Un Chien Andalou, la spremuta surrealista di Luis Buñuel e Dalì

Regia: Luis Buñuel
Durata: 16′
Sceneggiatura: Luis Buñuel, Salvador Dalì
Anno: 1929

Celeberrima è la storia del “cane andaluso“, innumerevoli sono stati i commenti a questo cortometraggio e infinite le elucubrazioni sull’occhio tagliato nella scena d’apertura.
Iniziamo allora a spiegare la genesi del cortometraggio che prende vita dalle geniali concretezze del regista e di Salvador Dalì , amici fraterni già dai tempi della Residencia de Estudiantes di Madrid dove vissero e conobbero Federico Garcia Lorca. All’uscita dello straordinario “Romancero Gitano” opera fortunata del poeta, i due amici si trovano in aperta contraddizione con l’ex compagno. Non si può negare però il coinvolgimento delle immagini di Garcia Lorca nel cortometraggio ( la luna ne è l’esempio principe ), ma soprattutto per ciò che riguarda il titolo ( completamente  slegato dal contenuto, in perfetto stile surrealista ), il “cane” potrebbe essere rivolto allo scrittore ed proprio così che lui lo interpreta offendendosi moltissimo.
La sceneggiatura è scritta a quattro mani a partire da dei sogni fatti dai due surrealisti, ed è questo l’atto che scatena la carica onirica della immagini, i sogni reinterpretati sulla pellicola esplodono dalle sinapsi sognanti dei due spagnoli per gettarsi sullo schermo. Un vortice di simbolismi mortali e prosaici. Brutto, disarticolato, ciondolante e schizofrenico, come era stato partorito, il complimento più grande che si possa fare alla pellicola e ai due ideatori mortissimi, è di essere riusciti precisamente nel loro intento funereo e simbolico.
L’idea è scardinare, erodere e distruggere le convenzioni cinematografiche e sociali dell’epoca, in maniera esplicita e concreta e senza sotterfugi. Le scene che si susseguono in un continuo volutamente estraniante, in uno spazio-tempo scardinato dalla visione onirica (vedi le didascalie), sono un vortice di lugubri messaggi e riferimenti.
E’ ovviamente inutile raccontare per filo e per segno le varie scene, è più giusto indirizzare l’articolo in maniera ben precisa, ovvero come incipit all’opera vera e propria, che grazie alla rete potete vedere mentre leggete  il mio commento.

Come avete visto il cortometraggio è saturo di simboli e carico di significati sociali, ad esempio la sequenza in cui l’uomo traina sulle spalle i pianoforti con la carcassa d’asino e i due sacerdoti maristi, simbolo del retaggio culturale della chiesa che non permette la libera esposizione degli impulsi sessuali.
Il cortometraggio avrà un discreto successo, e avrà soprattutto il merito di consegnarci uno dei registi più importanti di sempre.

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