Cesare Pavese – Paesi tuoi, l’orribile morte di Gisella

Quando il romanzo Paesi tuoi di Cesare Pavese esce nel 1941, segnandone peraltro l’esordio narrativo, sono forti e contrastanti le reazioni che suscita, a causa del delicatissimo tema dell’incesto, trattato con libertà e ferocia, e a causa dell’originale e innovativo stile di scrittura, violento e dialettale.

Berto, un meccanico torinese, esce dal carcere insieme a Talino, suo compagno di cella, un contadino tra lo sciocco e il furbo, tra il barbaro e il vigliacco reo di aver bruciato un’abitazione. Quest’ultimo convince Berto a seguirlo in campagna, con la scusa di occuparsi della trebbiatrice durante la mietitura, quando in realtà ha bisogno di protezione dopo il misfatto commesso. Il meccanico “civilizzato” si ritrova così in un ambiente quasi primordiale, che non gli appartiene, ma nel quale riesce ad adattarsi facilmente. Si adegua ai costumi della numerosa e patriarcale famiglia di Talino, e inizia a stringere un rapporto amorevole con la più giovane delle sue quattro sorelle, Gisella, in passato violentata dal bestiale fratello. I giorni scorrono tranquilli sotto il sole cocente che brucia le collinose Langhe, fino a quando il dramma esplode improvviso e violento. Durante la mietitura la povera Gisella porge a Berto un secchio affinché si disseti, ma ecco che si intromette Talino – preda di un’incontenibile eccitazione frutto forse della gelosia, di certo del caldo e della fatica – il quale prima provoca la sorella e poi le pianta in pieno collo il tridente aguzzo, causandone l’atroce e dolorosa morte.

Pavese è uno scrittore carnale, sensuale, ed è proprio nelle pagine dell’assassinio di Gisella da parte di Talino-Caino che in Paesi tuoi emerge con una forza straripante tutta la componente carnale e sensuale del narratore piemontese. Pagine intense, cruente, feroci, che riportiamo di seguito, e al termine delle quali troverete una breve analisi.

Rispunta Talino con quattro tridenti in mano e li butta sotto il carro nelle gambe di Miliota, che deve fare un salto se vuole salvarsi.
– Bastardo, – gli grida.
– Non è mica vero, – le fa Ernesto tranquillo, – è figlio anche lui di suo padre.
– Molte cose sarebbero chiare, se fosse bastardo, – gli dico; e vedo Ernesto che mi fissa, come se non avesse capito. Prima parlava ridendo e adesso mi guardava.
Tornato Vinverra, cominciano a scaricare. Il grassone aveva disfatto le corde che tenevano fermi i covoni, poi s’erano messi col tridente, lui e Talino, sopra il carro, e piantavano delle forcate là dentro, come due facchini. Sotto, Ernesto e le ragazze prendevano in spalla i covoni e li gettavano sotto il portico.
– Su e giù, su e giù, – gridava quello grasso, in mezzo alla polvere e al sole, – domani ballate per l’ultima volta.
A vedere Ernesto che s’era tolto la giacca e faceva il contadino, e la schiena piegata di quelle ragazze, e l’Adele che dalla finestra della sua stanza guardava e pareva che ridesse, mi viene vergogna e do mano a un tridente per aiutare anch’io. – Forza, – grida Talino, – si mette anche il macchinista -. Parlava sghignazzando, il sudore e le vene del collo lo eccitavano. I covoni pesavano e Talino me li gettava sulla testa come fossero dei cuscini. Ma tenevo duro; dopo cinque o sei viaggi vedevo solo come un incendio e avevo in bocca un sapore di grano, di polvere e sangue. E sudavo.
Poi mi fermo, arrivando sotto il portico. Quelle erano le gambe di Gisella. Il covone mi bruciava il collo come un disinfettante. E sento Talino che dice: – Gisella è venuta a vederti, forza! – Getto il covone sul mucchio e la vedo che passa ridendo, col secchio, fresca e arrabbiata. Mi asciugo il sudore, e Gisella era già contro il pozzo, che agganciava. Tanto io che Ernesto le lasciamo tirare su l’acqua, e poi corriamo insieme a bere. – Uno per volta, – diceva Gisella, e gli altri due si fermano lassù coi tridenti piantati.
– Quando abbiamo finito, porta qui la bottiglia, – dice Vinverra traversando il portico.
Mi ricordo che Gisella guardava dritto nel grano, mentre bevevo. Guardava tenendomi il secchio a mani giunte, con fatica, come aveva fatto per Ernesto ma lui lo guardava, e con me stava invece come se godesse facendosi baciare. Quando ci penso, mi sembra così. O magari era soltanto lo sforzo, e il capriccio di avercene due intorno che bevevano. Non gliel’ho più potuto chiedere.
Ecco che saltano dal carro Talino e Gallea. Vengono avanti come due ubriachi, Talino il primo, con le paglie in testa e il tridente in pugno.
– Là si lavora e qui si veglia, – fa con la voce di suo padre.
– C’è chi veglia di notte e chi veglia di giorno, – gli risponde Gisella. Ma lui dice: – Fa’ bere, – e si butta sul secchio e ci ficca la faccia. Gisella glielo strappa indietro e gli grida: – No, così sporchi l’acqua -. Dietro, vedo la faccia sudata dell’altro. – Talino, – fa Ernesto, – non attaccarti alle donne.
Forse Gisella cadeva; forse in tre potevamo ancora fermarlo; queste cose si pensano dopo. Talino aveva fatto due occhi da bestia e, dando indietro un salto, le aveva piantato il tridente nel collo. Sento un grosso respiro di tutti; Miliota dal cortile che grida «Aspettatemi»; e poi Gisella lascia andare il secchio che m’inonda le scarpe. Credevo fosse il sangue e faccio un salto e anche Talino fa un salto, e sentiamo Gisella che Gorgoglia: – Madonna! – e tossisce e le cade il tridente dal collo.
Mi ricordo che tutto il sudore mi era gelato addoso e che anch’io mi tenevo la mano sul collo, e che Ernesto l’aveva già presa alla vita e Gisella pendeva, tutta sporca di sangue, e Talino era sparito. Vinverra diceva «d’un cristo, d’un cristo» e corre addosso ai due nel trambusto la lasciano andar giù come un sacco, a testa prima nel fango. – Non è niente, – diceva Vinverra, – è una goffa, àlzati su -. Ma Gisella tossiva e vomitava sangue, e quel fango era nero. Allora la prendiamo, io per le gambe, e la portiamo contro il grano e non potevo guardarle la faccia che pendeva, e la gola saltava perdendo di continuo. Non si vedeva più la ferita.
Poi arrivano le sorelle, arrivano i bambini e la vecchia, e cominciano a gridare, e Vinverra ci dice di stare indietro, di lasciar fare alle donne perché bisogna levarle la camicetta. – Ma qui ci vuole un medico, – dico, – non vedete che soffoca? – Anche Ernesto si mette a gridare e per poco col vecchio non si battono. Finalmente parte Nando e gli grido dietro di far presto, e Nando corre corre come un matto.
– Altro che medico, – dice Gallea che ci guardava dal pilastro – ci vuole il prete.
– E Talino? – fa Ernesto, con gli occhi fuori.
In quel momento l’Adele tornava col catino correndo e si fa largo e s’inginocchia. Mi sporgo anch’io e sento piangere e vedo la vecchia che le tiene la testa, e Miliota che piange e l’Adele le tira uno schiaffo. Gisella era come morta, le avevano strappata la camicetta, le mammelle scoperte, dove non era insanguinata era nuda. Poi la vecchia ci grida di non guardare. Mi sento prendere il braccio. – Dov’è Talino? – chiede ancora Ernesto.
Si fa avanti Gallea. – È scappato sul fienile, – ci dice tutto scuro, – gli ho levata la scala.
Ernesto voleva salire. Gallea lo tiene e lo tengo anch’io. Batto i piedi in un manico. Era il tridente di Gisella, tutto sporco sul manico ma non sulle punte. – Teniamo questo, – gli dico, – senz’un’arma Talino è un vigliacco.
Poi sentiamo di nuovo tossire. Meno male, era viva. Il fango dov’era caduta col secchio faceva spavento, così nero; e la strada fino al grano era sempre più rossa, più fresca. Vinverra ricomincia a bestemmiare coi bambini, e si guardava intorno: cercava Talino. Si alza l’Adele e dice a Pina: – tu va’ avanti -. Poi chiamano Ernesto che venga a aiutare. Io no, perché ero nuovo, e da quel momento mi cessò il sopraffiato e cominciarono a tremarmi i denti. La prendono Ernesto e Vinverra; e Miliota le teneva un braccio. La vecchia mandava via i bambini. Attraversano adagio il cortile, le avevano coperto le mammelle, entrano in cucina. Le vedo l’ultima volta i capelli che pendevano e una gamba scoperta. Poi la portano su.

Cesare Pavese, Opere, Einaudi, Torino 1968.

Assistiamo all’improvvisa tragedia dal punto di vista di Berto, protagonista-narratore di Paesi tuoi. Ma come emerge da una nota di Pavese nel Mestiere di vivere, Berto è ben più di un narratore oggettivo, è una «terza persona» che ha il compito di comunicare, e dunque rappresentare, il «modo di pensare» dello stesso autore. In tal senso il furibondo e assurdo realismo esclude del tutto la componente naturalistica, concentrandosi piuttosto su quella metaforica. L’estremo e feroce gesto di Talino, l’improvviso fratricidio, è l’immagine di un’umanità primitiva e arcaica – che ricorda luoghi e tempi d’azione del fratricida più celebre: Caino – in cui domina il simbolo.

A Gisella, deturpata, insanguinata e agonizzante, vengono scoperte le mammelle. Quella della mammella, simbolo di sesso, femminilità, maternità e, più in generale, di vita, è un’immagine ossessivamente ricorrente lungo tutto il romanzo, associata alle colline delle Langhe: «C’era una collinaccia che sembrava una mammella, tutta annebbiata dal sole»; «Rivedo la collina dal treno. Era cresciuta e sembrava proprio una poppa, tutta rotonda sulle coste e col ciuffo di piante che la chiazzava in punta»; «Poi le nuvole se ne vanno e tutto resta come un mare di luna, che faceva vedere dietro la cascina il capezzolo scuro di Monticello»; «Adesso sì, siamo soli, pensavo, e siamo in mezzo alle mammelle»; «Di lì vedevo la mammella e ci pensavo»; «Di là si vedeva la prima collina, bruciata e pelata – erano tutte vigne – e il capezzolo in punta che faceva piacere guardarlo»; «Allora mi metto a pensare che cosa voleva dirmi Gisella e che cosa mi avrebbe lasciato fare. – Qui, sotto la luna, non vorrà – dicevo -; e se volesse soltanto parlare? – Ma ridevo perché, raccontandole della collina che sembrava una mammella, sarei venuto sul discorso».

Simboli e metafore proprie del processo di modernizzazione dei miti primitivi attuata da Pavese in Paesi tuoi. In tal senso la morte di Gisella assume un carattere rituale, rappresenta una sorta di sacrificio, di tributo alla terra. Berto, il meccanico “civilizzato” non può comprendere e tollerare tutto ciò, e subito dopo l’orribile fine della giovane abbandona quella violenta e primordiale campagna. Chi non si scompone più di tanto, nonostante l’inaudita violenza del figlio, è il patriarca Vinverra, duro come un albero conficcato in collina, che poco dopo la tragedia ordinerà di continuare il lavoro, su quella terra arida che assetata ha bevuto e assorbito in fretta il sangue di Gisella.

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