Un corso di letteratura italiana contemporanea interamente dedicato alla poesia di Giorgio Caproni.
Una docente che oltre ad essere docente è anche poetessa, scrittrice e giornalista: Biancamaria Frabotta.
Uno studente: io.
E poi? Cos’altro? Appunti. Una pioggia di appunti.
Sezione Tema con variazioni. Motivo dello spopolamento della Val Trebbia, tema dell’esodo. Paesi desertificati.
LASCIANDO LOCO
a André Frénaud
Sono partiti tutti.
Hanno spento la luce,
chiuso la porta, e tutti
(tutti) se ne sono andati
uno dopo l’altro.
Soli,
sono rimasti gli alberi
e il ponte, l’acqua
che canta ancora, e i tavoli
della locanda ancora
ingombri – il deserto,
la lampadina a carbone
lasciata accesa nel sole
sopra il deserto.
E io,
io allora, qui,
io cosa rimango a fare,
qui dove perfino Dio
se n’è andato di chiesa,
dove perfino il guardiano
del camposanto (uno
dei compagnoni più gai
e savi) ha abbandonato
il cancello, e ormai
– di tanti – non c’è più nessuno
col quale amorosamente
poter altercare?
Nella prima strofa tema dell’esodo, la parola dominante è «tutti», ripetuta tre volte. Un esodo è dato dal fatto che se ne vanno tutti. Si tratta di un esodo continuato nel tempo, se ne vanno un po’ per volta, è un dissanguamento della popolazione. Tema della solitudine, ed è la natura a restare sola. La natura non è più un ambiente confortante. L’acqua ricorda ancora la natura così com’era. «l’acqua / che canta ancora» è un verso rubato a Bertolucci (poeta della natura) e riadattato. «i tavoli / della locanda ancora / ingombri»: immagine quasi cinematografica, come se fossero andati via all’improvviso. La locanda, così come l’osteria, è uno dei luoghi di Caproni. Seconda strofa, deserto: affiancato al tema buio-luce; la lampadina non serve a niente, non è una luce che fuga le tenebre, è svuotata di senso. Terza strofa: io e Dio, i due protagonisti della poesia a-teologica. L’esodo ha colpito anche la chiesa, se ne è andato anche Dio. Gai-ormai è una delle poche rime; rime che se ne stanno andando dalla poesia di Caproni, sostituite dalla ripetizione di parole identiche. Io-Dio è una rima inutile. L’io non ha possibilità di sopravvivenza quando Dio non c’è più. Domanda finale: finisce anche il senso del dialogo. Morte di Dio-insensatezza dell’io; forte corrispondenza con Nietzsche, che Caproni riprende.
DOPO LA NOTIZIA
Il vento… È rimasto il vento.
Un vento lasco, raso terra, e il foglio
(quel foglio di giornale) che il vento
muove su e giù sul grigio
dell’asfalto. Il vento
e nient’altro. Nemmeno
il cane di nessuno, che al vespro
sgusciava anche lui in chiesa
in questua d’un padrone. Nemmeno,
su quel tornante alto
sopra il ghiareto, lo scemo
che ogni volta correva
incontro alla corriera, a aspettare
– diceva – se stesso, andato
a comprar senno. Il vento
e il grigio delle saracinsche
abbassate. Il grigio
del vento sull’asfalto. E il vuoto.
Il vuoto di quel foglio nel vento
analfabeta. Un vento
lasco e svogliato – un soffio
senz’anima, morto.
Nient’altro. Nemmeno lo sconforto.
Il vento e nient’altro. Un vento
spopolato. Quel vento,
là dove agostinianamente
più non cade tempo.
Caproni stesso spiega che la notizia è lo scoppio della guerra. Dieci occorrenze della parola vento. In questa poesia compaiono tre temi: 1) vento; 2) grigio (tre occorrenze); 3) vuoto (tema filosofico privo di immagini). La poesia parla di ciò che è accaduto dopo la notizia, e non c’è sgomento, non c’è paura, qui, oltre al vento, non c’è nessuno. È una vera variazione, si riprende e si sviluppa infatti il tema della poesia precedente. Fuggi fuggi, la popolazione è scappata. Dopo la notizia il mondo è diventato deserto. È ora un paesaggio che sembra metafisico. Al secondo verso il vento inizia a essere specificato con gli aggettivi. Il foglio di giornale fatto rotolare dal vento è una tipica immagine cinematografica. Ridondanza di questo vento (nominato quattro volte nello spazio di tre versi). Proposizioni nominali, frasi senza verbo. Il verbo che conta è muovere, ma non esprime nessuna azione, è una non-azione. Comincia la parte centrale (un residuo di vita, ma di una vita ormai svuotata di senso), che è quella narrativa: il cane e lo scemo. Tornano i verbi; che dopo «senno» (v. 15) scompaiono di nuovo. L’acqua è scomparsa; «ghiareto» è il letto secco di un fiume o di un torrente. Dopo questo breve raccontino ricomincia con il vento, che da «lasco» diventa «analfabeta». «un soffio / senz’anima, morto» metafora lancinante. Negli ultimi tre versi enigma filosofico. «quel» ora indica il vento, che è diventato un vento cosmico. Il vento entra in interferenza con il grigio (la mancanza di colore è tipica di quella società dei consumi che Caproni non ama; in merito ad essa parla di predominio del grigio). Alla fine il vento lo assorbe e diviene grigio. Devitalizzazione del vento; la passione di Caproni per la musica nasce proprio dall’ascolto della musica del vento, che ora è scomparsa. Ora a-tonalità, ripetizione monotona, ossessiva della parola vento. È un vento che non permette di navigare (è «lasco»), poi diviene grigio e analfabeta. Foglio ora introdotto dal vuoto, perché il vento non sa leggere, è indifferente, disinteressato della guerra, del male, della storia. Il senso clamoroso di quella notizia si svuota. Ora diventa un vento morto, entriamo in una dimensione che ha superato l’atmosfera terrestre. Ora il cosmo è spopolato. Domina la negatività, la costruzione al negativo (utilizzo di termini come «nemmeno», «nient’altro»).
Caproni fa riferimento al ventinovesimo capitolo del XIII libro delle Confessioni di Agostino, intitolato Eternità della visione e della parola divina:
«Ho cercato, dunque, se vedesti per sette o per otto volte che le tue opere erano buone, quando ti piacquero. Ma non ho scoperto nella tua visione l’esistenza di tempi, con cui capire che vedesti tante volte le tue opere. Dissi allora: “O Signore, la tua Scrittura non è forse veritiera, poiché espressa da te, verace e Verità? Perché dunque tu mi dici che nella tua visione non esistono tempi, mentre d’altra parte la tua Scrittura mi dice che vedesti giorno per giorno che le tue opere erano buone, e io calcolandole ho scoperto quante volte?”. Ecco la tua risposta. Tu sei il mio Dio, e dici con voce forte all’orecchio interiore del tuo servo, squarciando col grido la mia sordità: “O uomo, certamente le parole che dice la mia Scrittura, io le dico. Però essa le dice nel tempo, mentre la mia parola non è soggetta al tempo, ferma com’è in un’eternità pari alla mia. Ciò che voi vedete attraverso il mio spirito, io lo vedo; ciò che voi dite attraverso il mio spirito, io lo dico. Ma mentre voi lo vedete nel tempo, io non lo vedo nel tempo; così come, mentre voi lo dite nel tempo, io non lo dico nel tempo”».
Poesia di pura negatività. Caproni chiude la poesia con le parole di Dio, che però non colmano il vuoto, perché le Confessioni sono un libro mentale.
Agostino, che scopre giovanissimo, è, con Pascal e Kierkegaard, il filosofo di Caproni: «Ed è stato appunto sulle pagine di sant’Agostino che ho cozzato contro il problema del Male, voglio dire il Male che proviene dalla Natura. Lì mi sono fermato. Questo problema nemmeno sant’Agostino l’ha risolto».
PAROLE (DOPO L’ESODO) DELL’ULTIMO DELLA MOGLIA
Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti
han preso la stessa via.
Ora non c’è più nessuno.
La mia
casa è la sola
abitata.
Son vecchio.
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?
Meglio – lo so – è ch’io vada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.
La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
– da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.
Aspetto
e ascolto.
(L’acqua, da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suo stesso suono
sulle sue pietre?)
Mi sento
perso nel tempo.
Fuori
del tempo, forse.
Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciar me stesso – uscire
da me stesso come,
la notte, dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.
Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.
Certo
(è il vento degli anni ch’entra
nella mente e ne turba
le foglie) a volte
il cuore mi balza in gola se penso
a quant’ho perso. A tutta
la gaia consorteria
di ieri. Agli abbracci. Gli schiaffi.
Alle matte risate,
la sera, all’osteria
dietro le donne. Alte
da spaccar le vetrate.
Ma non m’arrendo. Ancora
non ho perso me stesso.
Non sono, con me stesso,
ancora solo.
E solo
quando sarò così solo
da non aver più nemmeno
me stesso per compagnia,
allora prenderò anch’io la mia
decisione.
Staccherò
dal muro la lanterna
un’alba, e dirò addio
al vuoto.
A passo a passo
scenderò nel vallone.
Ma anche allora, in nome
di che, e dove
troverò un senso (che altri,
pare, non han trovato),
lasciato questo mio sasso?
Paesino della Val Trebbia, dove era rimasto un solo vecchio che aveva il terrore di perdersi nella città. La forma metrica di partenza è la canzonetta, priva però di musicalità e di rime. Il tono non è poi tanto diverso da quello usato nel Congedo; è un tono conversevole. La canzonetta è distrutta. Lunghi versi prosastici, zone di vuoto, buchi che si aprono, versi spezzati senza più il gusto della rima. Si sente che è un parlare senile: rime sostituite da parole-rima; ripetizioni (i vecchi si ripetono). Le antitesi tradiscono un principio di Alzheimer. Poesia di chi è perso nel tempo o addirittura sta fuori del tempo. Riabilitazione del dialogo con se stesso, probabilmente dovuta alla rilettura di Agostino. Queste sono confessioni postmoderne, si dialoga da soli, nella propria testa. Esempio di resistenza stoica che Caproni affermerà fino alla fine. Da questo momento entriamo nell’ultimo Caproni, tragico ma sottotono. Si adegua al tema della vecchiaia.
VERSI INCONTRATI POI
«We would not leave
our native home
for any world
beyond the tomb.»
Si tratta in realtà di due soli versi di Emily Brontë.
Le poesie sono tratte da Giorgio Caproni, Poesie 1932-1986, Garzanti, 1989.
Gli appuntamenti precedenti:
Caproni in itinere. Parte I
Caproni in itinere. Parte II
Caproni in itinere. Parte III
Caproni in itinere. Parte IV. Introduzione ai Lamenti
Caproni in itinere. Parte V. I lamenti
Caproni in itinere. Parte VI. Le biciclette
Caproni in itinere. Parte VII. Stanze della funicolare
Caproni in itinere. Parte VIII. Il passaggio d’Enea
Caproni in itinere. Parte IX. L’ascensore
Caproni in itinere. Parte X. Litania
Caproni in itinere. Parte XI. Il seme del piangere, 1
Caproni in itinere. Parte XII. Il seme del piangere, 2
Caproni in itinere. Parte XIII. Il seme del piangere, 3
Caproni in itinere. Parte XIV. Il seme del piangere, 4
Caproni in itinere. Parte XV. Il seme del piangere, 5
Caproni in itinere. Parte XVI. Congedo del viaggiatore cerimonioso
Caproni in itinere. Parte XVII. Il fischio (parla il guardacaccia)
Caproni in itinere. Parte XVIII. Lamento (o boria) del preticello deriso
Caproni in itinere. Parte XIX. Il muro della terra, 1
Caproni in itinere. Parte XX. Il muro della terra, 2
Caproni in itinere. Parte XXI. Il muro della terra, 3
Caproni in itinere. Parte XXII. Il muro della terra, 4
Caproni in itinere. Parte XXIII. Il muro della terra, 5