Il Nobel a Bob Dylan sta spaccando il mondo, scrittori in rivolta, cantanti in difesa del menestrello di Duluth, ma nessuno si interroga sui reali meriti (o demeriti) letterari, nessuno che indaga sul valore oggettivo dei suoi testi, nessuno che traccia il percorso intrapreso dagli anni sessanta dalla sua penna.
Baricco, scrittore italiano schierato tra i “no al nobel”, in maniera provocatoria ha affermato: “che un drammaturgo vinca un premio alla letteratura ci sta, anche se in modo un pò sghembo. Ma premiare Bob Dylan con il Nobel per la Letteratura è come se dessero un Grammy Awards a Javier Marias perchè c’è una bella musicalità nella sua narrativa”. Di opinione contraria sono ovviamente i suoi colleghi musicisti, da Springsteen a De Gregori, tutti allineati sulla meritata consacrazione.
Ma cosa ha fatto dal punto di vista letterario Bob Dylan? Anche questa domanda non è così scontata se ci riflettete, la maggior parte dei giornali oggi sono unanimi nel riconoscergli il titolo di “poeta”, ruolo impegnativo e forse inappropriato a mio modo di vedere, mentre invece è perfettamente calzante il titolo di “cantastorie” nel senso più nobile del termine, e nel modo più americano possibile.
In tutta l’opera dylaniana c’è infatti l’epopea letteraria, la strada e la polvere presente nei viandanti scalcinati di Steinbeck, c’è la tradizione dei “salta-vagone” di cui Woody Guthrie si è fatto portavoce e al quale Dylan deve tutto nella sua prima esperienza musicale.
Ma ciò che più di ogni altra cosa serpeggia nei testi di quel Bob Dylan, quello senza il quale oggi il Nobel sarebbe stata una mera utopia, quello dei primi (Quindici? Vogliamo essere generosi) anni di carriera, è l’immediatezza e la spontaneità beat, la potenza del testo vomitato e puro, figlio e simbolo di un periodo storico e narrativo. Si potrebbe quasi provocatoriamente affermare che è il primo Nobel “Beat”, in quanto il riconoscimento non ha mai investito nessuno della cerchia di Ginsberg, finché ieri non è stata la volta di Dylan, il figliastro di quella letteratura e il depositario del loro messaggio.
In questo senso, per me, la sua opera va interpretata, da un punto di vista narrativo, come degna e superba sintesi “pop” di tutta quella letteratura statunitense che era “del e per il popolo” ma che al tempo stesso al popolo non è riuscita mai ad arrivare, se non con anni di ritardo. In questo Dylan ha sintetizzato l’epopea letteraria della prima metà del ‘900, adattandola ad un metodo di scrittura immediato e fruibile, oltre che personalissimo, molto più vicino alla scrittura criptica di Kerouac o Burroughs, arrivando a narrarci di storie raccontate direttamente dal marciapiede, strillate più che cantate.
Quel Bob Dylan è, a mio modo di vedere, il destinatario del premio Nobel per la Letteratura. Premio, se visto in quest’ottica, arrivato persino in ritardo.