I Fondamentali: gli album internazionali degli anni ’80

Bauhaus – In the flat field (1980)
La depravazione e la follia ossessiva trovano spazio nei ritmi dei Bauhaus, potenza distruttiva e ritualità macabre distinguono il lavoro della band di Peter Murphy. Una ricerca nel gotico che supera i livelli già raggiunti in passato, con una voglia spasmodica di pennellare mondi bui e glaciali tipica del quartetto inglese. L’album è di difficile digestione per la maggior parte degli ascoltatori, dedicato a una nicchia spesso incoerentemente “punk-nostalgica” mi ha lasciato del tutto stranito ai primi ascolti e devastato poi. Ma questo basta per riconoscere il carico di pathos stipato in questo lp, come fosse un libro di W. Burroghts: vomitevole, ingestibile e decisivo.


Nick Cave – The firstborn is dead (1985)
Una trinità blasfema e iconografica tiene le fila dell’immaginario deviato del Nick Cave di Berlino: Blind Lemon Jefferson, Elvis Presley e Bob Dylan. Tre pilastri portanti del disco che assieme ai Bad Seeds riuscì a registrare a metà degli anni 80′, con  Barry Adamson al basso,  Mick Harvey alla batteria e alla chitarra Blixa Bargeld fenomenale leader dei Einsturzende Neubauten, gruppo industrial dalla teatralità avanguardista. Disco pervaso dalla virilità umorale del blues agricolo degli anni trenta, un blues piegato come balza dalla tetra e lucida esposizione di Cave. Una narrazione piena di rimandi e continue citazioni inserite con divertita svagatezza (vedi Quentin Tarantino), Tupelo è l’esempio più celebre. Nella canzone Cave racconta la nascita di Elvis in chiave semi-divina, questo è solo l’inizio di una sfilata di personaggi sgangherati: spaventapasseri, carcerati e deviati. Meravigliosa anche la cover di Wanted man, pezzo scritto da Bob Dylan per Johnny Cash, che Nick Cave decompone e strazia con la sua voce.

Tom Waits – Swordfishtrombones (1983)
Oggettivamente, il ruvido cantautore di Pomona, ha sparato nei suoi lunghi anni di carriera un caricatore pieno di grandi album in faccia al pubblico assopito. Ascoltatori che nel 83′ entravano nel decennio più stupido della storia dell’umanità, avvezzi alla musica di Bruce Springsteen e alla sua disastrosa E-Street Band che rappresentava l’America vincente, brillante e fittizia. Questi ascoltatori hanno dovuto fare i conti con la voce roca della “Dark side” degli USA, con i sotterranei e i rifiutati, i rigettati della società, vomitati sul marciapiede della civiltà.  La celeberrima title-track rappresenta perfettamente l’immaginario di Tom Waits, che racconta di emarginati, perdenti, i “pazzi di vita” di Kerouac,  e i tossici. Il disco sciorina una diversità di arrangiamenti interessantissima, ballate sgangherate, blues da osteria e fanfare, una policromia stilistica solo marginalmente dissonante, che Tom Waits domina con il suo carisma infinito.

Bruce Springsteen – Nebraska (1982)
Odio Bruce Springsteen e gli U2” credo che sia il nome di un’autobiografia di Federico Fiumani, poco interessante il libro, ma il titolo!!! Niente di più vero, come odio “The Boss”! Quanta banalità armonica e poetica ha prodotto il cantautore del New Jersey, perdonatemi ma non riesco a digerire i suoi album, le sue canzoni. Bruce Springsteen è Ligabue che canta in inglese.” Con questa specie d’epitaffio l’ho sempre liquidato velocemente, ma qui in questo approfondimento devo parlare di questo singolo, sparuto e solitario Lp, che vale forse una rivalsa per un’intera carriera di mediocrità. All’inizio degli anni 80′ Bruce è al massimo del successo, e proprio in questo periodo si chiude in casa, nella periferia “loop” del suo New Jersey con un registratore 4 traccie, e immortala queste splendide canzoni. Tracce piene per la prima volta di verità, nei testi e negli arrangiamenti, crude, scarne e in una certa misura minimali. Le atmosfere dell’America più sincera sono state raccolte e reinterpretate da Springsteen con una semplicità che racconta della sua vita, della povertà della sua giovinezza e della difficoltà di arrivare. Appare in tutto l’album una coerenza notevole, che ci racconta di un terra desolata, di omicidi e rapine, perdizione e redenzione. La fuga in auto, lontano, via da una presente senza futuro, per disperazione e voglia di vita è il tema vivo nella carriera di Springsteen, e qui ricorda ancora più iridescente, le figure di Dean Moriarty, e dei disperati miserabili di Furore. ( Lasciatemi citare per vanità anche i vagabondi dell’omonimo libro di Knut Hamsun, sconosciuto al mondo intero.)
Un ampio spettro di riferimenti molto eterogenei, da SteinbeckWilliam Cuthbert Faulkner a Woody Guthrie e Pete Seeger.

Peter Gabriel – Passion (1989)
Nel 1988 Martin Scorsese girò l’ultimo film nella storia del cinema degno di nota sulla figura di Gesù Cristo, da Pasolini a questa parte perlomeno. L’ultima tentazione di Cristo è tratto dal romanzo praticamente omonimo del greco Nikos Kazantzakis pubblicato postumo nel 1960. Un film interessante con un importante regia, un soggetto e una sceneggiatura di qualità. Mancava solamente una colonna sonora degna di nota, che potesse accompagnare le atmosfere della pellicola, che vedeva già un’altra rockstar coinvolta nel progetto, ovvero un formidabile David Bowie nel ruolo di Ponzio Pilato.
Peter Gabriel coinvolto al massimo nel progetto sintetizza con una vena decisamente rock una miriade di strumenti diversi, tutti dalle origini affascinanti e dai timbri diversissimi. Le meravigliose Tabla di Hossam Ramzy, il violino rapidissimo di Shankar, il flauto turco di Erguner, le percussioni di Fatala, il doudouk armeno di Vatche Housepian e i vocalizzi di Nusrat Fateh Ali Khan, Baaba Mal e Youssou N’Dour. Gabriel riesce perfettamente a dirigere questa eterogenea quantità di sfumature, con una capacità innaturale, mescolando progressioni armoniche armene vecchie di millenni e sintetizzatori distorti.
Le traccie sviscerano la storia della passione in una narrazione in crescendo tra danze sabbatiche e litanie, i virtuosismi vocali di Peter Gabriel e Youssou N’Dour raccontano di una terra d’oriente piena di mistica e tribalismo. Un oriente forse più fedele di quello “occidentalizzato” sempre rappresentato nel cinema e nella musica contemporanea. Il capolavoro di Peter Gabriel farà conoscere al mondo la World Music e dimostrerà che non sempre gli artisti orfani della propria band storica (Genesis) falliscono nei loro lavori solisti. Dovremmo solo decidere se preferiamo Passion oppure Selling england by the pound!

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