Il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) è tra i contributi più noti e importanti di quell’enorme cranio dalla triste storia che fu Walter Benjamin.
In poche parole, il critico tedesco sottolinea la portata innovativa delle nuove tecniche artistiche quali la fotografia e il cinema. Le forme d’arte, diciamo così, classiche, come la pittura e la scultura, si caratterizzano per l’assoluta singolarità dell’opera, mentre al contrario nella fotografia e nel cinema essa può essere rappresentata più e più volte, di fatto illimitatamente.
L’opera pittorica e scultorea, unica ed esclusiva, è dotata di un’aura sacra, che la attornia e la pone a una certa distanza. Tra l’oggetto artistico e il fruitore esiste un distacco, e nei confronti dell’opera si assume un atteggiamento paragonabile a quello assunto nel culto. Al contrario, la «riproducibilità tecnica» delle arti moderne consente al fruitore una più ampia e disinibita, disinvolta esperienza.
Lo studio del saggio benjaminiano mi ha ispirato una riflessione sull’attuale stato delle arti classiche, come ho definito sopra la pittura e la scultura. Secondo Benjamin tali forme possiedono l’aura. Ebbene, personalmente credo che oggi questa aura sia andata distrutta. L’opera d’arte non è più esclusiva, al contrario, è a disposizione di tutti: mi riferisco ovviamente a internet. L’arte non è mai stata democratica come nella nostra epoca. Basta un semplice click per entrare nella Cappella degli Scrovegni o nella Cappella Sistina, per ammirare la Madonna del Belvedere di Raffaello o il Ratto di Proserpina di Bernini, tanto per citare alcuni illustrissimi esempi.


Non solo. Dallo schermo ci è concesso di osservare le opere fin nel dettaglio, come in molti casi non può accadere dal vivo – mentre si è fisicamente al centro della Cappella Sistina con il naso rivolto all’insù, quelle due dita che si sfiorano (le due dita più celebri della storia dell’umanità) ci appaiono lontane, mentre grazie a internet possiamo osservarne e apprezzarne ogni singolo particolare (certo, di persona è tutta un’altra cosa, siamo tutti d’accordo su questo, ci si sente ebbri, e a scrivere è uno che prima di uscire dalla Cappella Sistina avrebbe voluto segnarsi, pur essendo un ateo convinto).


Mi chiedo a cosa porti un simile stato delle cose. È senz’altro giusto che l’arte sia a disposizione di tutti e facilmente raggiungibile da tutti – per come la vedo io è uno dei pochi aspetti positivi del progresso tecnologico -, ma questa popolare accessibilità accresce e affina la coscienza estetica del fruitore – utilizzo il termine “estetica” nel senso etimologico del termine, dunque essenzialmente come percezione sensitiva – oppure la incancrenisce?
Rispondere a una domanda simile non è affatto semplice, forse non è addirittura possibile (magari lo sarà in avvenire), eppure ho il sospetto che una certa percentuale di rischio in tutto ciò esista.
Nel saggio citato in apertura dell’articolo, Benjamin definisce il pubblico del cinema «un esaminatore, ma un esaminatore distratto». Non è da escludere che la medesima definizione possa essere rielaborata e attribuita al contemporaneo fruitore d’arte: ammiratore, ma un ammiratore distratto. Del resto, in entrambi i casi è uno schermo a veicolare l’opera.