Che La navigazione di San Brandano (Navigatio sancti Brendani) sia stata un’opera straordinariamente diffusa nel Medioevo, imponendosi presto come un classico della letteratura di viaggio, lo si evince dall’eccezionale numero di manoscritti, circa 120, disseminati in Europa.
Scritta da un ignoto ecclesiastico irlandese tra il IX e il X secolo, la Navigazione narra del meraviglioso viaggio dell’abate Brandano (460 o 484 – 577 o 583), fondatore del monastero di Clonfert, verso la «Terra repromissionis sanctorum», ovvero la Terra promessa dei santi, corrispondente al Paradiso terrestre.
Tra le fonti dell’opera figurano certamente due generi tipici dell’antica narrativa irlandese, immrama ed echtrai [1], ma anche testi di carattere agiografico – su tutti la Vita Pauli Primi Eremitae di Girolamo, la Vita Antonii di Atanasio e la Vita di San Macario -, ovviamente le Sacre scritture, le visiones dell’Aldilà e la florida letteratura classica ed ellenistica.
Tre le possibili chiavi di lettura della Navigazione. Innanzitutto quella che individua nell’opera una metafora del pellegrinaggio, poi quella escatologica, secondo la quale la figura di Brandano è modellata su Mosè, e in effetti l’abate come il patriarca conduce la propria comunità verso una terra promessa. Infine l’interpretazione forse più affascinante, che ravvisa nella conoscenza il fine ultimo della Navigazione. Brandano dimostra un’avida curiosità e una sete di sapere quasi faustiana praticamente in ogni situazione. E la narrazione, a differenza delle Vitae, nelle quali addirittura compie miracolose resurrezioni, non è incentrata tanto sul suo personaggio, quanto su tutto ciò che incontra. In tal senso l’oceano – deserto liquido – esplorato dall’abate e i suoi monaci, si configura come luogo d’avvicinamento alla sapienza divina e ai suoi misteri.
Dopo questa breve, ma necessaria introduzione, propongo la lettura e l’analisi del primo dei tre capitoli “infernali” della Navigazione, il XXIII, XXIV e XXV, in cui l’abate e il suo equipaggio si imbattono in un’inquietante isola abitata da fabbri diabolici, nell’inferno e nel dannato par excellence: Giuda.
[XXIII – L’isola dei fabbri]
Dopo otto giorni avvistarono non lontana un’isola dall’aspetto selvaggio, rocciosa e ingombra di scorie, senza vegetazione, piena di fucine di fonditori. Il venerabile abate disse ai confratelli: «Quest’isola mi dà una vera angoscia, fratelli, perché non vorrei mettervi piede e neppure accostarmi ad essa, ma il vento ci sta trascinando dritti dritti là!». L’isola era cinta da una muraglia. Procedendo un poco oltre, alla distanza di un tiro di fionda o quasi udirono il rombo, come di tuono, dei mantici che soffiavano, e il rintronare dei martelli contro il metallo e le incudini.
Nell’udire tutto questo, il venerabile padre si fece il segno della croce verso i quattro punti cardinali, dicendo: «Signore Gesù Cristo, liberaci da quest’isola!». Quando l’uomo di Dio finì di parlare, ecco uscir fuori uno degli abitanti dell’isola, come per sbrigare qualche lavoro. Era tutto irsuto, scuro e infuocato. Alla vista dei servi di Cristo che transitavano nei pressi dell’isola, rentrò nella sua fucina. Di nuovo l’uomo di Dio si segnò e disse ai confratelli: «Figlioli, tirate le vele più in alto, e insieme remate più svelto che potete! Fuggiamo da quest’isola!».
Prima che avesse finito di parlare, ecco accorrere sulla spiaggia, proprio di fronte a loro, lo stesso selvaggio, reggendo in mano tenaglie con una massa di scorie incandescenti di immensa mole e immenso calore. E subito scagliò quella massa contro i servi di Cristo; ma non fece loro alcun male, perché essa li oltrepassò di quasi uno stadio. Il punto dove quella cadde in mare cominciò a ribollire, come se lì fosse crollato un vulcano; e dal mare si alzava il fumo come il fuoco da una fornace.
Poi, quando l’uomo di Dio si era allontanato di quasi un miglio dal punto dove quella massa era caduta, tutti coloro che dimoravano sull’isola accorsero sulla spiaggia, portando una massa per ciascuno. Alcuni le scagliavano in mare dietro i servi di Cristo, altri se le scagliavano addosso tra loro, rientrando poi nelle loro fucine e dandole alle fiamme; e d’un tratto l’intera isola apparve come un’unica palla incandescente, e il mare ribolliva come un paiolo pieno di carni che bolle quando è ben provvisto di fuoco. E per l’intera giornata udirono dall’isola un immenso ululato; anche quando non poterono più vederla, ancora giungeva loro all’orecchio l’ululato dei suoi abitanti e alle narici un violento fetore. Frattanto il santo padre così rincuorava i suoi monaci: «Soldati di Cristo, rafforzatevi nella vera fede e nelle armi dello spirito, perché ci troviamo sul limitare dell’inferno. State ben desti e comportatevi da coraggiosi!» [2].
Il motivo del fabbro come creatura infernale ha una lunga tradizione, che affonda le radici nella maledizione contro la stirpe di Caino (il riferimento è ovviamente al suo discendente Tubalcain) e nell’identificazione dell’inferno con il vulcano, luogo di lavoro dei Ciclopi (Georgiche, Eneide). Altro aspetto da non sottovalutare è la propensione ad attribuire poteri diabolici agli esseri dalla pelle scura.
L’immagine del fabbro «irsuto, scuro e infuocato» (attributi tipici delle creature infernali) che lancia la massa di scorie contro i monaci, ricorre nell’Immram Màele Dùin, e riporta inevitabilmente alla memoria il lancio delle rocce di Polifemo nell’Odissea.
«Il punto dove quella cadde in mare cominciò a ribollire, come se lì fosse crollato un vulcano; e dal mare si alzava il fumo come il fuoco da una fornace»: il passo ricorda l’eruzione di un vulcano sottomarino. In tal senso occorre aprire una piccola parentesi sulla veridicità della Navigazione. In molti hanno considerato l’opera il resoconto di un viaggio reale, suggestionati dalle numerose osservazioni realistiche presenti nella Navigazione: la straordinaria somiglianza delle isole delle pecore e degli uccelli con le Fær Øer, la presenza di fenomeni vulcanici riconducibili all’Islanda, l’identificazione del mostro marino con la balena. Ma si tratta solo di esperienze assorbite dall’immaginario collettivo e conseguentemente trasposte in una creazione in tutto e per tutto letteraria. Del resto, come dichiarato all’inizio dell’opera, la Terra promessa è poco distante dalla costa irlandese, un’ora appena dall’Insula Deliciosa di Mernoc, vicina alla costa del Donegal, eppure Brandano e i suoi impiegano sette anni per raggiungerla.
Dopo il primo fabbro, tutti gli altri diabolici abitanti dell’isola si riversano in spiaggia tentando di aggredire l’equipaggio dell’abate, scagliando masse incandescenti, ed è anche questa una scena che ricorda un testo classico, l’Eneide virgiliana, quando i Ciclopi tentano di avventarsi contro i naviganti.
NOTE
[1] Gli immrama pongono al centro della narrazione le avventure per mare, e la meta ha un’importanza relativa. Al contrario gli echtrai sono incentrati sulla visita nell’Aldilà.
[2] Navigatio sancti Brendani. Alla scoperta dei segreti meravigliosi del mondo, edizione critica a cura di Giovanni Orlandi e Rossana E. Guglielmetti, introduzione di Rossana E. Guglielmetti, traduzione italiana e commento di Giovanni Orlandi, Edizioni del Galluzzo per la fondazione Ezio Franceschini, Firenze 2014, pp. 85-87. L’edizione è anche la fonte delle informazioni presenti nell’articolo.
In copertina: statua di san Brandano a Fenit Harbour.