In ambito letterario la scrittura privata, sia essa in forma epistolare oppure diaristica, è un’enorme opportunità. Come ho avuto modo di scrivere in un recente articolo [1], ci permette di cogliere appieno l’essenza di un autore. Non solo, in alcune circostanze particolari può rivelarsi uno strumento interpretativo imprescindibile, formidabile, e cioè quando lo scrittore stesso parla delle sue opere. In tal senso il caso di Dostoevskij è emblematico. Nelle lettere infatti, l’autore russo dedica ampio spazio ai suoi libri. Leggiamo dunque quelle epistole in cui Dostoevskij spiega i suoi quattro romanzi maggiori, in rigoroso ordine cronologico: Delitto e castigo (1866), L’idiota (1869), I demoni (1871) e I fratelli Karamazov (1879).
Delitto e castigo
A Michail Nikiforovič Katkov
Wiesbaden. 10 (22) – 15 (27) settembre 1865
Egregio signore Michail Nikiforovič!
Posso sperare di pubblicare un mio racconto sulla Sua rivista “Il Messaggero Russo”?
Lo sto scrivendo qui a Wiesbaden già da due mesi, e lo sto portando a termine adesso. Sarà composto di cinque o sei fogli a stampa. Mi ci vorranno ancora due settimane per finirlo, ma forse anche di più. In ogni caso posso dire con sicurezza che entro un mese, certo non più, potrei farlo pervenire alla redazione del “Messaggero Russo”.
L’idea di base del racconto, almeno per quanto io posso giudicare, non dovrebbe trovarsi per nulla in contraddizione con la tendenza della Sua rivista, anzi al contrario. Si tratta del resoconto psicologico di un delitto.
L’azione si svolge al giorno d’oggi, in questo stesso anno. Il protagonista, un giovane studente espulso dall’università, di estrazione borghese, ma che vive in condizioni di estrema povertà, essendo caduto – per leggerezza e per l’instabilità delle sue convinzioni – sotto l’influenza di certe strane idee ancora “informi”, decide di tirarsi fuori d’un sol colpo dalla sua disgraziata situazione. Decide di uccidere una vecchia, vedova di un consigliere titolare, che presta del denaro a interesse. La vecchia è stupida, sorda, malata, avida, prende degl’interessi degni di un ebreo, è malvagia e divora la vita degli altri, tormentando la sorella più giovane che le fa da serva. “Quella vecchia non serve a niente, perché dunque vive?” “È forse utile a qualcuno a questo mondo?” e così via. Tutte queste domande mettono fuori strada il giovane. E così egli decide di ucciderla per derubarla allo scopo di dare un po’ di felicità a sua madre che vive in provincia e di liberare la sorella, che fa la dama di compagnia in casa di certi proprietari di campagna, dalle libidinose persecuzioni del capo di quella famiglia di proprietari, persecuzioni che minacciano di rovinarla; e anche allo scopo di finire l’università, recarsi all’estero e in seguito, per tutta la sua vita, essere irreprensibilmente onesto e inflessibile nell’adempiere al suo “dovere di uomo nei confronti dell’umanità”, scopo che naturalmente potrà “cancellare il delitto”, se pure si piò chiamare delitto un atto di questo genere compiuto contro una vecchia sciossa, sorda, malvagia e malata, che non sa neppure lei perché vive a questo mondo e che forse, tra un mese o due, sarebbe morta di morte naturale.
Sebbene sia estremamente difficile compiere delitti di questo genere, per il fatto che quasi sempre vengono lasciate allo scoperto delle tracce e degl’indizi grossolanamente evidenti e una quantità di particolari vengono abbandonati al caso, tuttavia il giovane riesce a portare a termine, per puro caso, la sua impresa criminosa rapidamente e felicemente.
Dopodiché passa quasi un mese fino alla catastrofe definitiva. Su di lui non ci sono sospetti e nemmeno ci possono essere. Ed è proprio a questo punto che si sviluppa tutto il processo psicologico del delitto. Dei problemi insolubili si pongono all’assassino, dei sentimenti inattesi e imprevedibili straziano il suo cuore. La verità divina e la legge terrena reclamano ciò che è a loro dovuto, ed egli si trova ridotto, anzi costretto ad autodenunziarsi. È costretto a questo passo per poter – anche a costo di morire ai lavori forzati – accostarsi di nuovo agli uomini; il sentimento di chiusura e di separazione nei confronti di tutta l’umanità, che l’ha assalito subito dopo aver compiuto il delitto, lo tormenta troppo. La legge della verità e la natura umana hanno proclamato i loro diritti, determinando in lui, senza che quasi egli possa opporsi, una nuova convinzione interiore… L’assassino decide spontaneamente di accettare il tormento della pena per espiare il suo crimine. Comunque mi riesce difficile chiarire pienamente il mio pensiero: adesso appunto intendo conferirgli una forma artistica in cui esso trovi la sua espressione. Quanto alla forma…
Nel mio racconto c’è inoltre un’allusione all’idea che la punizione che viene imposta per legge al criminale per il suo delitto in realtà lo spaventa molto meno di quanto s’immaginino i legislatori, giacché è lui stesso ad esigerla moralmente.
Questo fatto io stesso ho potuto constatarlo perfino nelle persone meno evolute e nelle circostanze più volgari, e ho voluto esprimerlo proprio in una persona coltivata, appartenente alla nuova generazione, affinché quest’idea fosse visibile nel modo più chiaro e tangibile. Alcuni casi che si sono verificati proprio in questi ultimi tempi mi hanno convinto che l’argomento del mio racconto non ha nulla di eccentrico, e in particolare non presenta nulla di strano il fatto che l’assassino sia un giovane coltivato e perfino dotato di buone disposizioni naturali. L’anno scorso a Mosca mi hanno raccontato (ed è un fatto accertato) di uno studente che era stato espulso dall’università in seguito alla faccenda degli studenti a Mosca e che si risolse ad assalire un ufficio postale e a uccidere un postino. Inoltre nei nostri giornali si possono cogliere molti segni della straordinaria instabilità delle convinzioni attuali che induce a terribili delitti. (quel seminarista che ha ucciso una ragazza in una rimessa con il consenso di lei e che è stato preso un’ora dopo il fatto mentre faceva colazione, e così via.) Insomma io sono convinto che l’argomento del mio racconto è in certa misura confermato dalla realtà attuale.
S’intende che, in questa breve esposizione dell’argomento del mio racconto, io ho trascurato tutto l’intreccio. Posso garantire dell’interesse del mio racconto, anche se non oso esprimere un giudizio sull’artisticità della sua realizzazione. Troppe volte mi è capitato di scrivere delle cose molto, molto brutte, e questo perché mi sono troppo affrettato per consegnarle entro il termine stabilito, e così via. Del resto questo racconto l’ho scritto senza fretta e con grande passione. Mi sforzerò tuttavia, se non altro per amor proprio, di portarlo a termine nel modo migliore possibile.
[…] [2]
Reputo utile riportare alla luce il contesto nel quale è stata scritta la lettera, contesto che ci permette di capire quanto fosse importante per Dostoevskij, quasi un salvacondotto. Lo scrittore, in viaggio in Europa in compagnia dell’amante Apollinarija Suslova (la prima moglie è morta da più di un anno), perde tutto alla roulette, e mentre la donna riesce a raggiungere in un modo o nell’altro Parigi (si sa, il genere femminile ha infinite risorse), Dostoevskij resta bloccato per più di un mese in un albergo di Wiesbaden. Per un uomo recluso quattro anni in Siberia, un soggiorno forzato in un albergo dovrebbe essere poco più che una sciocchezza, direte voi, ma essere costretti a restare in terra straniera senza un soldo bucato in tasca, e dunque senza cibo, subendo le continue vessazioni del proprietario della struttura, che nega persino un mozzicone di candela per scrivere, beh, non deve essere molto piacevole. Solo grazie alla decisione di Katkov di pubblicare Delitto e castigo sul «Messaggero Russo», lo scrittore riesce finalmente a liberarsi da questa complicata e sgradevole situazione.
Per quanto riguarda il contenuto della lettera, Dostoevskij è così chiaro ed esaustivo che qualunque altra parola da parte mia sarebbe superflua, del tutto inutile. Pertanto mi limito a sottolineare solamente alcuni aspetti.
Lo scrittore definisce il romanzo «resoconto psicologico di un delitto», fornendo così quasi un sottotitolo dell’opera, e, dopo aver raccontato per sommi capi la trama, descrive il meccanismo che si innesca in Raskol’nikov e che lo porta a costituirsi. In tal senso Dostoevskij evidenzia il carattere costrittivo della scelta del protagonista di autodenunciarsi. Ed è proprio in queste righe che l’autore stesso, in prima persona, esprime l’essenza di Delitto e castigo, fornendo esplicitamente la chiave di lettura dell’opera. Raskol’nikov, tormentato dal sentimento di chiusura e di separazione, di totale isolamento nei confronti dell’umanità, deve, malgrado la propria volontà, sospinto dalla «verità divina» e dalla «legge terrena», deve costituirsi per poter riallacciare di nuovo un rapporto con i suoi simili. E in lui si determina, senza che possa opporsi, «una nuova convinzione interiore». In questo delicato e complesso, ma grandioso processo di redenzione, avrà un ruolo fondamentale la non citata, ma decisiva Sof’ja Semënovna, quest’angelica creatura che mantiene intatta la sua purezza nonostante sia costretta – ancora una volta – a vivere nel lordume, e che accompagnerà Raskol’nikov fino in Siberia.
Ci tengo a sottolineare un altro paio di aspetti. Il primo riguarda l’interesse di Dostoevskij per la cronaca. Egli è uno scrittore conficcato nella realtà, da essa trae ispirazione, la osserva con sguardo acuto, penetrante, la racconta, e raccontandola la spiega. Dostoevskij non si concede vagheggiamenti astratti, i suoi piedi sono saldamente piantati sulle strade russe, siano esse quelle asfaltate dell’accecante Pietroburgo oppure quelle fangose della tenebrosa provincia, e la sua penna tagliente affonda come un bisturi nei fatti e negli uomini che ne sono protagonisti.
Infine, invito a porre l’attenzione su questa frase, su questa confessione: «Troppe volte mi è capitato di scrivere delle cose molto, molto brutte, e questo perché mi sono troppo affrettato per consegnarle entro il termine stabilito, e così via». A differenza di tutti gli altri grandi scrittori russi della sua generazione, i vari Turgenev, Tolstoj, Gončarov, Dostoevskij scrive per vivere. Un aspetto non di secondaria importanza, se si considera che, nonostante i tempi ristretti, le scadenze, la necessità, Dostoevskij è riuscito comunque a creare capolavori immensi, ineguagliabili. L’ennesima dimostrazione della sua grandezza.
NOTE
[1] L’articolo I Fondamentali: lettere d’autore.
[2] F. Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli Editore, Milano 1991, pp. 66-69.
In copertina: Vasilij Grigor’evič Perov, Ritratto di Dostoevskij, 1872.