Nei Demoni (1873) di Dostoevskij tutto è devastazione, tutto è morte. Nel capolavoro dell’immenso scrittore russo c’è un anelito alla distruzione che si propaga dalla prima all’ultima pagina, acquistando parola dopo parola vigore, ingrossandosi sempre di più come una violenta tempesta. Un anelito velenoso e spettrale, che affascina e al tempo stesso inquieta, angoscia e spaventa il lettore immerso nella vicenda, egli stesso cittadino della caratteristica e singolare provincia russa.
Le manifestazioni più chiare ed evidenti di quanto appena detto, sono senza dubbio le molte morti disseminate lungo l’opera. Morti che hanno la stessa consistenza di enormi massi, il cui peso tiene il libro radicato nel fondo tenebroso e imperscrutabile del male, impedendogli qualunque risalita verso l’alto, verso la luce, verso l’aria pura, verso il bene.
Analizziamo alcuni di questi decessi, partendo da quello che reputo più orribile, e di cui Dostoevskij parla nel controverso capitolo Da Tichon, anche noto come La confessione di Stavrògin, mai inserito nel romanzo per la ferma opposizione dell’editore. Nonostante l’esclusione, Da Tichon è tra i capitoli più importanti dell’opera di Dostoevskij. In esso si narra di una visita di Stavrògin al vescovo Tichon, ritirato in un monastero. Il protagonista consegna al sacerdote una confessione scritta, nella quale descrive la sua azione più abbietta, tra la molte disgustose che ha commesso, la più atroce, depravata, disumana. Stavrògin confessa di aver approfittato di una bambina, la povera Matrëša.
«Matrëša sedeva nella sua cameretta, su una panca, volgendomi le spalle, intenta a lavorare con l’ago. Infine, d’un tratto, si mise a cantare, piano, pianissimo; a volte le succedeva. Tirai fuori l’orologio: erano le due. Il cuore prese a battermi violentemente. D’un tratto mi chiesi un’altra volta se potevo fermarmi; subito risposi a me stesso di sì: potevo fermarmi. Mi alzai e cominciai ad avvicinarmi a lei. Sulle loro finestre c’erano molti gerani e il sole splendeva lucente. Mi sedetti pian piano vicino a lei sul pavimento. La bambina sussultò e da principio si spaventò terribilmente e fece un salto. Le presi una mano, gliela baciai, in silenzio, facendola di nuovo sedere sulla panca e cominciai a guardarla negli occhi. Il fatto che le avessi baciato la mano improvvisamente la fece ridere come un fanciullo, ma soltanto per un secondo, perché di nuovo balzò in piedi fremente, ormai in preda a un tale spavento che il suo viso si contrasse spasmodicamente. Mi guardava terrorizzata con gli occhi immobili, le labbra cominciarono a tremare, pronta a scoppiare in lacrime, ma non si mise a gridare. Di nuovo mi misi a baciarle le mani, l’attirai sulle mie ginocchia, le baciai il viso e le gambe. Quando le baciai le gambe Matrëša si rattrappì e sorrise come per vergogna, ma con uno strano sorriso obliquo. Tutto il suo viso avvampò di vergogna. Continuavo a sussurrarle qualcosa. Allora successe all’improvviso un fatto molto strano, che non dimenticherò mai e che mi stupì: la bambina si aggrappò con le sue mani al mio collo e di colpo cominciò a baciarmi furiosamente. Il suo volto esprimeva un’estasi perfetta. Feci per alzare e andarmene, preso da pietà – tanto la cosa mi era sgradevole in quella bambinetta. Ma superai il mio improvviso sentimento d’orrore e rimasi».
L’avventura produce nella povera bambina un terribile e feroce senso di colpevolezza, come se avesse commesso un delitto spaventoso, come se avesse «ucciso Dio». Matrëša è tanto sconvolta, tanto disperata da compiere l’estremo gesto. La bambina si suicida, impiccandosi. Il capitolo Da Tichon rappresenta il punto più profondo, e di conseguenza più oscuro, dei Demoni. In esso Stavrògin si denuda, confessa ogni cosa, descrivendo con estrema accuratezza l’istante in cui la sua sconfinata e nichilistica depravazione ha raggiunto il punto massimo.
Stavrògin è sposato, con una povera donna zoppa e demente, Mar’ja Timofèevna, sorella di un ex-capitano alcolizzato e violento, Ignat Lebjadkin. L’incredibile matrimonio non è altro che l’ennesimo frutto della degenerazione del protagonista, le cui insensate azioni si spingono ben al di là del bene e del male. Ebbene, i due Lebjadkin, più la loro domestica, vengono trucidati da Fëd’ka, un criminale assassino evaso. Ignat sgozzato come un animale, Mar’ja Timofèevna accoltellata. Tra la gente si diffonde immediatamente l’idea che il responsabile degli omicidi sia Stavrògin, che ha ingaggiato Fëd’ka per eliminare la moglie e poter così sposare Elizaveta Nikolàevna, perdutamente innamorata di lui. Questa volta Stavrògin non ha responsabilità, o meglio, non ha responsabilità dirette. Egli, pur consapevole del fatto che il criminale evaso avrebbe prima o poi compiuto l’efferato assassinio, non fa nulla per impedirlo, rendendosi di fatto complice. Elizaveta, straordinariamente colpita dalla morte della legittima consorte di Stavrògin, in balia dei suoi fragili nervi oramai logori, si reca sul luogo del delitto. La folla presente, furiosa per l’insolenza della donna ritenuta responsabile degli omicidi, la uccide linciandola sul posto.
Al centro del romanzo di Dostoevskij sta l’assassinio dello studente Šatov, ispirato a un fatto della cronaca del tempo e vero motore dell’intera vicenda. Il gruppo terroristico guidato da Pëtr Stepànovič Verchovenskij, questo spietato saltimbanco del male dai tratti mefistofelici, temendo la denuncia dello studente, un tempo fedele alla causa rivoluzionaria, lo uccide.
«In quello stesso momento sbucò da un albero Tolkačenko piombandogli sopra alle spalle, mentre anche Erkel’, da dietro, l’agguantava, per i gomiti. Liputin gli si avventò contro, attaccandolo di fronte. Tutti e tre insieme lo abbatterono subito, schiacciandolo a terra. Balzò fuori Pëtr Stepànovič con la rivoltella. Si racconta che Šatov fece in tempo a voltare il viso verso di lui, riuscì a distinguerlo e a riconoscerlo. Tre lanterne illuminavano la scena. Šatov improvvisamente lanciò un grido, breve, disperato; ma non lo lasciarono gridare: Pëtr Stepànovič con gran cura, senza batter ciglio, appoggiò la canna della rivoltella sulla fronte di Šatov e fece scattare il grilletto, a bruciapelo».
Qualche ora prima di perdere la vita, Šatov aveva riabbracciato la moglie e accolto un figlio, partorito proprio in casa sua. In realtà il bambino, neanche a dirlo, è di Stavrògin, con il quale la donna ha avuto una relazione all’estero, ma a Šatov, oramai sulla via della redenzione, ciò non interessa. Di questo si parla nel capitolo La viaggiatrice. Se il capitolo Da Tichon rappresenta il punto più basso, profondo e tenebroso dei Demoni, il capitolo La viaggiatrice ne è il punto più alto, puro, luminoso. Le tenerezze tra Šatov e la moglie finalmente ritrovata, dopo la nascita di una nuova vita, il progetto di una nuova esistenza in tre, i secondi di estatica armonia dei quali parla Kirillov, e il riemergere dell’amicizia tra quest’ultimo e Šatov. Ma l’idillio ha presto fine, non c’è spazio per la speranza, è il destino di questo romanzo maledetto, nero. Šatov viene ucciso, e perdono anche la vita sua moglie e il bambino.
Abbiamo accennato a Kirillov, il perfetto nichilista, l’Uomo-Dio che si suicida sparandosi, mettendo così in pratica il suo ideale filosofico.
Gli ultimi due capitoli del romanzo sono dedicati a due fondamentali morti: la morte di Stepàn Trofimovič Verchovenskij, padre di Pëtr Stepànovič, occidentalista ideale responsabile della deriva nichilistica di parte della società russa, e, soprattutto, la morte di Stavrògin. Una morte volontaria e inevitabile, che nel protagonista non ha nulla di straordinario, in quanto per lui, in un perenne grigiore in cui ogni valore ha perso il proprio significato, il suicidio non è che un gesto come un altro. Tormentato dalla povera Matrëša, che gli appare quotidianamente redarguendolo, minacciandolo con il suo piccolo pugno chiuso, Stavrògin si impicca, proprio come la bambina.
«Salirono al mezzanino. C’erano tre stanze; ma non lo trovarono in nessuna delle tre.
“Che sia andato lassù, signora?”, qualcuno indicò la porta del solaio. Effettivamente, la porticina del solaio, che era sempre stata chiusa, era aperta, spalancata. Si doveva salire quasi resente il tetto, lungo una scala di legno, lunga, strettissima, terribilmente ripida. C’era un’altra cameretta lassù.
“Io non ci vado. Per quale motivo avrebbe dovuto arrampicarsi fin là?”, Varvàra Petròvna era pallida come un cencio, e guardava i servi smarrita. I servi guardavano lei e tacevano. Daša tremava.
Varvàra Petròvna si lanciò su per la scaletta; Daša la seguì; ma appena entrata nel solaio, lanciò un urlo e cadde priva di sensi.
Il cittadino del cantone di Uri penzolava dietro la porticina. Sul tavolino giaceva un pezzetto di carta con queste parole scritte a matita: “Nessuno ne ha colpa, soltanto io”. Lì vicino, sul tavolino, c’era anche un martelletto, un pezzo di sapone e un grosso chiodo, che servivano evidentemente di riserva. Il forte spago di seta, che Nikolàj Vsèvolodovič aveva usato per impiccarsi, chiaramente scelto e preparato prima, era stato abbondantemente insaponato. ogni particolare dimostrava una perfetta predeterminazione, un’assoluta lucidità fino all’ultimo minuto.
I nostri medici dopo l’autopsia esclusero assolutamente, con insistenza, l’ipotesi della follia».
Nei Demoni di Dostoevskij tutto è devastazione, tutto è morte. E i decessi presentati ne sono le più evidenti dimostrazioni. Non c’è luce, eccetto un debole e fugace bagliore. Non c’è speranza. Non c’è avvenire.
I passi sono tratti da Fëdor Dostoevskij, I demoni, trad. it. di Giovanni Buttafava, Rizzoli, Milano 1981.
In copertina: Vasilij Grigor’evič Perov, L’annegata, 1867.