Atti eversivi, gesti anticonformisti per qualsiasi epoca, capelli arruffati e una rigida predilezione allo stupore: questi elementi hanno fatto del Borromini l’eroe “romantico”, l’osservatore emarginato da una società che non lo ha mai apprezzato fino in fondo, e di un’epoca che ha scelto di specchiarsi nel limpido estro dello sfarzoso Bernini, piuttosto che cercare di comprendere cosa ci fosse oltre l’opaco e fragile cristallo che difendeva l’austero e scontroso genio ticinese.
Un artista che ha incarnato la bellezza e la grazia nelle sue architetture, che avvolgono, innalzano ed elevano l’animo umano in un eden emozionale, compiendo un notevole passo in avanti rispetto ai canoni dell’epoca. Un’esistenza controversa la sua, terminata con una lama nel cuore.
Le motivazioni che possono spingere un uomo al suicidio sono molteplici e di diversa natura, poi cercando tra i suoi pensieri e scorrendo gli ultimi cinque anni di vita i motivi appaiono limpidi, chiari, ed anche in una mente straordinariamente fertile possono pesare in maniera maggiore rispetto ai motivi per cui vale la pena vivere. Così immaginiamolo seduto su una panca in legno, nella sua modesta abitazione di via dell’agnello, con la testa tra le mani e con lei i suoi orrendi pensieri.

Cominciamo col dire che nel 1662 muore il suo ultimo vero protettore e amico, Virgilio Spada. Nessuno vedrà più in Borromini una speranza, tranne i suoi pochi e circoscritti adepti, con i quali lui non scambia molte parole, eccezion fatta per il padre trinitario Orazio Callera, suo confessore e sollievo morale. L’assenza di legami affettivi inoltre pesa sulla sua solitudine, che in molti hanno interpretato come un segno decisivo per constatare la sua omosessualità latente: per quanto tutto sia possibile, non è molto credibile l’ipotesi di un Borromini omosessuale, come non è altrettanto immaginabile a fianco di una donna. Per l’architetto ticinese la ligia severità religiosa è più di una regola, è un dogma, ed è per questo principio che passano i suoi rapporti interpersonali.
Anche gli uomini che orbitano intorno a lui, pochissimi, difficilmente stabiliranno un rapporto di intimità con il maestro, tranne chi gode della sua stima. Uno di loro è senza dubbio Carlo Maderno, suo mentore e principale insegnane, che lo protesse finché in vita, coinvolgendolo in molti dei suoi lavori come ad esempio in palazzo Barberini. Ma anche questo è poco, troppo poco, per riempire un’esistenza priva di affetti.
E’ quasi certo, almeno da quanto riportato da alcuni biografi del tempo, che vista la situazione e l’assenza di un lavoro degno del suo nome, Borromini tornò per un po’ di tempo a Bissone, suo paese natio. In quei mesi probabilmente passò delle giornate leggere e in compagnia di una famiglia che lo accolse con l’orgoglio che si riserva a chi ha fatto grandi cose “fuori”. Ma in cuor suo sapeva che il ritorno a Roma sarebbe stato obbligato oltre che imminente, poiché un uomo così pratico non poteva sopravvivere a lungo abbandonato nell’ozio: chissà, forse pensava tra sé e sé, tornando verso l’Urbe, che la fine non era così vicina.
Il ritorno però non sortì effetti positivi sul suo stato psicofisico, anzi la mente cominciò a vacillare pericolosamente spostandolo in breve tempo sul precipizio della follia. Nell’ultimo periodo l’insonnia si aggiunge alla depressione in quello che probabilmente risulterà un connubio mortale per i già fragili nervi del povero artista, dimenticato dalla società.
L’ultimo gesto, evocativo, che lo renderà mito, è dettato dal mostro che ormai lo domina, facendogli compiere atti estremi. Un lume forse, lo stesso che lo aveva illuminato in qualche nottata, danzante come la lanterna di Sant’Ivo, sarebbe bastato per bruciare i suoi ultimi progetti, le sue idee, cosicché nessun altro potesse travisarli o saccheggiarli. Se non lui, nessuno. E’ l’atto estremo di un amante geloso, di un padre che non potrà veder crescere i propri figli. L’ultimo.
Una spada nel cuore e poi il silenzio.
Tutto il resto conta poco, neanche la sua morale cristiana lo distoglierà dall’intento suicida, d’altronde non poteva essere altrimenti vista la sua vicinanza ai precetti della chiesa dei primi secoli, quando il suicidio era ancora privo di connotazioni negative. Diviene quindi una vittima della società tanto quanto lo sarà van Gogh due secoli dopo, la quale ha la colpa di non essere capace di recepire le sue fatiche artistiche, quasi velleitarie di fronte alla “leggerezza” contemporanea. Proseguire il cammino rivoluzionario avviato da Michelangelo gli è costato la vita. Ma c’era da immaginarselo che non avrebbe mai accettato un ruolo da comprimario, lui stesso pronuncerà una frase che alla fine del cammino percorso insieme risulta quasi profetica: “Chi segue altri non gli va mai inanzi. Ed io al certo non mi sarei posto a questa professione col fine d’esser solo copista.”