Di pagine oramai ne ho rigurgitate parecchie. Molte mi hanno colpito, alcune addirittura sconvolto. E oggi propongo una selezione proprio di queste ultime. Pagine dinanzi le quali ho provato, al tempo stesso, fascino e spavento, amore e orrore, in una sorta di adattamento letterario del sublime kantiano.
L’ordine in cui le propongo non è casuale, ma segue una scala di intensità dello sconvolgimento, che va da un primo livello piuttosto tenue e morbido ad un ultimo violento e impetuoso, in cui si raggiunge il culmine.
Ogni Lettore, ogni vero Lettore, quello con la maiuscola, che divora libri su libri e non è mai sazio, perché per lui leggere equivale sostanzialmente a sopravvivere, porta dentro di sé la propria storia della letteratura. Ebbene, le seguenti sono le pagine che reputo più sconvolgenti della mia storia della letteratura.
La casa in collina. Corrado dinanzi i repubblichini trucidati
Personalmente reputo La casa in collina il grande capolavoro di Cesare Pavese. Il modo in cui, attraverso Corrado, l’insegnante protagonista, lo scrittore piemontese denuda se stesso e l’intera categoria alla quale appartiene, quella degli intellettuali, sottolineandone l’atavica impotenza, è straordinario. Senza alcun timore Pavese mette in scena il proprio egoismo, la propria viltà, in un romanzo che è un’indagine approfondita di se stessi e di quel determinato periodo storico. Questo è un libro che all’epoca deve aver fatto arrossire molti, e che oggi, tra le altre cose, è utilissimo per riflettere su cosa possa realmente fare l’intellettuale all’interno della propria società: niente. «Non chiedevo la pace del mondo, chiedevo la mia», scrive Corrado, ed è questa la frase che forse racchiude meglio di ogni altra la sincera e scomoda essenza dell’opera.
Pavese raggiunge il massimo dell’intensità, sconvolge davvero il lettore verso la fine della Casa in collina. Corrado decide di tornare nella propria terra d’origine, dove vivono i genitori, e durante il rischioso viaggio, si imbatte in una sanguinosa imboscata tesa da una banda di partigiani ad un convoglio di repubblichini.
«Stemmo così molto tempo. Da un pezzo ormai s’era sentito il motore riattaccare, e un contrasto di voci tra gli alberi. Poi il rombo si era allontanato.
Spuntò una donna alla svolta. Scendeva correndo. La attesi in mezzo alla strada e le chiesi che cos’era successo. Mi guardava atterrita. Aveva sul capo lo scialle. Anche il vecchio dei buoi sporse la faccia dalle canne. La vecchia gridò qualcosa, si strinse le mani alle orecchie; io le chiesi: – C’è gente lassù? – Lei annuì, senza parlare, col mento.
Sbucò alla svolta un giovanotto in bicicletta. Veniva giù a rotta di collo. – Si può passare? – gli gridai. Lui buttò a terra un piede scalzo, stette su per miracolo, mi gridò di rimando: – Ci sono morti, tanti morti.
Quando giunsi cautamente alla svolta, vidi il grosso autocarro. Lo vidi fermo, vuoto, per traverso. Una colata di benzina anneriva la strada, ma non era soltanto benzina. Lungo le ruote, davanti alla macchina, erano stesi corpi umani, e via via che mi avvicinavo la benzina arrossava. Qualcuno in piedi, donne e un prete, s’aggirava là intorno. Vidi sangue sui corpi.
Uno – divisa grigioverde tigrata – era piombato sulla faccia, ma i piedi li aveva ancora sul camion. Gli usciva il sangue col cervello da sotto la guancia. Un altro, piccolo, le mani sul ventre, guardava in su, giallo, imbrattato. Poi altri contorti, accasciati, bocconi, d’un livido sporco. Quelli distesi erano corti, un fagotto di cenci. Uno ce n’era in disparte sull’erba, ch’era saltato dalla strada per difendersi sparando: irrigidito ginocchioni contro il fildiferro, pareva vivo, colava sangue dalla bocca e dagli occhi, ragazzo di cera coronato di spine.
[…]
Il prete era corso in casa: un ferito moriva. Io rimasi tra i morti, senza osare scavalcarli» [1].
L’immagine di quel giovane trucidato coronato di spine come Cristo, è tra le più belle che abbia mai letto. Un’immagine di rara efficacia, pregna di ferocia e poesia, che rimane impressa e non andrà più via, per quanto si possa scuotere il capo.
Padre Sergij. Il monaco si mozza il dito
Il racconto lungo Padre Sergij appartiene a quella serie di opere scritte da Tolstoj successivamente al 1881, anno della conversione, momento che rappresenta un vero e proprio spartiacque all’interno della vicenda esistenziale e letteraria di colui che riconosco come l’unico vero zar russo. Insieme a libri come Sonata a Kreutzer, La morte di Ivan Il’ič e Resurrezione, tanto per citare i titoli più celebri, Padre Sergij compone il “nucleo terrestre” dell’attività narrativa di Tolstoj, al cui cospetto Guerra e pace ed Anna Karenina sono poco, pochissimo.
Durante il sesto anno di reclusione l’ex principe Kasatskij riceve di notte la visita dell’avvenente Màkovkina. La donna si insinua nella sua cella e, forte della propria bellezza, provoca padre Sergij, tenta di sedurlo. Il monaco vacilla, sente il demonio spingerlo tra le braccia dell’affascinante malintenzionata, ma ecco che decide di polverizzare il peccaminoso desiderio afferrando la scure e mozzandosi un dito. Chapeau.
«[…] aveva udito ogni cosa. L’aveva udita, quando aveva fatto frusciare la stoffa di seta, mentre si toglieva il vestito, e anche quando aveva camminato a piedi nudi sul pavimento; aveva udito come si era massaggiata le gambe con la mano. Aveva sentito di essere debole, e d’essere ad ogni istante sul punto da cadere, e perciò aveva pregato incessantemente. Provava qualcosa di simile a ciò che deve provare quell’eroe delle fiabe quando deve camminare senza guardarsi intorno. Così anche Sergij sentiva, percepiva che il pericolo, la rovina era lì, sopra di lui, intorno a loui, e che avrebbe potuto salvarsi soltanto se non avesse guardato verso di essa neppure per un attimo. Ma tutt’a un tratto il desiderio di guardare lo prese. E in quello stesso istante lei disse:
“Sentite. È inumano. Potrei morire”.
“Sì, ci andrò, ma così come fece quel padre che mise una mano sulla peccatrice e l’altra mano su un braciere. Ma qua il braciere non c’è.” Si guardò attorno. La lampada. Mise il dito sulla fiamma e corrugò le sopracciglia, preparandosi a sopportare, e per un tempo abbastanza lungo gli parve di non sentire nulla, ma improvvisamente – non aveva ancora capito se e quanto gli facesse male, ma fece una smorfia con tutto il viso e ritrasse la mano, scuotendola. “No, questo non riesco a farlo.”
“Per l’amor di Dio! Oh, venite da me! Io muio, oh!”
“E dunque, cadrò? Ma no, no.”
“Adesso vengo da voi,” proferì, e aperta la porta, senza guardare verso di lei, passandole accanto andò nel vestibolo, dove di solito spaccava la legna, trovò a tastoni il ceppo su cui spaccava la legna, e la scure, appoggiata alla parete.
“Adesso,” disse, e presa la scure nella mano destra, mise l’indice della mano sinistra sul ceppo, sollevò la scure e lo colpì sotto la seconda falange. Il dito saltò via più facilmente di quanto non avvenisse con legni di quello stesso spessore, si rigirò in aria e cadde, con un suono molle, prima sull’orlo del ceppo e poi a terra.
Udì quel suono, prima di sentire il dolore. Ma non fece in tempo a stupirsi di non sentire dolore, che avvertì un dolore bruciante e il sangue che fluiva caldo. Strinse in fretta la falange mozza con l’orlo della tonaca e, premendola contro il fianco, rientrò dalla porta e, fermandosi dinanzi alla donna, e abbassando gli occhi, disse piano:
“Cosa volete?”
Lei guardò il suo volto impallidito, con la guancia sinistra che tremava, e tutto a un tratto ebbe vergogna. Balzò su, afferrò la pelliccia e gettatasela indosso vi si avvolse tutta.
“Sì, stavo male… ho preso freddo… io… Padre Sergij… io…”
Lui alzò verso di lei gli occhi, che risplendevano d’una soave luce gioiosa, e disse:
“Cara sorella, perché volevi perdere la tua anima immortale? Le tentazioni devono venire nel mondo, ma guai a colui attraverso il quale entra la tentazione… Prega che Dio ci perdoni.”
Lei lo ascoltava e lo guardava. Guardò e vide il sangue che scorreva lungo la tonaca.
“Che avete fatto alla mano?” Lei ricordò il rumore che aveva udito e, afferrata la lampada, corse fuori nel vestibolo e vide sul pavimento il dito insanguinato. Più pallida di lui tornò nella stanza e avrebbe voluto dirgli qualcosa; ma lui entrò in silenzio nel ripostiglio e chiuse a chiave la porta dietro di sé.
“Perdonatemi,” disse lei. “Come posso riscattare il mio peccato?”
“Vattene.”
“Lasciate che fasci la vostra ferita.”
“Vattene di qua.”
Lei si rivestì, in fretta e in silenzio. E pronta, con la pelliccia indosso, sedeva, in attesa, Fuori si udirono i sonagli.
“Padre Sergij. Perdonatemi.”
“Vattene. Dio perdonerà.”
“Padre Sergij. Io cambierò la mia vita. Non abbandonatemi.”
“Vattene.”
“Perdonatemi e datemi la vostra benedizione”.
“In nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,” si udì da dietro il tramezzo. “Vattene.”
Lei scoppiò a piangere e uscì dalla cella» [2].
Il corpo. Innanzitutto il corpo. Un atroce dolore fisico auto-procurato per superare la tentazione, per schiacciarla come un verme. Perché la sola fede non basta. Mai.
La metamorfosi. L’incredibile risveglio di Gregor Samsa
È l’assoluta normalità nella più abominevole delle a-normalità a sconvolgere nella Metamorfosi di Kafka. Un giorno come un altro Gregor Samsa si sveglia e non ha più le sembianze di un uomo, ma di un gigantesco insetto. E di ciò non è affatto stupito. Come se una tale mutazione rientrasse nell’ordine naturale delle cose. È il trionfo dell’assurdo. Il modo in cui Kafka, in uno degli incipit più esplosivi dell’intera storia della letteratura, pone la questione dell’incredibile metamorfosi di Samsa, è tale da farci temere che da un giorno all’altro anche a noi possa accadere la stessa cosa. Da tutto questo siamo inorriditi, spaventati e al tempo stesso estasiati. Non possiamo far altro che ingozzarci delle indimenticabili pagine kafkiane e provare pena per il povero Gregor, che in fondo, ma neanche troppo in fondo, è ognuno di noi. Nessuno escluso.
«Quando Gregor Samsa si risvegliò una mattina da sogni tormentosi si ritrovò nel suo letto trasformato in un insetto gigantesco. Giaceva sulla schiena dura come una corazza e sollevando un poco il capo poteva vedere la sua pancia convessa, color marrone, suddivisa in grosse scaglie ricurve; sulla cima la coperta, pronta a scivolar via, si reggeva appena. Le sue numerose zampe, pietosamente esili se paragonate alle sue dimensioni, gli tremolavano disperate davanti agli occhi.
“Che cosa mi è successo?”, pensò. Non era un sogno. La sua stanza, una vera stanza – sia pure piccola – per esseri umani, era tranquillamente racchiusa tra le quattro pareti così familiari. Sopra al tavolo, sul quale era sparso un campionario di stoffe – Samsa era un commesso viaggiatore – era appesa la figura che aveva recentemente ritagliato da un giornale illustrato e sistemato in una bella cornice dorata. Rappresentava una signora seduta tutta impettita con un cappellino e un boa di pelliccia, che ostentava a chi la guardasse un ampio manicotto nel quale scomparivano i suoi avambracci.
Lo sguardo di Gregor si rivolse poi alla finestra e il cattivo tempo – si udiva la pioggia picchiettare sulle pareti metalliche della finestra – lo rattristò completamente. “Che accadrebbe se continuassi a dormire un altro po’ dimenticando queste sciocchezze?”, pensò, ma non era proprio fattibile perché era abituato a dormire sul fianco destro e nelle condizioni in cui si trovava non poteva assumere quella posizione. Per quanto si sforzasse di buttarsi verso destra ripiombava nella posizione supina. Ci provò un centinaio di volte, chiuse gli occhi per non vedere le zampe annaspanti, e rinunciò solo quando cominciò a sentire sul fianco un dolorino sordo, ma provato prima d’allora.
“Oh Dio”, pensò “che mestiere faticoso mi sono scelto! Sempre in giro, un giorno dopo l’altro. L’affanno per gli affari è molto maggiore che nell’azienda, inoltre devo sopportare anche questa piaga del viaggiatore, i crucci per le coincidenze, i pasti irregolari e cattivi, rapporti umani sempre mutevoli, mai costanti, mai cordiali. Che vada tutto al diavolo!”. Provò un leggero prurito sulla pancia; si trascinò lentamente sul dorso verso la testata del letto per poter sollevare meglio il capo; localizzò la parte che gli prudeva e che era cosparsa di puntini bianchi, di cui non riusciva a spiegarsi la causa; volle toccare la parte con una zampa, ma la ritirò subito perché il contatto lo fece rabbrividire.
Scivolò nuovamente nella posizione di prima. “Queste continue lavatacce”, pensò, “finiscono per rincitrullire. Ogni essere umano ha bisogno delle sue giuste ore di sonno. Gli altri viaggiatori di commercio fanno una vita da pascià. Quando torno alla locanda nel corso della mattinata per trascrivere le ordinazioni ricevute, quei signori stanno appena consumando la prima colazione. Se facessi una cosa simile col principale che mi ritrovo, verrei cacciato su due piedi. Chi sa, però, se non sarebbe meglio per me. Se non cercassi di dominarmi per far piacere ai miei genitori avrei dato le dimissioni da lungo tempo, sarei andato dal principale e gli avrei detto chiaro e tondo come la penso. L’avrei fatto cadere dalla sua cattedra! È anche una strana abitudine quella di mettersi in cattedra e di parlare dall’alto con i dipendenti, che oltre tutto devono venire assai vicino a causa della sordità del principale. Comunque non tutte le speranze sono perdute; quando avrò raggranellato abbastanza soldi per pagare il debito che i miei genitori hanno verso di lui – e non ci dovrei mettere più di cinque o sei anni – mi licenzierò senz’altro. Sarà un taglio netto. Intanto, però, devo alzarmi, il mio treno parte alle cinque”.
E guardò la sveglia che ticchettava sul cassettone. “Santo cielo!”, esclamò tra sé. Erano le sei e mezza e le lancette proseguivano tranquillamente il loro cammino, anzi era ancora più tardi, mancava poco ai tre quarti. Forse la sveglia non aveva suonato? Si vedeva benissimo anche dal letto che era stata fissata alle quattro; aveva suonato sicuramente. Sì, ma era mai possibile continuare a dormire pacificamente con quel frastuono che scuoteva i mobili? In verità, non aveva dormito proprio pacificamente, però forse per questo il sonno era stato più pesante. Che cosa doveva fare ora? Il prossimo treno partiva alle sette; per prenderlo avrebbe dovuto sbrigarsi come un matto, il campionario non era ancora sistemato e lui stesso non si sentiva particolarmente sveglio e attivo. E anche se avesse preso quel treno una sfuriata del principale sarebbe stata inevitabile, perché l’usciere della ditta aveva atteso al treno delle cinque e aveva già riferito la sua mancanza. Era una creatura del padrone, senza spina dorsale né comprendonio. E se si fosse dato per malato? Ma ciò sarebbe assai penoso e sospetto, perché durante i suoi cinque anni di servizio Gregor non era mai stato malato. Sicuramente il principale sarebbe venuto con il medico della cassa malattia, avrebbe rimproverato i genitori per la pigrizia del loro figlio e avrebbe troncato qualsiasi obiezione rimettendosi al parere del medico della cassa malattia, per il quale esistono soltanto persone sanissime o pelandroni. E gli si poteva poi dare torto nel suo caso? Gregor, a parte il sopore eccessivo dovuto al lungo sonno, si sentiva veramente bene e aveva persino una gran fame.
Mentre questi pensieri gli turbinavano per la mente, e senza che si decidesse a lasciare il letto – proprio in quel momento la sveglia faceva le sei e tre quarti – venne bussato lievemente alla porta che si trovava vicino alla testata del letto. “Gregor”, mormorò una voce – era la mamma – “sono le sette meno un quarto. Non dovevi partire?” La dolce voce! Gregor sussultò udendo la propria voce mentre rispondeva, che era indubbiamente ancora quella di prima, in cui si mescolava però, dal basso, un insopprimibile frinire fastidioso, che solo in un primissimo momento lasciava alle sue parole un suono integro, ma poi lo deformava al punto da far credere di aver udito male. Gregor avrebbe voluto rispondere fornendo tutti i particolari, ma in simili condizioni si limitò a dire: “Sì, sì, grazie mamma, mi sto alzando”. La porta chiusa impediva che fuori si notasse il cambiamento nella voce di Gregor, perciò la mamma rassicurata se ne andò strascicando i piedi. Ma il breve dialogo aveva rivelato agli altri membri della famiglia che, contro ogni aspettativa, Gregor si trovava ancora in casa, e il padre si era già messo a bussare alla porta, debolmente ma col pugno. “Gregor, Gregor”, gridò, “che cosa c’è?” E dopo un breve intervallo tonò con voce più profonda: “Gregor! Gregor!” Dietro l’altra porta la sorella bisbigliava: “Gregor? Non ti senti bene? Hai bisogno di qualcosa?” Gregor rispose in entrambe le direzioni: “Sono già pronto”, e si sforzò di eliminare ogni suono strano dalla sua voce scandendo le parole con molta cura e separandole con lunghe pause. Infatti il padre tornò alla sua colazione, ma la sorella mormorò: “Gregor, apri, te ne supplico”. Gregor non pensava proprio di aprire, anzi si compiaceva dell’abitudine presa nel corso dei suoi viaggi di chiudere a chiave la porta durante la notte anche quando si trovava in casa propria» [3].
I demoni. La confessione di Stavrògin
Dei quattro grandi romanzi di Dostoevskij (gli altri sono Delitto e castigo, L’idiota e I fratelli Karamazov) I demoni è senz’altro il più nero. Non un solo barlume di speranza, neppure per sbaglio. Morte. E basta. Di tutta la catena di crimini che costellano la monumentale opera, quello che più colpisce è commesso da Stavrògin, il protagonista bello e maledetto come un angelo ribelle. Incapace di distinguere tra bene e male – per lui non esiste morale -, abusa di una bambina, la piccola Matrëša, che dopo il fattaccio, schiacciata dal senso di colpa, si suicida impiccandosi.
Stavrògin confessa il proprio crimine in quel maledetto capitolo intitolato Da Tichon, che di questo vortice del male che è I demoni, rappresenta il culmine.
«Matrëša sedeva nella sua cameretta, su una panca, volgendomi le spalle, intenta a lavorare con l’ago. Infine, d’un tratto, si mise a cantare, piano, pianissimo; a volte le succedeva. Tirai fuori l’orologio: erano le due. Il cuore prese a battermi violentemente. D’un tratto mi chiesi un’altra volta se potevo fermarmi; subito risposi a me stesso di sì: potevo fermarmi. Mi alzai e cominciai ad avvicinarmi a lei. Sulle loro finestre c’erano molti gerani e il sole splendeva lucente. Mi sedetti pian piano vicino a lei sul pavimento. La bambina sussultò e da principio si spaventò terribilmente e fece un salto. Le presi una mano, gliela baciai, in silenzio, facendola di nuovo sedere sulla panca e cominciai a guardarla negli occhi. Il fatto che le avessi baciato la mano improvvisamente la fece ridere come un fanciullo, ma soltanto per un secondo, perché di nuovo balzò in piedi fremente, ormai in preda a un tale spavento che il suo viso si contrasse spasmodicamente. Mi guardava terrorizzata con gli occhi immobili, le labbra cominciarono a tremare, pronta a scoppiare in lacrime, ma non si mise a gridare. Di nuovo mi misi a baciarle le mani, l’attirai sulle mie ginocchia, le baciai il viso e le gambe. Quando le baciai le gambe Matrëša si rattrappì e sorrise come per vergogna, ma con uno strano sorriso obliquo. Tutto il suo viso avvampò di vergogna. Continuavo a sussurrarle qualcosa. Allora successe all’improvviso un fatto molto strano, che non dimenticherò mai e che mi stupì: la bambina si aggrappò con le sue mani al mio collo e di colpo cominciò a baciarmi furiosamente. Il suo volto esprimeva un’estasi perfetta. Feci per alzare e andarmene, preso da pietà – tanto la cosa mi era sgradevole in quella bambinetta. Ma superai il mio improvviso sentimento d’orrore e rimasi» [4].
Pentesilea. L’Amazzone sbrana Achille
La tragedia Pentesilea rappresenta l’apice di quel «genio sinistrato» che fu Heinrich von Kleist. Nell’opera il drammaturgo tedesco capovolge il mito. Nella consolidata tradizione Achille si innamora di Pentesilea dopo averla ferita a morte, nella tragedia di Kleist invece, la regina delle Amazzoni si innamora del Pelide, e ne è ricambiata, ma, preda di un irrefrenabile impeto passionale, lo uccide. Vista così, una cosetta tutto sommato semplice. Macché. Il carattere sconcertante dell’opera sta nel modo in cui Pentesilea pone fine alla vita di Achille: insieme alle sue cagne, l’Amazzone sbrana il Pelide.
L’AMAZZONE Pentesilea, per terra, unita ai cani inferociti, lei che è stata partorita da un grembo umano, e strazia… e strazia le membra del Pelide!
[…]
MEROE Lo sapete, lei gli è andata incontro, al giovane che amava, lei, per cui d’ora innanzi non ci sarà più nome, nello scompiglio dei giovani sensi, armando il desiderio rovente di possederlo con tutti gli orrori di quelle armi. In mezzo all’urlio dei cani, tra gli elefanti, arrivò, con l’arco nella mano: la guerra che imperversa tra concittadini, questo fantasma che trasuda sangue, quando si aggira a grandi passi, orrenda, brandendo la torcia su città fiorenti, appare meno selvaggia e atroce di lei. Achille, che, come si dice in giro tra i soldati, l’aveva sfidata in campo, il giovane pazzo, soltanto per soccombere volontario nel duello – perché anche lui, oh, come sono potenti gli dèi, anche lui l’amava, estasiato dalla sua giovinezza, e la voleva seguire al tempio di Diana – Achille le si avvicina colmo di dolci presentimenti, e lascia indietro gli amici, alle sue spalle. Ma adesso, ora che lei si avventa, con tutti quegli orrori, contro di lui, che ignaro, solo per finta si era armato di una lancia, indugia, volge l’agile collo, tende l’orecchio, corre sgomento, indugia, corre di nuovo: come un giovane cervo che tra i dirupi sente l’urlo lontano del leone irato. Grida: Ulisse! con voce strozzata, si guarda intorno ansioso e grida: Tidide! E vuol tornare indietro, vuol ritrovare gli amici; e si ferma, una schiera gli sbarra il passo; e alza le mani, e si china, e si nasconde, lo sfortunato, dietro un abete che greve pende coi rami scuri. Intanto è venuta avanti la regina, i cani dietro a lei, dall’alto, come un cacciatore, controllando montagna e foresta; e quando lui, scostando i rami, fa per gettarsi ai suoi piedi: ah! le corna hanno tradito il cervo, grida lei, e tende, con la forza dei dementi, subito l’arco, finché gli estremi si baciano, e lo solleva, e mira e tira, e gli trafigge con la freccia il collo; lui stramazza: un grido di vittoria si alza rauco dalla truppa. Ma ancora è vivo, il più sventurato dei mortali; con la freccia, lunga, che gli fuoriesce dalla nuca, si alza rantolando; e ricade, e si rialza e vuole fuggire; ma: su, grida lei, Tigri, su, Leana, su, Sfinge, Melampo, Dirke, su, Ircaone! e piomba, piomba con tutta la muta, oh, Diana! su di lui, e lo afferra, lo afferra per il cimiero, come una cagna, messa insieme ai cani; uno gli addenta il petto, l’altra la nuca, e lo butta giù, tanto che trema la terra per la caduta! E lui, torcendosi nella porpora del suo sangue, le tocca le guance tenere e grida: Pentesilea! Mia sposa! Cosa fai! È questa la festa delle rose che qui hai promesso? Ma lei – una leonessa l’avrebbe ascoltato, l’affamata selvaggia in cerca di una preda, ruggendo per i campi vacui coperti dalla neve – lei lo colpisce, gli strappa dal corpo l’armatura, affonda i denti nel suo petto bianco, lei e i cani, a gara. A destra Oxo e Sfinge, i denti nel suo petto, a sinistra lei; quando arrivai io, dalle mani e dalla bocca le grondava sangue. [5]
Non ho mai letto nulla di così prepotentemente sconvolgente. E qualunque altra parola sarebbe inutile, uno spreco d’inchiostro e basta. Mi limito ad aggiungere che dopo aver letto la Pentesilea reputo superflua qualunque altra opera teatrale. «E Shakespeare? Shakespeare?», domanda qualcuno gridando subito allo scandalo. Nella Pentesilea c’è tutto, e nella mia storia della letteratura Kleist svetterà per sempre sul Bardo o Cigno dell’Avon, che dir si voglia.
NOTE
[1] Cesare Pavese, La casa in collina, Giulio Einaudi editore, Torino 1990.
[2] Lev Tolstoj, Padre Sergij, trad. it. di Igor Sibaldi, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2015.
[3] Trad. it. di L. Coppé, in F. Kafka, Racconti, introduzione di C. Bo, Newton Compton, Roma 1980.
[4] F. Dostoevskij, I demoni, Rizzoli, Milano, prima edizione i grandi romanzi BUR maggio 2006, trad. it. di Giovanni Buttafava.
[5] H. v. Kleist, Pentesilea, trad. it. di Enrico Filippini, in H. v. Kleist, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Anna Maria Carpi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011.
In copertina: Franz von Stuck, Amazzone ferita, 1903.