L’Anfitrione secondo Kleist. Là dove è concesso solo sospirare

Così come per la creazione della Famiglia Schroffenstein [1], anche per la creazione dell’Anfitrione Kleist trae ispirazione da un illustre modello letterario del passato: l’omonima commedia seicentesca di Molière (1622-1673) [2]. Dall’opera del commediografo francese Kleist riprende l’inizio e l’epilogo, pressoché invariati, e la presenza del doppio: Sosia-Mercurio e Anfitrione-Giove. Per quanto riguarda tutto il resto, Kleist rielabora completamente l’Anfitrione, in un certo senso lo ristruttura, ammodernandolo. Così, se in Molière Alcmena si dissolve, svanisce alla fine del secondo atto, in Kleist diviene l’indiscussa protagonista dell’opera. Questo perché l’obiettivo dell’autore tedesco è creare un dramma dell’io che rappresenti una profonda crisi interiore, e l’idea kleistiana della donna si adatta alla perfezione a un tale obiettivo – come vedremo più avanti, nell’universo ordinato, logico e razionale dell’uomo la donna rappresenta l’infrazione, la rottura.

Inoltre Kleist aggiunge due ideazioni che contribuiscono a rendere il suo lavoro ulteriormente originale e moderno. Il Giove kleistiano, solo nella sua onnipotenza, nella sua eternità, prova un impellente bisogno d’amore, ed è attratto da Alcmena perché solamente una creatura umana, dunque terrena e mortale, è capace di amare [3]:

GIOVE
E non vorresti, bambina mia,
addolcire la sua esistenza enorme?
Non rifiutargli, quando la sua testa
ordinatrice di mondi lo cerca,
il guanciale di piume del tuo petto
per riposarvi… Alcmena!
Anche l’Olimpo è vuoto senza amore.
Cosa può offrire alla sua grande sete
l’adorazione di folle servili?
Vuole lui stesso essere amato, non
che lo sia lo spettro del loro delirio.
Celato in veli eterni
potesse riflettersi allo specchio
di un’anima, rinfrangersi
in una lacrima di rapimento. Guarda,
amica mia, quanta gioia diffonde
fra terra e cielo, interminabile…
Se proprio tu fossi predestinata
a ripagargli miriadi di vite,
l’intero debito della creazione
in un solo sorriso,
tu vorresti davvero… Ah! Io non posso
pensare, fa che non
pensi, non… [4]

È del tutto inedito e innovativo anche l’inserimento di una sorta di inno in cui il dio canta, o meglio, esalta la creatura ideale, colei che vive in perfetta sintonia con il creatore e dunque con il tutto. Il tema dell’amore, trattato da Kleist in precedenza nella Famiglia Schroffenstein – in cui, tuttavia, come abbiamo visto, fa da contraltare all’odio, vero motore dell’intera vicenda – e successivamente nella Pentesilea e nella Kätchen di Heilbronn, raggiunge in questi splendidi versi di goethiana memoria, vette liriche elevatissime [5].

GIOVE
Mia dolce, adorata creatura!
Felice, sì, felice, io mi compiaccio
in te. Così conforme al pensiero divino
per forma e per misura, accordo e suono
come nessuna me ne uscì di mano
dalla notte dei tempi [6].

Sono evidenti i motivi di queste differenze tra l’Anfitrione di Molière e quello di Kleist. Il commediografo francese vuole offrire alla corte, suo habitat naturale, una parodia delle capricciose bizze e dei comici dissidi matrimoniali dell’autorità monarchica [7]. Al contrario Kleist vuole creare, come già accennato, un dramma dell’io, rispondendo a quella nuova esigenza letteraria di psicologia ed esplorazione interiore che culminerà, di lì a qualche decennio, nella nascita di un nuovo genere, il romanzo psicologico.

Al momento dell’uscita dell’Anfitrione, la prima opera pubblicata da Kleist con il suo nome, nel 1807, la critica reagisce in modi differenti. C’è chi considera il lavoro di Kleist niente di più che una semplice traduzione in lingua tedesca del testo originale di Molière; chi invece lo interpreta in chiave politica, dunque antifrancese (l’Anfitrione esce l’anno successivo all’occupazione di Berlino da parte delle milizie di Napoleone), esaltandone la profondità e la sacralità, del tutto assenti nell’opera frivola e superficiale di Molière; chi infine lo considera un lavoro in tutto e per tutto romantico. Ed è proprio grazie a quest’ultimo approccio critico, che accosta Kleist ad autori romantici dell’epoca come Brentano, Arnim, Jean Paul e Hoffmann, che l’opera riesce a ottenere qualche favore di pubblico. Un favore tuttavia ben presto cancellato dai giudizi eccessivamente duri, severi di Tieck e Goethe [8].

Delle tre chiavi di lettura fornite dalla critica del tempo, nessuna coglie il senso più profondo dell’Anfitrione di Kleist, e ciò dimostra chiaramente quanto l’autore fosse distante dalla contemporaneità e dunque incomprensibile per essa. Risibile e persino offensivo il vedere nell’opera kleistiana una semplice traduzione, fuorviante e riduttivo interpretarla politicamente – Kleist è sì un convinto antifrancese, ma saranno altri lavori ad andare dichiaratamente in questa direzione, e penso per esempio alla Battaglia di Arminio – troppo comodo considerarla un’opera romantica. Kleist, con il suo Anfitrione, si spinge ben al di là di tutto ciò, nelle più profonde, recondite e insondate regioni dell’io umano, approdando infine, come vedremo più avanti, a una dimensione di assurdità e insensatezza nella quale all’individuo non resta altro da fare che sospirare.

Torno ora al testo. Le infuocate ore di passione tra Alcmena e Giove, nelle sembianze di Anfitrione, si sono appena concluse, e il dio adduce a pretesto gli impegni bellici per lasciare la donna.

GIOVE
Fa’ pure allontanare quelle fiaccole,
mia carissima Alcmena. Indubbiamente,
sì, nel loro riverbero s’accende
l’incanto più suadente che fiorisca
sopra la terra, e gli dèi dell’Olimpo
non ne hanno mai veduto uno più bello;
ma come posso dire? – tradiscono,
ecco, colui che l’incanto ha sedotto,
ed è meglio che resti un segreto, capisci,
amica mia, che il tuo Anfitrione era a Tebe:
sono rubati alla guerra gli istanti
che abbiamo offerto in omaggio all’amore;
potrebbe interpretarlo male, il mondo,
questo furto: e non vorrei averne
a testimone altri che te, la sola
che debba rendermene grazie.
ALCMENA
Anfitrione! Vuoi andare via?
Ah come pesa tutta questa gloria!
Con che gioia darei questo diadema
che hai conquistato, per poche violette
colte sul prato intorno a una capanna.
Ma che cosa ci occorre oltre noi stessi?
Perché ti sono imposte tante cose
estranee, una corona, lo scettro del comando?
Sì, quando il popolo ti esalta, quando
riversa il suo entusiasmo in ogni sorta
di nomi altisonanti, oh allora è dolce
il pensiero che tu appartieni a me;
ma cosa vale, questa emozione fugace,
di fronte a ciò che provo quando penso
a questo corpo prezioso – lontano –
preso di mira da tutte le frecce…
È così vuota questa casa, sai,
senza di te! E come gira lento
il filo delle ore deste, quando
deve far risalire il giorno, e intanto
tu sei lontano! Sì, soltanto oggi
lo sento, Anfitrione, tutto quello
che la patria mi ruba – oggi che io
ti ho avuto per due ore – brevi [9].

Giove parla di guerra, di patria, di gloria, ma Alcmena, talmente presa dall’amore, in balia del suo più intimo sentire, del suo sconfinato sentimento, non lo può comprendere. Al cospetto di un cuore che ama persino la gloria, il potere, la ricchezza possono apparire insignificanti. In questo caso è evidente lo scarto chilometrico che separa l’Alcmena di Molière, intrisa d’orgoglio per le gesta del marito e sempre pronta ad assolvere la sua funzione pubblica, dall’Alcmena di Kleist, che con gioia baratterebbe l’inestimabile diadema con qualche fiorellino di campo [10].

Subito dopo Giove parla di matrimonio in termini di legge e di dovere. Anche queste sono parole incomprensibili per Alcmena.

GIOVE
Amica mia, come m’incanti! Eppure
tu mi risvegli dentro un’inquietudine
di cui debbo parlarti, sì, per quanto
a te possa sembrare stravagante.
Tu sai che il matrimonio è una legge
e un dovere, e che se uno non ottiene amore,
amore può perfino esigere
davanti al giudice. – Ecco, vedi,
è questa legge che turba la mia
gioia più grande. È con te, carissima,
col tuo cuore che vorrei
sentirmi in debito di ogni favore,
e non vorrei che t’imponessi un obbligo
al quale forse ti credi soggetta.
Vero che tu lo puoi mettere in fuga,
questo piccolo dubbio? Allora, parla
a cuore aperto, dimmi: chi è quello
che hai ricevuto stanotte, il marito
al quale tu sei legata, o l’amante?
ALCMENA
Marito e amante! Ma che cosa dici?
Non è appunto perché questa unione
è consacrata, che ho il diritto
di riceverti? E come può angustiarti
una legge del mondo, che ben lungi
in questo caso dall’imporci un limite
ai desideri più audaci che nascono
felicemente spazza via ogni limite? [11]

È in queste parole di Alcmena, che domanda a Giove come possa angustiarlo una legge del mondo, che la donna si presenta come infrazione, come rottura all’interno dell’ordinato, logico e razionale universo dell’uomo. Dissolta ogni certezza, svanita ogni possibilità di raggiungere la verità, in seguito alla traumatica scoperta di Kant, la componente femminile rappresenta in Kleist quello che resta: il cuore, il sentimento.
Solamente grazie al decisivo aiuto di Charis, dunque di un elemento esterno, imparziale, Alcmena si accorge che sul monile di Labdaco non è incisa una «A.», bensì una «G.», avvedendosi così dell’inganno.

ALCMENA
Charis!
Povera me, dimmi, ma che cos’è
che sta accadendo? Cosa m’è successo?
Guarda questo gioiello.
CHARIS Che cos’è
questo gioiello, signora?
ALCMENA È il monile,
quello di Labdaco, lo splendido dono
di Anfitrione, un dono così caro,
che ha incisa l’iniziale del suo nome.
CHARIS
Questo? Il monile di Labdaco? Qua
non c’è l’iniziale del suo nome.
ALCMENA
Sei pazza, hai perso l’uso dei tuoi sensi?
Ma non c’è impressa in oro a grandi tratti,
che la si legge con le dita, un’A.?
CHARIS
No, eccellente signora, ma che abbaglio…?
Qui c’è un’altra iniziale, di un estraneo…
Qui c’è una G.
ALCMENA Una G.?
CHARIS Una G., non c’è dubbio.
ALCMENA
Allora io… – È finita. Finita. Io
sono perduta.
CHARIS Ma ditemi, cos’è
che vi sconvolge tanto?
ALCMENA E come,
e dove trovo le parole, Charis,
come faccio a spiegarti l’inspiegabile?
Perché rientro sconcertata in camera,
senza sapere se io sto sognando
o se son ben sveglia, ed ecco che
come in un lampo di follia s’azzarda
il pensiero che mi sia apparso un altro:
perché in quell’attimo mi torna in mente
Anfitrione, e quella sua tristezza
così struggente, e le sue ultime parole,
sì, che avrebbe chiamato mio fratello,
mio fratello, capisci, addirittura!,
contro di me, chiama a testimoniare [12].

Come è stato possibile un simile, grossolano abbaglio? La donna, travolta dalla passione amorosa, ha visto una lettera invece di un’altra perché proprio quella lettera voleva vedere, e nessun’altra. La ragione è sottomessa al cuore, e non solo la ragione, ma anche tutti i sensi, come sottolinea Alcmena stessa poco più avanti.

ALCMENA
Oh Charis, no! Davvero
preferirei sbagliarmi su me stessa.
Vorrei che questo sentimento intimo
che ho succhiato col latte di mia madre
e che mi dice che io sono Alcmena
mi parlasse in persiano o cappadocio!
E questa mano, è mia? Qui, questo petto
è il mio? È proprio mia l’immagine
che lo specchio riflette, adesso?
Ma che sia lui, ad essermi più estraneo
di me stessa! No, prendimi gli occhi,
io l’odo; gli orecchi, e io lo sento al tatto;
toglimi il tatto, io lo respiro ancora;
prendimi occhi e orecchi e tatto e fiuto,
fammi muto ogni senso tranne il cuore:
tintinnerà leggero come un campanello
fino a trovarlo in mezzo al mondo intero [13].

Ma anche il cuore può sbagliare, e ora che la protagonista si è avveduta dell’incredibile errore reagisce rifiutando quello che prova e sente nell’intimo.

ALCMENA
Il mio parlare franco ti ha ferito…
Io mi sentivo forte, prima, e senza colpa.
Ma da quando lo sguardo mi è caduto
su questa cifra estranea,
io voglio diffidare
di ciò che sento nell’intimo [14].

Giove la giustifica, per il dio Alcmena non ha alcuna colpa, resta comunque pura, innocente. E in effetti la protagonista ha numerose attenuanti che scusano il suo madornale fallo: scaltro Giove le si è presentato come l’idealizzazione del marito Anfitrione, e Alcmena non poteva certo notare la cifra differente impressa sul prezioso diadema, in quanto, come già accennato, il cuore sovrasta i sensi e fa vedere ciò che si vuole vedere, anche se in realtà non esiste.

La vicenda si chiarisce definitivamente quando Giove si mostra, in un tripudio di lampi, tuoni e nubi, in cui un’aquila discende stringendo la folgore. L’opera si conclude con il celebre sospiro di Alcmena, quell’«Ach!» divenuto topos letterario, che racchiude il senso più profondo dell’Anfitrione kleistiano. In questo lavoro Kleist si è voluto spingere oltre, persino oltre il cuore, oltre il sentimento, e sperimentando, sondando l’interiorità umana, e in particolar modo femminile, è approdato a una nuova via, una terza via dopo quelle della ragione e del cuore: la via dell’assurdo, del nonsenso, nella quale è impossibile ogni forma di linguaggio, e nella quale dunque all’individuo è concesso solo sospirare.

NOTE

[1] Per un approfondimento sulla tragedia si veda l’articolo La famiglia Schroffenstein. Alla scoperta della prima opera kleistiana.

[2] Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in H. v. Kleist, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Anna Maria Carpi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011, p. XVII.

[3] Ivi, p. XVIII.

[4] H. v. Kleist, Anfitrione, trad. it. di Roberta De Monticelli, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. 253.

[5] Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. 1168.

[6] H. v. Kleist, Anfitrione, trad. it. di Roberta De Monticelli, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. 255.

[7] Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. 1167.

[8] Ivi, p. 1171.

[9] H. v. Kleist, Anfitrione, trad. it. di Roberta De Monticelli, in H. v. Kleist, Opere, cit., pp. 208-209.

[10] Notizie sui testi e note di commento, a cura di Anna Maria Carpi e Stefania Sbarra, in H. v. Kleist, Opere, cit., p. 1173.

[11] H. v. Kleist, Anfitrione, trad. it. di Roberta De Monticelli, in H. v. Kleist, Opere, cit., pp. 209-210.

[12] Ivi, pp. 236-237.

[13] Ivi, pp. 238-239.

[14] Ivi, p. 242.

In copertina: Egon Schiele, Liegender Frauenakt, 1908.

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