Voglie, treni regionali e balene

Cesare Pavese è uno scrittore che ti mette le voglie addosso. E ti senti prudere dappertutto, come se avessi una fastidiosa irritazione cutanea, fin quando non le soddisfi.

Così, come dopo aver letto Il carcere sono tornato a tuffarmi in mare, recuperando un rapporto interrotto da almeno tre anni, come dopo aver letto La luna e i falò ho racimolato le sterpaglie di mezza campagna per accendere un grosso fuoco, dopo aver letto la poesia I mari del Sud, e in particolar modo questi versi: «Solo un sogno / gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta, / da fuochista su un leno olandese da pesca, il cetaceo, / e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole, / ha vedute fuggire balene tra schiume di sangue / e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia» [1], sono entrato in libreria e ho acquistato Moby Dick di Melville – io che non amo particolarmente la letteratura americana, appartengo infatti all’altro blocco, quello russo. Mi sarebbe piaciuto leggere proprio la traduzione di Pavese, dell’edizione Adelphi, ma alla fine ho optato per la ben più economica edizione Newton. Pazienza, sarà per un’altra volta.

Comodamente seduto sul penultimo vagone del treno regionale Roma Termini-Nettuno, necessariamente elevato al rango di salotto letterario, tra il chiacchiericcio dell’ora di punta e l’afrore di sudore rappreso, apro il libro, scritto fitto fitto, e mi ritrovo davanti agli occhi questo incipit:

«Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa esattamente quanti – avendo in tasca poco denaro, o forse non avendone affatto, e non avendo nulla di particolare che mi trattenesse a terra, pensai di andarmene un poco per mare, a vedere la parte del mondo coperta dalle acque. È il sistema che uso per scacciare la tristezza e tenere sotto controllo la circolazione. Ogni qualvolta m’accorgo che mi si va formando intorno alla bocca una piega arcigna; quando sulla mia anima scende un umido, piovigginoso novembre; quando mi sorprendo a sostare involontariamente davanti ai negozi di casse da morto e a seguire ogni funerale che incontro; e specialmente quando l’ipocondria prende il sopravvento su di me a un punto tale da far sì che debba ricorrere a un forte principio morale per impedirmi di scendere deliberatamente in strada a far saltare via il cappello dalla testa della gente… allora giudico che sia giunto il momento di andar per mare il più presto possibile. È il mio surrogato della pistola e della pallottola» [2].

«Cazzo…», sussurro sbalordito, tramortito, mentre un gigante al mio fianco si stappa la seconda Tennent’s nel giro di dieci minuti. Ho indugiato su queste poche righe per tutto il viaggio, le ho rilette non so quante volte (ah, il gigante alcolizzato è sceso a Pomezia – che non è le Langhe, d’accordo, ma un suo fascino, diciamo così, sironiano, ce l’ha, e anche dechirichiano con quella sua torre arrapata come se nulla fosse stato – trascinandosi dietro un’acre scia di birra). Quello di Moby Dick è un incipit esplosivo, tra i più esplosivi che abbia mai letto insieme alla Metamorfosi di Kafka e alle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij.

Ogni lettore, dopo un simile inizio, non può che arruolarsi con febbrile ed ebbro entusiasmo nell’equipaggio del capitano Achab, al fianco di Ismaele, pronto a dare la caccia alla balena bianca. E chi se ne frega se si soffre il mare, se, come il sottoscritto, non appena si mette il piede su una barca si prova una nausea schifosa. Tanto, per quanto con l’immaginazione si possano solcare gli oceani, il culo in realtà è sempre inchiodato su questo fottuto sedile lercio del treno regionale Roma Termini-Nettuno.

NOTE

[1] Per una lettura integrale e una breve analisi testuale del componimento I mari del Sud si veda l’articolo Pavese poeta, I.

[2] Hermann Melville, Moby Dick, cura e traduzione di Pietro Meneghelli, Newton Compton editori, Roma 1995, p. 35.

In copertina: prima pagina dell’edizione del 1930 di Moby Dick illustrata da Rockwell Kent.

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