Non pareva nemmeno morta. Soltanto un gonfiore alle labbra, come fosse imbronciata.
Cesare Pavese, Tra donne sole, 1949.
L’emancipata Clelia torna a Torino, sua città natale, per allestire un atelier di moda. Qualche ora dopo il suo arrivo, «sotto l’ultima neve di gennaio, come succede ai saltimbanchi e ai venditori di torrone», in albergo si imbatte in una aspirante suicida che ha appena tentato di avvelenarsi e viene portata via in barella.
«Mezz’ora dopo, la cameriera non era ancora tornata. “Questo succede soltanto a Torino”, pensai. Feci una cosa che non avevo mai fatto, come se fossi una ragazza sciocca. M’infilai la vestaglia e socchiusi la porta.
Nel corridoio discreto, varie persone, camerieri, signori, la mia impertinente, s’accalcavano davanti a una porta. Qualcuno, sottovoce, esclamava qualcosa.
Poi la porta si spalancò, e piano, con molti riguardi, due camici bianchi portarono fuori una barella. Tutti tacquero e fecero largo. Sulla barella era distesa una ragazza – viso gonfio e capelli in disordine -, vestita da sera di tulle celeste, senza scarpe. Benché avesse le palpebre e le labbra morte, s’indovinava una smorfia ch’era stata spiritosa. Guardai d’istinto sotto la barella, se gocciava sangue. Cercai le facce – erano le solite, chi sporgeva le labbra, chi pareva ghignasse. Colsi l’occhio della mia cameriera – stava correndo dietro la barella. Sulle voci sommesse del crocchio (c’era pure una signora in pelliccia e si torceva le mani) si levò quella di un dottore – uscì dalla porta asciugandosi le mani -, e dichiarò ch’era finito, si levassero dai piedi.
La barella sparì per le scale, sentii esclamare: – Fa’ piano -. Guardai di nuovo la mia cameriera. Era già corsa a una sedia in fondo al corridoio, e tornava col vassoio del tè.
– S’era sentita male, che disgrazia, – disse entrandomi nella stanza. Ma le brillavano gli occhi e non si tenne. Mi disse ogni cosa. La ragazza era entrata in albergo al mattino – veniva sola da una festa, da un ballo. S’era chiusa nella stanza; non s’era mossa tutto il giorno. Qualcuno aveva telefonato, l’avevano cercata: un questurino aveva aperto. La ragazza era sul letto, moribonda.
La cameriera continuava. – Prendere il veleno a carnevale, che peccato. E i suoi sono così ricchi… Hanno una bella villa in piazza d’Armi. Se si salva è un miracolo…
Le dissi che volevo dell’altr’acqua per il tè. E che non si fermasse più sulle scale.
Ma quella notte non dormii come avevo sperato e girandomi nel letto mi sarei data dei pugni per aver messo il naso nel corridoio». [1]
Durante l’allestimento del negozio Clelia entra nell’ambiente dell’alta borghesia torinese, lei, d’umili origini, e conosce numerose donne: Momina, Mariella, Nene e Rosetta, l’aspirante suicida. Attraverso il punto di vista distaccato, critico della protagonista (come avete potuto notare nel passo sopracitato, è Clelia a narrare in prima persona la vicenda, spettatrice di un mondo nel quale è riuscita a entrare, ma al quale non apparterrà mai fino in fondo. Le sue radici sono umili, povere, e le radici – tema carissimo a Pavese, uno dei temi centrali nella sua produzione – sono tutto in un essere umano. Dicono tutto dell’essere umano) Pavese evidenzia la vacuità di un ambiente mondano, frivolo, che si nutre di pettegolezzi, di scandali, di cattiverie, e che produce un’infinità di parole, di ciance inutili, inconsistenti come il fumo delle sigarette accese e spente in continuazione, una dietro l’altra – in tal senso, tanto per fornire un esempio noto ai più, le atmosfere del romanzo ricordano vagamente quelle della Grande bellezza.
Tuttavia può capitare che in un tale habitat artefatto, manierato, plastico si levi una voce di protesta, una voce fragile, e pur sempre viziata, ma che ha la forza di dire basta. È la voce della melanconica Rosetta, che prova di nuovo a togliersi la vita, e questa volta ci riesce.
«Un giorno dissi: – Chi sa Rosetta – e telefonai a Momina. – Vengo da te, – mi rispose, – non so cosa dirmi. Quella stupida si è uccisa un’altra volta.
Aspettai col cuore in gola la macchina verde. Quando la vidi al marciapiede, uscii dal negozio e Momina sbatté lo sportello, traversò il portico, mi disse: – Che fretta.
Era elegante, aveva un basco con la piuma. Salì con me in un salottino.
– È successo che manca da casa da ieri. L’ho cercata mezz’ora fa al telefono e la cameriera mi ha detto che è in gita con me.
Non c’era errore. Né Mariella né la Nene l’avevano vista. Momina non aveva il coraggio di telefonare alla madre. – Speravo ancora che fosse con te, – balbettò con una smorfia.
Le dissi che la colpa era sua; che, se anche Rosetta non si ammazzava, la colpa era sua. Le dissi non so che cosa. Mi pareva di aver ragione e di potermi vendicare. La insolentii come se fosse mia sorella. Momina guardava il tappeto e non cercava di difendersi. – Mi secca, – disse, – che credono che fosse con me.
Telefonammo alla madre. Non era in casa. Allora in macchina facemmo il giro dei negozi e delle chiese dove poteva esser andata. Tornammo alla villa, di dove volevo telefonare al padre. Ma non ce ne fu bisogno. Mentre scendevo dalla macchina la vidi avvicinarsi, grossa e nera, sotto gli alberi del piccolo viale.
Per tutto quel giorno, in compagnia dei due vecchi che urlavano, telefonammo e aspettammo e corremmo alla porta. A me pareva di esser stata sorda e cieca, mi tornavano in mente le parole, le smorfie, gli sguardi di Rosetta, e sapevo di averlo saputo, sempre saputo, e non averci fatto caso. Ma poi dicevo “Si poteva fermarla?” e dicevo “Magari è scappata come te con Becuccio” e rivedevo le smorfie, le parole, gli sguardi.
Poi cominciò a venire gente. Tutti dicevano: – La trovano. È questione di tempo -. Venne Mariella, venne sua madre; conoscenti e parenti; venne uno della questura. Nel salone arioso, sotto il grande lampadario, sembrava un ricevimento, e si chiedevano come può darsi che chi come Rosetta ha tanto bisogno di vivere, voglia morire. Qualcuno diceva che il suicidio andrebbe proibito.
Momina discorreva con tutti, tagliente e cortese. Non mancò qualcuna che mi parlò del mio lavoro e s’informò dell’apertura del negozio. Altri negli angoli cominciavano a dir la loro sulla storia di Rosetta. Io non potevo più restare. Madame mi aspettava.
Tutta la sera mi rimasero in mente gli occhi stravolti della madre, la faccia istupidita e feroce del padre, e non riuscivo a non pensare che somigliava a Rosetta. Momina, che doveva telefonarmi, non si faceva viva. Ero in seduta coi disegnatori e con Febo. Mi alzai e andai io al telefono.
La cameriera piangente mi disse che la signorina era stata trovata. Era morta. In una camera d’affitto di via Napione. Venne Mariella al telefono. Mi disse con voce rotta che non c’erano dubbi. Momina e gli altri erano andati a riconoscerla. Lei no, non poteva, sarebbe impazzita. La portavano a casa. S’era di nuovo avvelenata.
A mezzanotte seppi il resto della storia. Passò Momina in albergo con l’automobile e mi disse che Rosetta era già a casa, distesa sul letto. Non pareva nemmeno morta. Soltanto un gonfiore alle labbra, come fosse imbronciata. Il curioso era stata l’idea di affittare uno studio da pittore, farci portare una poltrona, nient’altro, e morire così davanti alla finestra che guardava Superga. Un gatto l’aveva tradita – era nella stanza con lei, e il giorno dopo, miagolando e graffiando la porta, s’era fatto aprire». [2]
L’essere umano ha un innato bisogno di dolore, deve soffrire, è nella sua natura, come se, citando Cioran, soffrire fosse il solo modo d’acquisire la sensazione d’esistere. Là dove non ha problemi se li crea a bella posta, ed è ciò che spesso accade negli strati più agiati, più abbienti della società. Rosetta è vittima di questa sinistra patologia, ma non solo. La giovane suicida ha anche una certa consapevolezza dell’imbecillità e dell’insulsaggine del proprio ambiente. E il suo anelito all’autodistruzione, all’autoannientamento è frutto di entrambe le componenti.
NOTE
[1] Cesare Pavese, Tra donne sole, in Cesare Pavese, Romanzi e Racconti, volume terzo, edizione Euroclub Italia, su licenza di Giulio Einaudi editore, Torino, prima edizione 1997, pp. 166-167.
[2] Ivi, pp. 307-309.
In copertina: Gustav Klimt, Signora con manicotto, 1916.