Sulla musica

Quando leggo un capolavoro letterario; quando ammiro un capolavoro pittorico o scultoreo, mi sento insignificante. Consapevole della mia piccolezza, della mia irrilevanza lo sono sempre (e credo che nella nostra mediocre e tiepida epoca questa sia una condizione necessaria per creare qualcosa di dignitoso, ma questo è un altro discorso), ma ecco che al cospetto di opere monumentali come la Commedia dantesca, come il Giudizio universale o il Mosè michelangioleschi, sento questa consapevolezza farsi materia, assumere la consistenza di una pietra gigantesca e schiacciarmi fino a ridurmi in poltiglia. Con la letteratura, la pittura e la scultura ho un rapporto diretto, immediato, intimo. Un rapporto fisico, carnale.

Con la musica è diverso. Con la musica è tutta un’altra storia. Quando ascolto una composizione di Beethoven, di Mozart o di Chopin, provo infatti una sorta di straniamento. Sento qualcosa nella mia testolina tarlata (sì, perché la cultura sa essere dannosa più di qualunque altra cosa, più della malattia) andare in corto circuito, come quando si getta una secchiata d’acqua su un quadro elettrico. Perché con la musica, rispetto alle altre arti, ho un altro rapporto? O meglio, un rapporto non ce l’ho proprio. E non si tratta di competenze tecniche, non è di questo che sto parlando, non è questo che mi interessa.

In questi giorni, preparando l’ennesimo esame di letteratura italiana della mia lunga carriera universitaria, ho avuto la fortuna di imbattermi in alcune parole di Otto Weininger, il singolare filosofo austriaco morto suicida – si narra per una scommessa – alla veneranda età di ventitré anni, e di Alberto Savinio, che vanno proprio in questa direzione e contribuiscono in modo decisivo a risolvere una volta per tutte la questione [1].

Scrive Weininger:

«Niente esiste sia nella natura, sia esperibile ai nostri sensi, che si possa confrontare con l’essenza di un suono. La musica è estranea al mondo dell’esperienza, la natura non ha toni, accordi melodie».

Scrive Savinio:

«E, se l’uomo cede con tanto piacere alla musica è soprattutto per il diverso, per l’ignoto che è in essa».

E ancora, sempre il nomade (a livello artistico soprattutto, oltreché geografico) fratello di de Chirico:

«La musica stupisce e instupidisce. […] la non conoscibilità della musica è la ragione della sua forza, il segreto del suo fascino».

È questo, è proprio questo il punto. Come sottolinea Weininger in natura non esiste niente che possa essere confrontato con l’essenza del suono, e la musica è del tutto estranea al mondo dell’esperienza. E Savinio aggiusta il tiro, nomina le cose per quelle che sono e parla di stupidità [2]. Sì, perché ciò che prima ho benevolmente definito straniamento, corto circuito, in realtà non è altro che stupidità (così, se rispetto alla letteratura, alla pittura e alla scultura mi trovo in uno stato di minorità, diciamo così, esistenziale, nella musica mi trovo invece in uno stato di minorità intellettiva).

Stupidità, dunque. Ma una stupidità, aggiungo io, tutta particolare, che barcolla come se fosse ubriaca sull’orlo della follia. Nessuno mi toglierà mai da questa mia testolina tarlata, tutta forata a mo’ di groviera, l’idea che un ascolto reiterato della Sinfonia n. 9 di Beethoven conduca alla pazzia, ma la pazzia quella vera, che sfigura il cervello come una lama il volto. Note tanto grandi, note tanto misteriose sono in grado di sfasciare l’improvvido individuo che ne abusa, ne sono certo.

C’è un ometto, per esempio, un mio conoscente, si chiama Fausto, detto Faustino, che la pensa proprio come me, e si concede il rischio di ascoltare la «gran nona del Ludovico Van», come direbbe l’Alex DeLarge burgess-kubrickiano, solo nei momenti più bui e difficili, proprio come un farmaco. Poi magari può anche capitare che la medicina non faccia effetto e il dolore, ostinato, persista, ma questa è un’altra storia.

NOTE

[1] L’accostamento Weininger-Savinio non è casuale. Il filosofo austriaco fu uno dei pensatori che più influenzò, con Schopenhauer e Nietzsche, Alberto Savinio.

[2] In tal senso il caso di Savinio è emblematico. Egli nacque compositore, a Parigi fondò il sincerismo, salvo poi abbandonare la musica, definita «un’arte pazza», per paura e per non soggiacere al suo fascino.

In copertina: Gustav Klimt, La Musica I, 1895.

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