Dylan è un salta-vagoni, Dylan è un homeless, Dylan è un aristocratico, Dylan è morto, Dylan è ebreo, Dylan è cristiano, Dylan è infedele. Difatti Dylan è un uomo. Se Pirandello fosse ancora vivo lo prenderebbe ad esempio, è uno, nessuno e centomila.
So’ che qualche ultra-fan ora si arrabbierà perché “Dylan è rimasto sempre lo stesso”, ma per molti non è così, perché nessuno rimane sempre uguale, tanto meno lui, un uomo costantemente sotto la lente d’ingrandimento mediatica. Non è sorprendente infatti la sua momentanea sparizione, l’assenza di ringraziamenti da recapitare a Stoccolma per il Nobel tanto auspicato (dai suoi fan, non di certo da lui).
Quello che vorremmo fare oggi però è proporvi la nostra lista de “I Fondamentali” dedicata al maestro e padre della musica moderna, vi segnaleremo quindi i suoi quattro album studio più influenti e sconvolgenti.
Per tornare a parlare di musica e cercare nei suoi capolavori le motivazioni, se ci sono, che lo hanno portato al Nobel.
The Freewheelin’ Bob Dylan (1963)
Fino al 27 maggio 1963 Bob Dylan era un promettente “folk-singer”, famoso al Greenwich di New York per lo più nei sottoscala fumosi, nei locali frequentati dai ribelli politici e da quella sottocutanea specie di socialisti che amavano incontrarsi per parlare di questioni cruciali, della situazione operaia, dei neri d’america, delle guerre e della strada. In più di tanto in tanto cambiava nome e spesso cambiava casa.
Poi arriva il primo album in studio pienamente personale, cinquanta minuti “soffiati nel vento” di una voce quasi afona, grido spalleggiato dalle uniche armi a disposizione, la chitarra e l’armonica. “The Freewheelin’ Bob Dylan” (il primo disco vero e proprio fu “Bob Dylan”, ma era composto per lo più di cover e omaggi), letteralmente “Bob Dylan a ruota libera”.
Sospinto dalla stima di Pete Seeger, con la benedizione del “padre” Woody Guthrie, ora sibila e ora grida il canto della “voce del popolo” in quello che sarà uno dei suoi periodi più spontanei, in cui come egli stesso affermò “non cercavo né denaro né amore”.
Quest’album è di diritto nei fondamentali poiché è il segno della sua completa maturità musicale e la più vivida espressione del Dylan “cantante di protesta”, ammettendo che abbia smesso di protestare.
Da “Blowin’ in the wind”, autentico canto multi-generazionale, le ballad romantiche si alternano con canzoni dal ritmo incessante (vedi “Masters of war” che con il suo arpeggio circolare segue i passi di chi con la guerra si sta sporcando le mani, senza fare sconti, o anche l’apocalittica “A hard rain’s a-gonna fall”), fino ad arrivare al pezzo più potente dell’album, quella “Don’t think twice, it’s alright” che è già preludio del lato tragico e al tempo stesso altezzoso del Bob Dylan successivo: “I gave her my heart but she wanted my soul” (Le ho dato il mio cuore ma lei vuole la mia anima) è una delle frasi più celebri custodite in quel gioiello rancoroso che è il pezzo dedicato a Suze Rotolo (la ragazza che compare anche nella copertina dell’album, colpevole di aver abbandonato Dylan per andata in Italia a studiare pittura proprio durante la realizzazione del disco), insieme all’epitaffio della stessa canzone, una delle frasi più struggenti con la quale lasciarsi:
“Ciao dolcezza
dove sono diretto, non posso dirlo
arrivederci è una parola troppo bella, bambina
così ti dirò semplicemente addio”
Highway 61 Revisited (1965)
Molti critici musicali hanno fermato il tempo sul colpo di rullante, sullo sparo che da’ il via alla più grande rivoluzione della musica moderna, la canzone che apre il vaso di pandora sprigionando saette di elettricità, “Like a rolling stone”.
Martin Scorsese nel documentario “No direction home: Bob Dylan” adopera come scena conclusiva uno strabiliante duetto a colpi di “Giuda!” (da parte del pubblico) con pronta risposta dylaniana con un irritato “Siete dei bugiardi”: quel giorno a Manchester, in quell’estenuante tour inglese che condurrà l’artista al limite della follia, si è consumato un funerale collettivo e mal digerito. Un urlo, “Play it fucking loud”, e poi il nulla, o il tutto.
Il “tradimento” subito da parte di quei fan che si aspettavano un Dylan tutto acustico e con un sound ancora folk era già stato compiuto pochi mesi prima con Bringing It All Back Home quando il cantautore di Duluth si presentò sul palco del Newport Folk Festival armato di una bomba che girava a svariati kWatt, “Meggie’s farm” e “Like a rolling stone” fecero sanguinare le orecchie agli spettatori sbigottiti, mentre Seeger dietro le quinte minacciava di tranciare i cavi elettrici con un accetta se non l’avesse smessa con quello strazio. Lo fecero scendere dal palco per evitare la lapidazione, per farlo poi risalire, sempre vestito della sua nuova giacca di pelle e degli stivali ma con una chitarra acustica in spalla e l’armonica sulla bocca. Era tornato sul palco per placare le polemiche ma non era sconfitto, e prima di suonare pochi pezzi di nuovo in chiave folk affermò in maniera lapidaria “Non riesco a sentirvi” riferito ai fan con il cuore trafitto che urlavano dal dolore, sotto di lui. Era il suo commiato.
Pochi mesi dopo l’esibizione di Newport, nell’estate del 1965, dopo meno di una settimana di sedute di registrazioni, uscì Highway 61 Revisited: nella copertina la sintesi di tutto il cambiamento che serbava all’interno, un Dylan con tono di sfida in una camicia a fiori aperta su una maglia con una motocicletta Triumph e gli occhiali nella mano destra, che diverranno simbolo di questo periodo.
Dopo “Like a rolling stone”, brano d’apertura dell’album definito “anfetaminico” da Dylan stesso, le tracce si susseguono sui toni del rock e del blues con gli arguti inserimenti dell’organo che Kooper addomestica a dovere facendolo brillare in alcuni passaggi fondamentali dell’album. “Ballad Of A Thin Man” poi, è pesata sulle irriverenti note del pianoforte suonato da Dylan stesso, nella quale mette alla gogna un “mr Jones” qualunque, essere incapace di scorgere quello che accade intorno a lui. Sempre più spettacolare e grottesca è la traccia che da il titolo al disco, “Highway 61 revisited”: la strada in questione è quella che taglia in due gli Stati Uniti partendo dal Minnesota (stato di nascita dylaniano) fino ad arrivare al Mississipi, il punto di incontro tra lui e il blues. In questo susseguirsi di immagini, la strada si fa portavoce delle stranezze americane che Dylan appunta come in un taccuino per poi vomitarle in musica.
L’escalation finale si compie con la carrellata circense più bella di tutta la sua composizione: “Desolation row” diventa una sfilata di umanità, un collage di immagini messe insieme in una notte allucinata. Einstein, Romeo, Ofelia, Casanova, Thomas Eliot ed Ezra Pound, tutti insieme raccontati con miserevole realtà, in nove minuti di pura esplosione poetica a chiudere l’immagine di quello specchio rotto che è l’album definitivo di Dylan.