» [9].

La prorompente reazione dell’ufficiale russo è propria dell’uomo esaltato da un’impresa superlativa. Ha appena sbaragliato un manipolo di barbari, e salvato dalla loro furia cieca una nobile e bella signora, intravedendo nel suo sguardo riconoscenza, ammirazione e forse anche un riverbero d’amore. Non prova rimorso per l’abuso, o presunto tale, anzi, ne è entusiasmato.

Gli iniziali sintomi della gravidanza della marchesa, che indirettamente scopriamo chiamarsi Giulietta, sono accolti con ironia e giubilo sia da lei che dalla madre. Tuttavia, quando la misteriosa maternità della protagonista diviene certa, confermata prima dal medico e poi dalla levatrice, la reazione della famiglia, e in particolar modo del padre, è inflessibile e crudele: la marchesa viene allontanata con sdegno dalla casa paterna.

La donna, «armata di tutto l’orgoglio dell’innocenza», trova dentro di sé una forza insperata, e dopo aver negato al torvo padre i suoi figli, decide di pubblicare sui giornali di M… il singolare annuncio, incurante dello «scherno del mondo».

«[…] Poiché il sentimento della propria autonomia si faceva sempre più vivo in lei insieme al pensiero che la gemma conserva il suo valore comunque sia incastonata, una mattina in cui la giovane vita le si agitava di nuovo dentro, prese coraggio e fece pubblicare nei fogli di annunci di M… quel singolare invito che si è letto all’inizio di questo racconto» [10].

Si è parlato molto dell’emancipazione della marchesa, ma non si tratta solo di questo. La protagonista sfida le convenzioni perché in lei è troppo forte il desiderio di conoscere l’identità del colpevole. E nella sua coraggiosa decisione si manifesta tutto il suo essere donna, si manifesta l’essenza stessa della femminilità. Indifferente a quanto possa pensare il mondo intero e al modo in cui possa etichettarla – Käthchen più e più volte viene definita una «baldracca» -, Giulietta si abbandona al volere del proprio cuore. Un cuore che vuole sapere, o meglio, che forse vuole solo avere delle conferme.

Nel giorno e nell’ora stabiliti dalla marchesa nell’inserzione, il 3 alle 11 – Giulietta si è oramai riconciliata con entrambi i genitori, convinti della sua innocenza – ecco apparire il conte F…, quello stesso conte F… che mesi prima le aveva salvato la vita e poi si era ripresentato con una irragionevole proposta di matrimonio.

«L’undicesimo rintocco vibrava ancora, quando entrò Leopardo, il cacciatore che il padre aveva fatto venire dal Tirolo. Le donne impallidirono a quella vista. Il conte F…, disse, è arrivato e si fa annunciare. Il conte F…! esclamarono loro a una voce, passando da uno sgomento all’altro. La marchesa esclamò: chiudete le porte! Per lui non siamo in casa; si alzò per chiudere lei stessa a chiave la stanza, e stava per spingere fuori il cacciatore che le sbarrava il passo, quando il conte, nella medesima uniforme da campo, con le decorazioni e le armi che aveva indosso alla conquista del forte, era già davanti a lei» [11].

Il conte F… si presenta alla marchesa vestito come quella notte per facilitare il riconoscimento, per suscitare il ricordo e utilizzare così il minor numero possibile di parole. Parole impossibili da pronunciare in una simile situazione.

La protagonista reagisce con violenza, aggredisce l’ufficiale, che, devoto, pentito e balbettante si prostra dinanzi a lei, e la madre. Proprio come Pentesilea nel momento del decisivo assalto ad Achille, assume tratti ferini.

«La marchesa lanciava occhiate feroci, selvagge, ora al conte, ora alla madre, il petto ansante, il volto in fiamme: non è più terribile lo sguardo di una furia» [12].

Dopo la reazione scomposta e rabbiosa, la marchesa decide di mantenere la parola data nell’annuncio, e sposa il conte F…

Nell’ultima, geniale battuta del racconto Kleist svela le ragioni dell’iniziale diniego della protagonista, e rende praticamente certo il sospetto che accompagna il lettore durante l’intera vicenda: lei sapeva, ha sempre saputo, cercava solo una conferma.

«[…] Quando una volta il conte, in un’ora felice, domandò alla moglie perché, in quel terribile giorno 3, quando sembrava preparata a qualunque depravato, fosse fuggita davanti a lui come da un demonio, lei rispose, buttandogli le braccia al collo: non le sarebbe apparso allora come un demonio, se alla sua prima apparizione non le fosse sembrato un angelo» [13].

E forse, in quella lontana notte sconvolta dall’assalto dei russi e illuminata dalle fiamme, la marchesa non si è concessa al conte F… del tutto inconsapevolmente. Solamente non immaginava che l’amore di un «angelo» potesse essere tanto simile a quello di un uomo, e generare persino un figlio.

NOTE

[1] Briefe von und Heinrich von Kleist 1793-1811, a cura di Klaus Müller-Salget e Stefan Ormanns, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main 1997, trad. it. di Anna Maria Carpi.

[2] Heinrich von Kleists Nachruhm. Eine Wirkungsgeschichte in Dokumenten, a cura di Helmut Sembdner, Carl Schünemann Verlag, Bremen 1967; IV edizione rivista e ampliata, Carl Hanser Verlag, München 1996.

[3] Heinrich von Kleists Lebensspuren. Dokumente und Berichte der Zeitgenossen, a cura di Helmut Sembdner, Carl Schünemann Verlag, Bremen 1957; VII edizione rivista e ampliata, Carl Hanser Verlag, München 1996, trad. it. di Anna Maria Carpi.

[4] Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Anna Maria Carpi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011, p. 1236.

[5] Ivi, p. 1237.

[6] Ivi, p. 1237.

[7] H. v. Kleist, La marchesa di O…, trad. it. di Marina Bistolfi, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. 803.

[8] Ivi, pp. 804-805.

[9] Ivi, p. 805.

[10] Ivi, p. 827.

[11] Ivi, p. 840.

[12] Ivi, p. 841.

[13] Ivi, p. 844.

In copertina: Caspar David Friedrich, Donna al tramonto del sole, 1818.

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