Giovedì 13 ottobre. Diretto all’università, salgo sul famigerato treno regionale Nettuno-Roma Termini che non è ancora giorno. Per qualche minuto resto seduto senza fare niente, guardando fuori, osservando i volti avviliti dei pendolari moribondi (sembrano usciti tutti da una tela di Munch), in attesa che il mio corpo intirizzito si riscaldi. Dopo che ciò è avvenuto, pesco dallo zaino il mio ultimo investimento letterario. Si tratta di un romanzo tra i meno noti di Dostoevskij: Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti, pubblicato nel 1859. Incuriosito ed eccitato, come sempre mi capita al cospetto di un’opera del maestro russo che non ho ancora degustato, inizio la lettura. Mi colpisce subito il ritratto del protagonista, l’odioso Fomà Fomìč.
«Figuratevi il più insignificante, il più meschino degli uomini, un rifiuto della società, non necessario ad alcuno, del tutto inutile, del tutto ripugnante, ma di un amor proprio smisurato e, per giunta, senza la minima dote con cui possa comunque giustificare il suo amor proprio morbosamente irritabile. Avverto fin d’ora: Fomà Fomìč è l’incarnazione dell’amor proprio più illimitato, ma, nello stesso tempo, di un amor proprio speciale, e precisamente di quello che si accompagna alla più completa nullità, e, come di solito accade in simile caso, di un amor proprio offeso, schiacciato dai duri insuccessi precedenti, venuto a suppurazione da un pezzo, e da allora schizzante invidia e veleno a ogni nuovo incontro, a ogni riuscita altrui. Non è il caso di dire che tutto questo è condito dalla più mostruosa permalosità, dalla più pazzesca diffidenza. Ci si domanderà forse: da dove proviene un simile amor proprio? Come si origina, data una sì completa nullità, in tali meschine persone che già per la loro posizione sociale dovrebbero conoscere il proprio posto? Come rispondere a questa domanda? Chissà, forse ci sono anche delle eccezioni, alle quali appartiene il mio eroe. Ed egli è in realtà un’eccezione alla regola, il che si spiegherà in seguito. Permettetemi però di domandare: siete voi sicuri che coloro i quali si sono ormai completamente ammansiti e si ascrivono a onore e fortuna di essere i vostri buffoni, priživàlščiki [1] e mangiapane, siete voi sicuri che essi abbiano completamente rinunziato a qualsiasi amor proprio? E l’invidia, e i pettegolezzi, e la calunnia, e le delazioni, e i bisbigli misteriosi negli angoli remoti di casa vostra, al vostro fianco, alla vostra stessa tavola? Chissà, forse in taluni di questi vagabondi umiliati dal destino, vostri buffoni e mentecatti, non solo l’umiliazione non fa passare l’amor proprio, ma questo anzi s’infiamma ancor più precisamente in seguito all’umiliazione stessa, al folleggiare e buffoneggiare, al mangiare a ufo, alla eterna forzata sommissione e assenza di personalità. Chissà, questo amor proprio che si sviluppa mostruosamente è solo un falso sentimento, inizialmente pervertito, di dignità personale, offeso per la prima volta, forse, ancora nell’infanzia, dalla compressione, dalla povertà, dal sudiciume; sputacchiato, forse, ancora nella persona dei genitori del futuro vagabondo, sotto i suoi stessi occhi. Ma io ho detto che Fomà Fomìč è inoltre un’eccezione alla regola generale. E questo è vero, egli era stato un tempo letterato ed era stato amareggiato e misconosciuto, e la letteratura è capace di rovinare ben altri che Fomà Fomìč; s’intende, quand’è misconosciuta. Non so, ma bisogna supporre che anche prima della letteratura Fomà Fomìč non avesse avuto fortuna; forse anche in altre carriere non aveva ricevuto che buffetti, o peggio ancora, invece di stipendi. Ciò del resto, mi è ignoto; ma più tardi mi sono informato e so di sicuro che un tempo, a Mosca, Fomà Fomìč aveva realmente composto un romanzetto, molto simile a quelli che là si cucinavano, negli anni dopo il ’30, a diecine per anno, del genere delle varie Liberazioni di Mosca, dei vari Atamàn Tempesta e I figli dell’amore, ovvero I russi nell’anno 1104, ecc. ecc., romanzi che offrivano a suo tempo un piacevole alimento all’arguzia di Barone Brambeus. Ciò era successo, s’intende, da un pezzo; ma il serpente dell’amor proprio letterario punge talvolta profondamente e insanabilmente [2], specie gli uomini insignificanti e sciocchi. Fomà Fomìč era stato amareggiato fin dal primo passo letterario e si era già da allora definitivamente unito a quell’enorme falange di delusi da cui escono poi tutti gli stravaganti, tutti i vagabondi e i randagi. Sempre da allora, credo, si sviluppò in lui quella mostruosa vanità, quella sete di elogi e di distinzioni, d’inchini e di ammirazione. Anche da buffone, egli s’era formato un gruppetto d’idioti che lo veneravano. Purché potesse in qualche luogo, in qualche modo primeggiare, profetare, far lazzi e vanterie: ecco il suo maggior bisogno! Non lo lodavano, e lui cominciò a lodarsi da sé. Io stesso ho udito le parole di Fomà nella casa dello zio, a Stepànčikovo, quand’egli già n’era diventato il signore assoluto e il profeta: “Io non sto di casa fra voi”, diceva talvolta con una certa misteriosa importanza, “io non son qui di casa! Ora vi sistemo tutti, vi faccio vedere, v’insegno, e poi addio: a Mosca, a pubblicare una rivista! Trentamila persone converranno ogni mese alle mie lezioni. Echeggerà, infine, il mio nome, e allora… guai ai miei nemici!” Ma il genio, mentre ancora si accingeva a coprirsi di gloria, pretendeva una ricompensa immediata. Fa, in generale, piacere ricevere la paga anticipatamente, ma in questo caso soprattutto. Egli affermò sul serio allo zio (lo so), che lui, Fomà, aveva da compiere una grandissima impresa, impresa per cui era stato chiamato al mondo e al cui compimento lo spingeva un cert’uomo con le ali, o alcunché di simile, che gli appariva di notte. Precisamente: scrivere un’opera profondissima, di genere edificante, che avrebbe prodotto un terremoto universale e fatto scricchiolare tutta la Russia. E quando tutta la Russia avesse scriocchiolato, egli, Fomà, sprezzando la gloria, sarebbe andato in un monastero e avrebbe pregato giorno e notte nelle caverne di Kiev per la felicità della patria. Tutto ciò sedusse lo zio.
E ora figuratevi cosa possa diventare Fomà per tutta la vita oppresso e calpestato, e anzi, forse, realmente pestato, un Fomà in segreto sensuale e pieno d’amor proprio, un Fomà letterato deluso, un Fomà buffone per il pane quotidiano, un Fomà despota nell’animo, a onta di tutta la sua precedente nullità e impotenza, un Fomà millantatore e, in caso di riuscita, insolente, questo Fomà venuto a un tratto in onore e in fama, vezzeggiato e coperto di lodi, grazie all’idiota protettrice e all’abbagliato, accomodante protettore, nella cui casa era infine capitato, dopo lunghi vagabondaggi. Sul carattere dello zio son certo tenuto a dar più minute spiegazioni: senza di ciò è incomprensibile anche il successo di Fomà Fomìč. Ma intanto dirò che per Fomà si era avverato il proverbio: fallo sedere a tavola, e lui ci metterà su anche i piedi. Sì, s’era presa la rivincita per il suo passato! Un’anima bassa, uscendo dall’oppressione, opprime a sua volta. Fomà era stato oppresso, e sentì subito il bisogno di opprimere; s’era fatto lo smorfioso con lui, ed egli si mise a far lo smorfioso con gli altri. Era stato buffone, e sentì subito il bisogno di avere anch’egli i suoi buffoni. Si vantava fino all’assurdo, faceva il lezioso fino all’impossibile, pretendeva il latte di gallina, tiranneggiava senza misura, e si arrivò al punto che delle brave persone, non essendo ancora state testimoni di tutte queste gesta, ma udendole solo raccontare, prendevano tutto ciò per un incantesimo, per una diavoleria, si segnavano e sputavano» [3].
Indugio a lungo su queste pagine straordinarie, tanto a lungo che quando arriva il momento di scendere dal treno, giunto a destinazione, del romanzo di Dostoevskij non ho terminato di leggere neppure l’introduzione.
Più o meno all’ora di pranzo, tra una lezione e l’altra, scovo un quarto d’ora da dedicare all’informazione, nazionale e «Internazionale» (passatemi la battuta). Sono due le notizie che dominano incontrastate: la dipartita del Giullare e l’incoronazione del Menestrello. La morte di Dario Fo mi lascia amareggiato (avremo un no in meno il prossimo 4 dicembre), mentre l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan, mi suscita una certa dose di entusiasmo. “Beh, era ora”, approvo tra me e me.
Sempre a bordo del treno regionale, faccio ritorno nella mia ridente cittadina tirrenica a metà del pomeriggio.
A casa, in camera, curvo sulla scrivania, riprendo a lavorare al mio ennesimo fallimento letterario, quando entra mia sorella e mi domanda: «Indovina un po’ chi si è lamentato dell’assegnazione del premio Nobel a Bob Dylan?». Rispondo a bruciapelo, senza neppure rifletterci su: «Baricco». «Sì, proprio lui», mi conferma mia sorella. Un eccezionale caso di chiaroveggenza? Ma no… è normale, e anche giusto, che il massimo rappresentante contemporaneo di una tradizione letteraria come quella italiana, che in passato ha avuto esponenti del calibro di Dante, Leopardi e via dicendo, sollevi un potente grido di protesta contro l’inusuale decisione dell’Accademia svedese.
Dopo cena decido di approfondire la questione e mi metto alla ricerca delle dichiarazioni dell’autore del meraviglioso Oceano mare, della geniale riscrittura dell’Iliade. Giustamente, trattandosi del più grande scrittore italiano contemporaneo, le parole di Baricco sono riportate da tutte le più importanti testate giornalistiche. Un parere tanto illustre non può che sollevare un polverone mediatico.
«Che un drammaturgo vinca un premio alla letteratura ci sta, anche se in modo un po’ sghembo. Ma premiare Bob Dylan con il Nobel per la Letteratura è come se dessero un Grammy Awards a Javier Marias perché c’è una bella musicalità nella sua narrativa».
Ah… Baricco… Baricco… Chi mi conosce lo sa, nei precedenti paragrafi ero ironico. Io, che di Letteratura (quella con la maiuscola) mi nutro ogni giorno, considero Baricco uno scribacchino da quattro soldi.
Prima di oggi credevo che il «serpente dell’amor proprio letterario», di cui parla Dostoevskij nel Villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti, mordesse solamente gli aspiranti scrittori falliti come Fomà Fomìč, come me. Mi sbagliavo. Al morso velenoso di questo serpente viscido, sordido, non sono immuni neppure coloro i quali – non certo grazie al talento, che oggi non esiste, perché non può esistere, ma grazie al caso – sono riusciti a realizzare le proprie aspirazioni letterarie.
L’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan dovrebbe farci riflettere su quanto sia basso, infimo il livello della nostra letteratura, o post-letteratura, come la definisce il mio professore di Critica letteraria.
Indignarsi e protestare pubblicamente – dimostrando così di essere stati non solo morsi, ma addirittura divorati dal «serpente dell’amor proprio letterario» – è quanto di più inutile e stupido si possa fare. A cosa hanno portato le dichiarazioni del bisbetico Baricco? Hanno forse suscitato un dibattito serio, utile sull’attuale stato della letteratura? Niente affatto, hanno solo alimentato l’ostilità dei suoi detrattori, che, come ho avuto modo di constatare, fortunatamente sono molti.
NOTE
[1] Il priživàlščik era un nobile decaduto che viveva a scrocco presso altre famiglie nobili ricche, ricoprendo per lo più il ruolo del buffone.
[2] Il grassetto è mio.
[3] Fëdor Dostoevskij, Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti, trad. it. di Alfredo Polledro, Quodlibet, Macerata 2016, pp. 19-22
In copertina: Henri Rousseau, il Doganiere, L’incantatrice di serpenti, 1907.