La ciociara (1957) di Alberto Moravia rientra in quella florida tradizione letteraria della guerra che prolifera in Italia in seguito alla conclusione del secondo conflitto mondiale e di cui, personalmente, reputo La casa in collina [1] di Cesare Pavese il risultato più alto, in una sola parola, il capolavoro.
La verace Cesira, ciociara trapiantata a Roma dopo un matrimonio di convenienza con un negoziante, e sua figlia, l’eterea Rosetta, fuggono dalla capitale alla vigilia della drammatica occupazione nazista. Loro intenzione è raggiungere il paese natale di Cesira, ma sono costrette a fermarsi prima, e a rifugiarsi nella località di Sant’Eufemia – ospiti di contadini -, dove oltre alle due donne trovano riparo numerosi altri sfollati. Tra questi vi è Filippo, cinico negoziante secondo cui il mondo si divide in furbi e fessi (ed egli, s’intende, appartiene alla prima categoria). Il “fine pensatore” ha un figlio, Michele, giovane laureato antifascista che instaura subito un ottimo rapporto con Cesira e Rosetta. E proprio al personaggio di Michele è legata l’essenza più profonda del romanzo di Moravia.
«Michele, giacché sono sul discorso, era davvero un carattere curioso. Due giorni dopo la scomparsa definitiva di Severino, parlando del più e del meno con lui, si venne a dire che, adesso che era inverno e la notte scendeva presto, non si sapeva veramente più che cosa fare. Michele disse allora che, se volevamo, lui se la sentiva di leggerci qualche cosa ad alta voce. Accettammo contente, benché non avessimo l’abitudine dei libri, come mi sembra di aver fatto capire: ma in quella situazione anche i libri potevano essere una distrazione. Io, anzi, credendo che lui volesse leggerci qualche romanzo ricordo che gli dissi: “Che sarà? Una storia d’amore?” Lui rispose, con un sorriso: “Braca, ci hai azzeccato, proprio una storia d’amore.” Fu, dunque, decise che Michele ci avrebbe letto ad alta voce dopo la cena, che aveva sempre luogo nella capanna, all’ora, appunto, della sera in cui non si sapeva che cosa fare. Ricordo benissimo quella scena perché mi è rimasta impressa nella memoria, non so perché, forse perché Michele in quell’occasione rivelò un aspetto del suo carattere che non conoscevo. Rivedo noi due e la famiglia di Paride, seduti torno torno il fuoco semispento, sui ceppi e sulle panche, quasi al buio, con una piccola lampada a olio appesa dietro Michele affinché ci vedesse per leggere. La capanna era proprio tenebrosa; dal soffitto di frasche secche stavano sospesi pendagli neri di fuliggine che ad ogni soffio oscillavano, leggeri; in fondo alla capanna, quasi sommersa nell’oscurità, sedeva la madre di Paride, che sembrava la strega di Benevento da tanto era vecchia e grinzosa e sempre filava la lana col fuso e la conocchia. Rosetta ed io eravamo contente della lettura; ma Paride e la sua famiglia non tanto perché dopo aver lavorato tutto il giorno, la sera cascavano dal sonno e, di solito, andavano subito a letto. Anzi i bambini già dormivano, accucciati addosso alle loro madri. Michele disse prima di cominciare, cavando di tasca un libretto: “Cesira voleva una storia d’amore e io leggerò appunto una storia d’amore.” Una delle donne, più per cortesia che perché fosse veramente incuriosita, domandò se fosse un fatto realmente avvenuto oppure inventato; e lui rispose che forse era stato inventato; ma era come se fosse realmente avvenuto. Intanto aveva aperto il libretto e si aggiustava gli occhiali sul naso; e alla fine ci annunciò che ci avrebbe letto alcuni episodi della vita di Gesù, nel Vangelo. Ci restammo tutti quanti un po’ male, perché ci eravamo aspettati un vero romanzo; inoltre tutto quello che è religione sembra sempre un po’ noioso forse perché le cose della religione le facciamo piuttosto per dovere che per piacere. Paride, interpretando il sentimento comune, osservò che tutti noi conoscevamo la vita di Gesù e per questo la lettura non ci avrebbe rivelato alcuna novità. […]
Michele, dunque, alle parole di Paride si limitò a rispondere con un sorriso: “Ne sei proprio sicuro?” quindi annunziò che avrebbe letto l’episodio di Lazzaro, aggiungendo: “Ve lo ricordate?” Ora tutti noi avevamo sentito parlare di questo Lazzaro; ma alla domanda di Michele ci accorgemmo che non sapevamo veramente chi fosse e che cosa avesse fatto. Forse Rosetta lo sapeva, ma anche questa volta rimase zitta. “Lo vedete,” disse Michele con un suo tranquillo tono di vittoria, “dicevate di conoscere la vita di Gesù e poi non sapete neppure chi fosse Lazzaro… eppure quest’episodio è dipinto come tanti altri nella chiesa giù a Fondi.” Paride, forse pensando che in queste parole ci fosse un rimprovero per lui, osservò: “Ma tu lo sai che per andare in chiesa, giù a valle, bisogna perdere una giornata?… Noi dobbiamo lavorare e non possiamo perdere una giornata sia pure per andare in chiesa.” Michele non disse nulla e incominciò a leggere.
[…] Mi limiterò ad osservare […] che via via che Michele andava avanti nella lettura, intorno a lui i visi dei contadini esprimevano sempre più, se non proprio la noia, per lo meno l’indifferenza e la delusione. Si erano infatti aspettati una bella storia d’amore; e invece Michele leggeva loro una storia di un miracolo al quale, per giunta, almeno da quanto mi sembrava di capire, essi non credevano come del resto non ci credeva neppure lo stesso Michele. Ma la differenza tra Michele e loro era che, mentre loro si annoiavano, tanto che due delle donne avevano ricominciato a parlottare tra di loro, ridendo sottovoce, e la terza non faceva che sbadigliare e Paride stesso, che sembrava il più attento di tutti, mostrava, chinandosi in avanti, un viso del tutto ottuso e insensibile; la differenza, dico, era che Michele, a misura che leggeva, sembrava invece commuoversi per quel miracolo al quale non credeva. Anzi, quando fu giunto alla frase: “E Gesù disse: io sono la resurrezione e la vita,” si interruppe un momento e tutti potemmo vedere che si era interrotto perché non poteva più andare avanti per via che piangeva. Io capii che lui piangeva a causa di quello che leggeva e che, come ci fu chiaro in seguito, egli riferiva in qualche modo alla nostra presente condizione; ma una di quelle donne, che si annoiava, era tanto lontana dal pensare che fosse stato l’episodio di Lazzaro a riempirgli gli occhi di lacrime, che osservò, sollecita: “Ti dà fastidio il fumo, Michele?… qui c’è sempre troppo fumo… eh, si sa, siamo in una capanna.” […] Quella donna voleva scusarsi per il fumo con Michele, per cortesia, ma lui, ad un tratto, si asciugò le lacrime e saltò su a gridare in maniera imprevista: “Macché fumo e macché capanna… io non vi leggerò più perché voi non capite… ed è inutile cercare di far capire a chi non potrà mai capire. Intanto, però, ricordatevi questo: ciascuno di voi è Lazzaro… e io leggendo la storia di Lazzaro ho parlato di voi, di tutti voi… di te Paride, di te Luisa, di te Cesira, di te Rosetta e anche di me stesso e di mio padre e di quel mascalzone di Tonto e di Severino con le sue stoffe e degli sfollati che stanno quassù e dei tedeschi e dei fascisti che stanno giù a valle e insomma di tutti quanti… siete tutti morti, siamo tutti morti e crediamo di essere vivi… finché crederemo di essere vivi perché ci abbiamo le nostre stoffe, le nostre paure, i nostri affarucci, le nostre famiglie, i nostri figli, saremo morti… soltanto il giorno in cui ci accorgeremo di essere morti, stramorti, putrefatti, decomposti e che puzziamo di cadavere lontano un miglio, soltanto allora cominceremo ad essere appena appena vivi… Buonanotte.” Dette queste parole, si alzò rovesciando la lampada a olio che si spense e uscì sbattendo la porta della capanna. Restammo tutti quanti al buio, stupefatti. Poi, alla fine, Paride, a furia di armeggiare, riuscì a trovare la lampada e a riaccenderla. Ma nessuno ebbe voglia di commentare questa sfuriata di Michele; soltanto Paride disse con l’aria imbarazzata e sorniona del contadino che crede di saperla lunga: “Eh, Michele fa presto a parlare… lui è figlio di signori, non è contadino.” Credo che anche le donne pensassero lo stesso: tutto questo era roba da signori che non zappavano e non si guadagnavano la vita col sudore della fronte. Insomma, ci augurammo la buona notte e ce ne andammo a letto. Michele, il giorno dopo, finse di non ricordarsi della scenata ma neppure propose di leggerci ad alta voce» [2].
Quelle parole di Michele che ho evidenziato in grassetto bisogna tenerle bene a mente, perché contengono il messaggio dell’opera di Moravia, la sua ragione e la sua essenza, come dimostrerà l’albeggiante conclusione.
Dopo nove mesi – indicazione temporale forse non casuale – Cesira e Rosetta possono finalmente lasciare Sant’Eufemia, grazie alla tanto attesa avanzata delle forze alleate. Ma è proprio in questo momento di generale entusiasmo, di rinascita (Cesira sente la liberazione come «un fatto fisico, come si sente di star bene dopo che si è stati legati e poi si viene slegati; come si sente di essere liberi dopo che si è stati rinchiusi in una stanza sotto chiave e tutto ad un tratto ti aprono la porta») che avviene il dramma. Le due donne subiscono in una chiesa l’aggressione di un gruppo di goumiers (i soldati marocchini in servizio nell’esercito francese protagonisti di centinaia d’atti violenti noti con il termine di Marocchinate). Per un caso fortuito Cesira riesce a salvarsi (nella colluttazione con un barbaro magrebino sbatte la testa e sviene), mentre Rosetta soccombe, e sotto gli occhi di quella Madonna alla quale era tanto devota, viene stuprata più e più volte, la sua verginità «massacrata».
La reazione di Rosetta all’atroce violenza è sorprendente. La giovane, un tempo pura e santa, si abbandona ora al sesso, concedendosi con imbarazzante facilità ad ogni uomo che la desideri. Cesira è disperata, giunge persino a mettere le mani addosso alla figlia, che più volte definisce mignotta, puttana. Come se non bastasse, a ciò si aggiunge la notizia della morte di Michele, ammazzato dai nazisti.
Roma viene finalmente liberata e le due donne partono alla volta della capitale, condotte da Rosario, uno dei molti uomini di Rosetta. Ma ecco che, per strada, sono vittime di un’imboscata tesa da una banda di ladri. Rosario viene ucciso, ma i criminali sono costretti a fuggire a causa dell’arrivo improvviso di alcuni soldati inglesi. Dopo di loro giunge un camion guidato da un autotrasportatore che, nonostante lo spavento, decide comunque di aiutare le due donne dando loro un passaggio. E avviene il miracolo. Avviene la Resurrezione. Sono le pagine conclusive del romanzo, probabilmente le più belle.
«Lo confesso, in quel frangente mi comportai da persona interessata e vile […]. Avevo portato via il denaro al morto; avevo temuto, per via del denaro, che non fosse morto ma vivo; ma, una volta constatato che era morto davvero, volli bilanciare quel mio brutto timore con un atto di fede che non mi costava niente: rapidamente, mentre l’uomo del camion mi gridava, impaziente: “Sta’ tranquilla, è morto, non c’è più niente da fare,” mi chinai e feci con l’indice e il medio un segno della Croce sul petto a Rosario, là dove la sua giubba nera appariva chiazzata da una larga macchia scura. Sentii, in questo gesto, che le mie dita sfioravano la stoffa della giubba e che questa stoffa era bagnata; quindi, come corsi insieme con Rosetta verso il camion, mi guardai furtivamente le dita con cui avevo fatto il segno della Croce e vidi che i polpastrelli erano rossi di sangue vivo, appena sgorgato. Provai d’improvviso, alla vista di questo sangue, un rimorso oscuro, quasi un orrore di me stessa, per aver fatto quell’ipocrito segno della Croce sul corpo dell’uomo che avevo allora allora derubato; e sperai che Rosetta non se ne fosse accorta. Ma, come mi asciugai le dita alla gonna, vidi che lei mi guardava e capii che mi aveva visto. Intanto eravamo salite ambedue accanto all’uomo. Il camion partì.
Quell’uomo guidava curvo sul volante che teneva con le due mani, come aggrappandosi, gli occhi fuori della testa, il viso pallido, trafelato e pieno di spavento; io ero tuttora preoccupata per il pacco di biglietti di banca che avevo in seno; e Rosetta guardava davanti a sé, con una faccia immobile e apatica in cui sarebbe stato impossibile trovare il riflesso di qualsiasi sentimento. Mi venne in mente che tutti e tre, ciascuno per i nostri motivi, non avevamo dimostrato alcuna pietà per Rosario ammazzato come un cane e poi abbandonato sulla strada maestra: l’uomo atterrito, non era neppure disceso per vedere se fosse morto o vivo; io mi ero soprattutto preoccupata di constatare che fosse morto sul serio, per via del denaro che gli avevo portato via; e Rosetta si era limitata a trascinarlo per un piede verso il fossato, come se fosse stata la carogna puzzolente e ingombrante di qualche animale. Così non c’era pietà, né commozione, né simpatia umana; un uomo moriva e gli altri uomini se ne infischiavano, ciascuno per i suoi motivi personali. Era, insomma, la guerra, come diceva Concetta, e questa guerra temevo, adesso, che si sarebbe prolungata nelle nostre anime molto dopo che la guerra vera fosse finita. Ma Rosetta era il caso peggiore dei tre: non più di mezz’ora prima, lei ci aveva fatto l’amore con Rosario; aveva suscitato la sua voglia e l’aveva soddisfatta; aveva dato e ricevuto piacere da lui; e adesso sedeva a ciglio asciutto, immobile, indifferente, apatica, senz’ombra di sentimento sopra il viso. Pensavo queste cose; e mi dicevo che tutto andava all’incontrario di come avrebbe dovuto andare e tutta la vita era diventata assurda, senza capo né coda, e le cose importanti non erano più importanti e quelle che non avevano importanza erano diventate importanti. Poi, tutto ad un tratto, avvenne un fatto strano che non avevo preveduto: Rosetta che, sinora, come ho detto, non aveva mostrato alcun sentimento, incominciò a cantare. Prima con voce esitante e come strangolata, poi chiarendosi e affermandosi la voce, in maniera più sicura, prese a cantare la stessa canzone che io le avevo chiesto di cantare poco prima e lei, sentendosi incapace, aveva interrotto alla prima strofa. Era una canzonetta di moda un paio d’anni avanti e Rosetta era solita cantarla, come ho già detto, accudendo alle faccende domestiche; non era gran che, anzi era alquanto sentimentale e sciocca, e io pensai dapprima che era strano che la cantasse proprio adesso, dopo la morte di Rosario: una prova di più della sua insensibilità e della sua indifferenza. Ma poi mi ricordai che quando le avevo chiesto di cantare, lei aveva risposto che non ne era capace perché si sentiva come svogliata; e rammentai pure di aver pensato che lei era proprio cambiata e non poteva più cantare perché non era più quella di una volta; e d’improvviso mi dissi che lei, forse, riprendendo a cantare, intendesse farmi capire che non era vero che fosse cambiata, che lei, invece, era sempre la Rosetta di una volta, buona, dolce e innocente come un angiolo. Infatti, mentre pensavo queste cose, la guardai e vidi allora che aveva gli occhi pieni di lacrime; e queste lacrime sgorgavano dai suoi occhi spalancati e scivolavano giù per le guance; e fui ad un tratto del tutto sicura: lei non era cambiata, come avevo temuto; quelle lacrime lei le piangeva per Rosario, prima di tutto, che era stato ammazzato senza pietà, come un cane, e poi per se stessa e per me e per tutti coloro che la guerra aveva colpito, massacrato e stravolto; e questo voleva dire che non soltanto lei non era, in fondo, cambiata ma neppure io che avevo rubato il denaro di Rosario né tutti coloro che la guerra, per tutto il tempo che era durata, aveva reso simile a se stessa. D’improvviso mi sentii tutta consolata; e da questa consolazione, sgorgò spontaneo il pensiero: “Appena a Roma, rimanderò questo denaro alla madre di Rosario.” Senza dir nulla, passai un braccio sotto il braccio a Rosetta e le strinsi la mano nella mia.
[…] Finalmente, ecco apparire in fondo alla pianura distesa e verde, una lunga striscia di colore incerto, tra il bianco e il giallo; i sobborghi di Roma. E dietro questa striscia, sovrastandola, grigia sullo sfondo del cielo grigio, lontanissima, eppure chiara, la cupola di San Pietro. Dio sa se avevo sperato durante tutto l’anno di rivedere, laggiù all’orizzonte, quella cara cupola, così piccola e al tempo stesso così grande da potere essere quasi scambiata per un accidente del terreno, per una collina o una montagnola; così solida benché non più che un’ombra; così rassicurante perché familiare e mille volte vista ed osservata. Quella cupola, per me, non era soltanto Roma ma la mia vita di Roma, la serenità dei giorni che si vivono in pace con se stessi e con gli altri. Laggiù, in fondo all’orizzonte, quella cupola mi diceva che io potevo ormai tornare fiduciosa a casa e la vecchia vita avrebbe ripreso il suo corso, pur dopo tanti cambiamenti e tante tragedie. Ma anche mi diceva che questa fiducia tutta nuova, io la dovevo a Rosetta e al suo canto e alle sue lacrime. E che senza quel dolore di Rosetta, a Roma non ci sarebbero arrivate le due donne senza colpa che ne erano partite un anno prima, bensì una ladra e una prostituta, quali, appunto, attraverso la guerra e a causa della guerra, erano diventate.
Il dolore. Mi tornò in mente Michele che non era con noi in questo momento tanto sospirato del ritorno e non sarebbe mai più stato con noi; e ricordai quella sera che aveva letto ad alta voce, nella capanna a Sant’Eufemia, il passo del Vangelo su Lazzaro; e si era tanto arrabbiato con i contadini che non avevano capito niente ed aveva gridato che eravamo tutti morti, in attesa della resurrezione, come Lazzaro. Allora queste parole di Michele mi avevano lasciata incerta; adesso, invece, capivo che Michele aveva avuto ragione; e che per qualche tempo eravamo state morte anche noi due, Rosetta ed io, morte alla pietà che si deve agli altri e a se stessi. Ma il dolore ci aveva salvate all’ultimo momento; e così, in certo modo, il passo di Lazzaro era buono anche per noi, poiché, grazie al dolore, eravamo alla fine, uscite dalla guerra che ci chiudeva nella sua tomba di indifferenza e di malvagità ed avevamo ripreso a camminare nella nostra vita, la quale era forse una povera cosa piena di oscurità e di errore, ma purtuttavia la sola che dovessimo vivere, come senza dubbio Michele ci avrebbe detto se fosse stato con noi» [3].
Le righe finali confermano l’importanza del passo in cui Michele legge la storia di Lazzaro, e confermano l’importanza stessa del suo personaggio, che incarna in un certo senso la coscienza intellettuale, in una veste vagamente mistico-sacerdotale.
L’epilogo chiarisce il messaggio evangelico dell’opera di Moravia: la Resurrezione è possibile. Sì, possibile, ma passa prima necessariamente dal dolore.
Il romanzo si conclude dunque in una prospettiva ottimistica, di riscatto (il canto e le lacrime di Rosetta riscattano il mondo intero) e rinascita. Contrariamente a quanto avviene nella Casa in collina, tanto per accennare un rapidissimo confronto con quello che, l’ho già detto, ritengo sia il capolavoro della tradizione letteraria post-bellica italiana, nella Ciociara c’è spazio per la speranza (forse pure troppo, ma è un giudizio del tutto personale, frutto della mia visione del mondo e della vita). Là dove Pavese non lascia neppure un solo spiraglio di luce (è vero, Corrado prova pietà nei confronti dei repubblichini trucidati, ma è una pietà che si pone come non-valore), Moravia erge di fatto un nuovo sole, nutrimento di nuove vite.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul romanzo di Pavese si veda l’articolo La casa in collina, tragica testimonianza dell’impotenza dell’intellettuale.
[2] Alberto Moravia, La ciociara, Bompiani, Milano 1957, pp. 120-123.
[3] Ivi, pp. 304-308.
In copertina: Sophia Loren in una scena del celebre film di Vittorio De Sica.