Il pregio più grande di romanzi come Fuga senza fine (1927) di Joseph Roth (1894-1939) è l’incisività. Ogni singola parola è essenziale, dunque efficace. Non ci si perde mai in sterili e inutili divagazioni, elucubrazioni, tutto è conciso, diretto, pungente. Ogni città attraversata da Tunda, ogni persona da lui incontrata, sono colte nella loro essenza con pochissime, ma penetranti pennellate.
Fuga senza fine è la storia di una fuga appunto, certo, ma non solo. Fuga senza fine è anche la storia di una ricerca e, soprattutto, la storia di una metamorfosi, di una lunga metamorfosi del protagonista, Franz Tunda, che parte dalla Siberia e arriva a Parigi, passando per Mosca, Baku (ah, quel vento!), Vienna, una città x sul Reno, Berlino.
In apertura del libro conosciamo Tunda come tenente dell’esercito austriaco. Pagina dopo pagina il suo ruolo e il suo nome cambiano, in un progressivo sfaldamento del totemico principio dell’utilità sociale. Tunda diviene prima un prigioniero, poi un fuggiasco, non c’è più Tunda ma Baranowicz, rivoluzionario, scrittore, istitutore e, alla fine, all’ultimo stadio di questa vorticosa mutazione: niente. La funzione di Tunda si esaurisce fino a dissolversi, fino a sparire del tutto. Nelle ultime, memorabili righe del romanzo, il protagonista, trentaduenne, nel cuore della presunta capitale del mondo, Parigi, è «superfluo» come nessun altro al mondo.
Nell’universo tundacentrico ruotano attorno al protagonista, come pianeti attorno al sole, più o meno lontane, diverse figure femminili, che Roth ritrae con una maestria che ha pochi eguali. Questi ritratti fanno di Fuga senza fine una vera e propria galleria contenente finissimi capolavori di ritrattistica letteraria.
In ordine di apparizione. C’è Irene, la fidanzata che Tunda ha lasciato a Vienna e non rivedrà mai più, se non in un fugace e meraviglioso attimo proprio al termine del romanzo, ma senza riconoscerla. C’è Nataša Aleksandrovna, la rivoluzionaria con la quale il protagonista ha una storia:
«Non voleva saperne della sua bellezza, si ribellava contro se stessa, riteneva la sua femminilità una ricaduta nella concezione borghese della vita e l’intero sesso femminile un residuo ingiustificato di un mondo vinto, agonizzante. Era più coraggiosa di tutta la truppa maschile in mezzo alla quale combatteva. Non sapeva che il coraggio era la virtù delle donne e la paura la saviezza degli uomini. Non sapeva neppure che tutti quegli uomini erano suoi buoni commilitoni solo perché tutti l’amavano. Non sapeva che gli uomini erano pudichi e si vergognavano di aprire il loro cuore. Non si era messa con nessuno; non si era accorta dell’amore di nessuno di loro perché era più borghese di quanto non potesse ammettere».
C’è Alja, «quella silenziosa ragazza del Caucaso […], nipote dell’ottuso vasaio», che Tunda addirittura sposa, e con la quale vive a Baku, ma che abbandonerà presto:
«Lei viveva in mezzo alla rivoluzione, tra i disordini storici e privati, come l’inviata di un altro mondo, come rappresentante di una potenza ignota, indifferente e curiosa, incapace forse di amore non meno che di intelligenza, stupidità, bontà, cattiveria, insomma di tutte quelle qualità terrene di cui di solito è costituito un carattere. Era un caso se aveva un volto e un corpo umani! Non tradiva alcuna sorta di emozione, di gioia, d’irritazione, di dolore. Invece di ridere mostrava i denti, due bianche file che si chiudevano saldamente, una prigione splendida per ogni suono della gola. Invece di piangere – lo faceva di rado – faceva scorrere dagli occhi spalancati, su un volto di una serena, quasi sorridente imperturbabilità, qualche grossa lacrima trasparente, che nessuno avrebbe mai creduto sapesse di sale come tutte le comuni lacrime del mondo. Invece di esprimere un desiderio, indicava con gli occhi l’oggetto desiderato, sembrava non potesse bramare nulla che non fosse entro i limiti del suo campo visivo. Invece di rifiutare qualcosa o di difendersene, scuoteva il capo. […] Descrivendo Alja, mi limito soltanto a delle congetture. Neanche Tunda ne sapeva di più, benché le fosse vissuto insieme quasi un anno. […] Alja lo accolse come una stanza silenziosa».
C’è la signora G., nobildonna francese con la quale il protagonista vive un’appassionante notte d’amore. È la donna che gli recide le palpebre. Dopo il rapporto Tunda comprende di non amare più Alja – «La silenziosa curiosità con cui mi accoglie da mesi mi sembra insidiosa. Come un taciturno che sta a spiare chi è un po’ brillo e chi parla troppo, così lei accetta il mio amore…», scrive nel diario -, e che Baku non è più il suo posto: «Le donne che incontriamo stimolano più la nostra fantasia che non il nostro cuore. Amiamo il mondo che rappresentano e il destino che ci additano», sentenzia con la consueta, efficace incisività il narratore.
C’è Klara, la moglie di Georg, il direttore d’orchestra fratello di Tunda, e nel descriverla Roth raggiunge vette letterarie elevatissime, in cui ironia e cinismo sono fusi alla perfezione, tanto che avrò letto e riletto le seguenti pagine decine e decine di volte:
«Dopo la guerra Georg sposò sua cugina.
La sposò per mancanza di fantasia, per comodità, per abitudine, per galanteria, per conciliante gentilezza, per ragioni pratiche: era la ricca figlia di un ricco proprietario terriero. Solo un uomo di scarsa fantasia poteva sposarla, perché era una di quelle donne che si possono chiamare “buoni compagni” e sono in grado più di sostenere un uomo che di amarlo. Si può farne buon uso se si è per caso un alpinista, un ciclista o un acrobata di circo, oppure se si è paralizzati in una sedia a rotelle. Ma cosa ne faccia un normale cittadino è rimasto per me sempre un enigma.
Klara – già questo nome mi sembra rivelatore – era un buon compagno. La sua mano somigliava al suo nome, era così semplice, così sana, così leale, così fidata, così onesta che le mancavano ormai soltanto i calli: era la mano di un maestro di ginnastica. Klara aveva paura, ogni volta che doveva salutare un uomo, che questi potesse baciargliela. Si abituò così a una stretta di mano del tutto particolare, molto decisa, leale, in cui l’intero avambraccio dell’uomo veniva tirato in giù: quella stretta di mano era già un esercizio di ginnastica. Uno ne veniva fuori rinvigorito. In Germania e in Inghilterra, in Svezia, Danimarca, Norvegia, in molti paesi protestanti ci sono donne che stringono la mano agli uomini in questo modo. È una dimostrazione a favore dell’uguaglianza dei sessi e dell’igiene, un episodio importante nella lotta dell’umanità contro i bacilli e la galanteria.
Quelle di Klara erano gambe pratiche, diritte, gambe da escursionista, non certo strumenti dell’amore, ma piuttosto dello sport, del tutto prive di polpacci. Che fossero avvolte in calze di seta, pareva un lusso imperdonabile. Da qualche parte dovranno pur avere le ginocchia – pensavo sempre, da qualche parte dovranno trasformarsi in cosce, è mai possibile che le calze finiscano nelle mutandine, punto e basta?! Ma era così, e Klara non era una creatura dell’amore. Aveva finanche qualcosa di simile a un seno, ma pareva fosse solo una guaina per la sua bontà pratica. Se avesse un cuore, chi può saperlo?».
C’è la proprietaria dell’albergo nel quale Tunda alloggia appena giunto a Parigi:
«Tunda entrò, era buio, un campanello gemette e una giovane donna truccata uscì fuori da dietro una povera tenda a fiorellini. Appariva molto ardita e degna di grande ammirazione poiché chiedeva a Tunda cosa desiderasse con una voce tanto rude, quasi aggressiva, quanto poi subito cordiale. A lui parve molto ardita, sembrava avesse la straordinaria facoltà di passare attraverso i sogni come una creatura in carne ed ossa e di essere, in mezzo ai miracoli, lei stessa un miracolo».
Infine c’è la giovane Pauline, di cui il protagonista è l’istitutore:
«Diciottenne, bruna, con una tipica carnagione balcanica – il signor Cardillac veniva dalla Romania meridionale -, con quella carnagione che fa pensare al colore delle meteoriti e sembra fatta di ferro, di vento e di sole, con le spalle cascanti, magre, misere da far compassione, con fianchi morbidi e dolci, soggetti sicuramente un giorno alla minaccia di un’insidiosa, deformante larghezza […]».
Una delle «inclinazioni fatali» di Tunda è avere compassione delle donne graziose. Così, almeno inizialmente, sopravvaluta la signorina Pauline. Poi la somma al mondo aristocratico al quale appartiene, un mondo così affettato, manierato, artefatto, e di colpo il giudizio muta, inevitabilmente:
«Ben presto in fondo ai suoi occhi svelti, civettuoli, sempre luminosi, egli trovò a una profondità anatomicamente non accertabile e clinicamente indefinibile una parete opaca, contro la quale le immagini del mondo s’infrangevano miseramente.
Trovò nei suoi lineamenti levigati e ben curati quella fredda stupidità che somiglia tanto alla bontà soave, alla grazia gentile, all’inconsapevole gioia di vivere, quella desolante, incantevole, elegante stupidità che s’impietosisce del mendicante al margine della strada e schiaccia con ogni suo passo leggero migliaia di vite».
I passi citati sono tratti da Joseph Roth, Fuga senza fine, trad. it. di Maria Grazia Paci Manucci, Adelphi Edizioni, Milano 1976.
In copertina: Reginald Gray, Interno con Catherine, 1959.