“La Natura è un tempio ove viventi colonne lascianotalvolta uscire confuse parole; l’uomo vi passaattraverso foreste di simboli che lo osservanocon sguardi a lui familiari.”
Charles Baudelaire, “Corrispondenze” da I fiori del male
Il nuovo anno è iniziato ufficialmente il 3 febbraio per Palazzo Reale a Milano, quando la mostra “Il Simbolismo. Dalla Belle Époque alla Grande Guerra” ha aperto le porte, pronta ad ospitare nelle sale del piano nobile del maestoso edificio i numerosi visitatori. Fondamentale per comprendere al meglio il fil rouge che unisce questa tematica con le altre mostre in programma, è allargare l’obiettivo e guardare ciò che è stato e ciò che sarà: Alfons Mucha (mostra che terminerà il prossimo 20 marzo) e l’attesissima mostra per il centenario dalla scomparsa di Umberto Boccioni (dal 23 marzo).
L’esposizione si propone di approfondire i motivi, le fusioni, le atmosfere e soprattutto le ispirazioni, non solo artistiche ma anche letterarie, che hanno dato il via al movimento. Compito ancora più difficile è tracciare un confine, capirne la consistenza, ed eventualmente interrogarsi se la liquidità delle linee di margine contribuisca ad arricchirne i contenuti: un dato è certo, il Simbolismo conosce diverse correnti ed accezioni a seconda dell’epicentro da dove si è generato. Solo in Europa infatti, si possono distinguere diverse genesi e altrettanti ispiratori: ad esempio la radice che si è sviluppata nel nord della Francia e nel Belgio, non può non riconoscere in Baudelaire il padre spirituale, la degna contrapposizione al positivismo di fine ‘800.
Discorso diverso va fatto in Germania ed in Austria, dove la filosofia di Nietzsche ha fatto da combustibile per una pittura che già ardeva, era nell’aria, e che tanto ha in comune con quella definizione di uomo sospesa sull’abisso di “Così parlò Zaratustra” in cui “l’uomo è una corda, tesa tra l’animale e il Superuomo, una corda sopra un precipizio:un pericoloso oltrepassamento, un pericoloso andamento, un pericoloso volgersi indietro, un pericoloso trasalire ed arrestarsi. Ciò che è grande nell’uomo, è che egli è un ponte e non una mèta”.
E poi c’è l’Italia, luogo dove il Simbolismo ha avuto due centri, uno milanese e uno romano, entrambi guidati dalle parole dell poeta vate, Gabriele D’Annunzio.
“L’arte espanderà la sua nuova fioritura,
originale e suprema, in un’atmosfera di sogno”
Gabriele d’Annunzio, in “Il Mattino”
Il compito di dare il benvenuto e svolgere una breve introduzione a ciò che aspetta il visitatore superando il “salotto” d’ingresso, è stato affidato alle parole di Philippe Daverio, il quale in un video semplifica i passaggi e analizza il preludio alla situazione artistica che ha cullato il Simbolismo.
Ad aprire la prima delle diciotto sezioni però spetta di diritto a lui, Charles Baudelaire e i suoi “I Fiori del male”: la data è il 1857 (anno di pubblicazione della raccolta di poesie), la prima edizione non viene compresa ed anzi è aspramente criticata. In una teca l’evoluzione della copertina oltre a qualche scritto con delle richieste avanzate dal poeta in merito all’esecuzione del frontespizio, come la volontà che “I Fiori del Male fosse scritto su una sorta di banderuola svolazzante e attorta al di sopra della testa dello scheletro”. Sarà poi l’amico Félicien Rops ad interpretare le richieste di Baudelaire nella copertina per “Les Épaves”. Già in questa prima saletta vi è il fulcro della mostra, le donne perdute, i fantasmi e le oscure presenze, e quell’impresa di “estrarre la bellezza dal male”.
La seconda sezione è dedicata al tema del sogno e dell’incubo, alla ricerca di una sospensione della realtà, o, a volte, di una sostituzione stessa di quest’ultima con l’allucinazione: tra le opere presenti vi è un bellissimo dipinto di Joan Brull intitolato appunto “Il sogno”, in cui una donna osserva probabilmente delle ninfe danzare su un lago lontano da lei, in una scena sospesa dal sapore estremamente onirico. Degna di nota è anche “Il sonno, i sogni” del torinese Attilio Mussino, noto ai più per l’illustrazione più famosa di Pinocchio.
Ancora procedendo il percorso si approda nel mondo di Redon con alcune sue litografie: nella sua produzione miti classici e orientali sono mescolati sapientemente, affrontati e rappresentati spesso con un accento bizzarro, quasi grottesco, ma sempre chimerico. Redon ha la grande capacità di “far vivere umanamente degli esseri inverosimili secondo le leggi del verosimile mettendo, per quanto è possibile, la logica del visibile al servizio dell’invisibile”.
Le successive due sezioni, la terza e la quarta, sono incentrate sul tema della morte e della scelta tra il bene e il male: autori italiani (come Previati e la sua bellissima “Cleopatra” morente) e stranieri (uno su tutti Leo Putz e la sua “Vanitas”, nel quale una donna nuda giace su un letto sfatto, carica di pulsioni sessuali sotto l’occhio attento di alcuni demoni che nell’oscurità la osservano) si susseguono con stili e caratteri tipici della loro regione.
E poi ci sono Félicien Rops, pittore belga, e Max Klinger, tedesco, ai quali sono dedicate due sale solo per loro: il primo è il geniale interprete dell’immaginario poetico di Baudelaire, il quale in una lettera a Manet in seguito ad un suo viaggio a Bruxelles affermerà “Rops è l’unico vero artista, nel significato che io, e forse io solo, attribuisco alla parola artista, ch’io abbia trovato in Belgio”. Molte opere importanti, come la spietata critica alla società borghese contemporanea intitolata “Pornocrazia”, nella quale “una donna nuda e bendata porta al guinzaglio un maiale, a simboleggiare il rimbecillimento della razza umana sotto il roseo tallone della cortigiana”, di colei che incarna “il Piacere e non l’Amore”.
Max Klinger invece, con la serie “Un guanto”, racconta in maniera molto poetica le vicissitudini di un guanto, che dopo essersi perso diviene il simbolo di un amore desiderato e perduto, spaiato e dunque solo senza la sua metà.
Altrettanto interessante e centrale alla mostra è la sezione otto, quella dedicata a Moreau e Böcklin, che rappresentano con la loro pittura il ritorno al mito classico e all’ideale: il primo, elitario e isolato, ammalia con le sue immagini sospese fatte di piccoli eroi;il secondo invece lo fa con gli spazi, ipnotici e misteriosi, come nel caso de “L’isola dei morti” (presente in mostra con una copia di Otto Vermehren).
Estremamente delicato è anche l’omaggio ai Nabis, presenti con l’opera dall’atmosfera magica di Paul Serusier dal titolo “L’incantesimo (o Il bosco Sacro)”. Come l’accattivante immagina di copertina della mostra, il quadro del belga Fernand Khnopff dal titolo “Carezze (L’Arte)”: in quest’opera una donna quasi di pietra, una sfinge, con il corpo di ghepardo, si strofina sensualmente a simboleggiare, come il pittore stesso affermò, un’allegoria della vita moderna in cui l’uomo è costretto a scegliere tra il piacere fisico e il controllo di sé.
Nelle ultime sezioni infine, vi è un’approfondimento, forse la parte più interessante ed innovativa della mostra, dell’arte simbolista italiana: la bellissima “Dea dell’amore” di Giovanni Segantini, in posa languida e provocante avvolta nel rosso dei suoi capelli, e soprattutto le opere di Giulio Aristide Sartorio, dei maestosi pannelli dedicati al tema del sogno esposti per la prima volta alla biennale di Venezia nel 1907, esposizione che portò alla ribalta molti dei pittori simbolisti italiani.
In definitiva va riconosciuto un grande merito a questa mostra, quello di tornare ad indagare, aprire un dibattito, segnare un percorso o una strada, che proprio nella corrente simbolista rimane dubbia e dissestata. Anzi, l’esposizione sceglie di evidenziare le parole, decifrare il codice e dare un nome ai protagonisti che hanno preso parte alla fantastica danza onirica del sogno, senza annoiarci, portandoci al di fuori della realtà.
“Il Simbolismo. Dalla Belle Époque alla Grande Guerra”
Palazzo Reale, Piazza del Duomo 12, Milano
ORARI MOSTRA
Immagine di copertina: Fernand Khnopff, Carezze (L’Arte), 1896