Comprendere oggi un saggio di estetica come Laocoonte (1766) dello scrittore, drammaturgo e filosofo tedesco Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) non è semplice, tale è la trasvalutazione che ha subito l’arte dal Settecento a oggi, e in particolar modo nel XX secolo – basti pensare a un’opera in particolare, che ha davvero rovesciato tutto: Fontana (1917) di Marcel Duchamp (1887-1968).
Eppure, se si riesce a entrare, con un poco di sforzo, nei panni dell’autore, per noi postmoderni troppo stretti, a immedesimarsi in esso e, di conseguenza, a leggere il saggio con gli occhi dell’epoca, è possibile scovare nel Laocoonte un’enorme quantità di gioielli. Gioielli il cui valore inestimabile resta intatto fino ai nostri giorni.
Lessing apre il saggio riferendosi a Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), il celebre storico dell’arte, tra i massimi teorici del neoclassicismo, secondo cui la caratteristica peculiare dell’arte greca risiede nella «nobile semplicità e quieta grandezza». In particolar modo Lessing riporta un passo tratto dall’opera Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura (1755) dedicato al famoso gruppo scultoreo conservato oggi presso i Musei Vaticani, e probabile copia marmorea eseguita tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. di un originale bronzeo del 150 a.C. circa:
«Come la profondità del mare rimane sempre tranquilla, per quanto infuri la superficie, così l’espressione delle figure dei Greci mostra, in mezzo a tutte le passioni, un’anima grande e posata. Quest’anima si mostra nel volto del Laocoonte, e non solo nel volto, nonostante la più atroce sofferenza. Il dolore, che si scorge in ogni muscolo e in ogni tendine del corpo e che, al solo guardare quel ventre dolorosamente contratto, senza considerare né il viso né le altre parti, crediamo quasi di sentire noi stessi, quel dolore – io dico – non si esprime affatto con la rabbia nel volto o nell’intera posizione. Egli non leva alcun grido orribile, come canta Virgilio del suo Laocoonte: l’apertura della bocca non glielo consente; è piuttosto un angoscioso e represso murmure, come ce lo descrive Sadoleto. Il dolore del corpo e la grandezza dell’anima sono distribuiti in egual misura per tutta la composizione della figura e per così dire si equilibrano. Laocoonte soffre, ma soffre come il Filottete di Sofocle: la sua rovina ci penetra l’anima; ma pure brameremmo poterla sopportare come questo grand’uomo. L’espressione di un’anima così grande va ben oltre la creazione della bella natura. L’artista dovette sentire nel proprio intimo la forza dello spirito che impresse nel marmo. La Grecia ebbe artisti e filosofi in una persona sola, e più di un Metrodoro. La filosofia porgeva la mano all’arte, e infuse nelle sue figure anime al di sopra del comune».
Lessing condivide l’opinione di Winckelmann secondo cui dal volto di Laocoonte il dolore non appare «con quel furore che si dovrebbe supporre vista la sua violenza». Dissente tuttavia dallo storico dell’arte in merito alla motivazione di tale disparità.
Come esempio di sofferenza paziente Winckelmann cita il Filottete di Sofocle, eppure, a ben vedere, nota Lessing, l’eroe sofocleo si lamenta e grida. Così come si lamentano e gridano gli eroi omerici. Persino il divino Marte, colpito dalla lancia di Diomede, grida come se diecimila guerrieri gridassero insieme.
«Per quanto Omero elevi i suoi eroi al di sopra della natura umana, essi le rimangono sempre fedeli quando si tratta della sensazione del dolore e dell’offesa, dell’espressione di tale sensazione con grida o lacrime, o con imprecazioni. Per le loro azioni sono esseri d’una schiatta superiore; per i loro sentimenti uomini veri».
Lo stoicismo è antiteatrale, afferma senza mezzi termini Lessing, e se è vero che il grido conseguenza di un terribile dolore fisico, nell’antica mentalità greca, non esclude la grandezza dell’animo, «allora l’espressione di un tale animo non sarà il motivo per cui l’artista nonostante ciò non ha voluto imitare nel marmo questo gridare». Dunque, conclude l’autore del celebre dramma Emilia Galotti, deve esserci un’altra ragione che ha indotto l’artista a prendere le distanze dal poeta, «il quale esprime a bella posta queste urla».
Secondo Lessing non si tratta di etica, ma di estetica. L’artista greco non segue che una sola, somma e suprema legge: la legge della bellezza. Egli rappresenta solo ed esclusivamente il bello, scopo ultimo dell’arte.
Determinate passioni deformano, e dunque abbruttiscono, il volto e il corpo in modo terribile, e da esse gli artisti antichi hanno preso le distanze, oppure le hanno ridotte a un grado esteticamente accettabile, comunque racchiudibile nella dimensione della bellezza. «Né il furore, né la disperazione deturparono le loro opere. […] L’ira la temperarono in serietà. […] Lo strazio era raddolcito in turbamento».
A sostegno della propria tesi Lessing cita il pittore greco antico Timante, e in particolar modo il suo sacrificio di Ifigenia, «in cui egli diede a tutti gli astanti il grado di tristezza che gli si addiceva propriamente, e coprì invece il volto del padre, che avrebbe dovuto manifestarne il grado massimo […]». C’è chi sostiene, ad esempio, che Timante comprese come in simili circostanze sommamente tragiche il dolore di un padre vada al di là di ogni espressione rappresentabile artisticamente. Lessing invece sottolinea come con il grado del sentimento si accentuino anche i tratti del volto – emozione ed espressione sono direttamente proporzionali -, ma «Timante conosceva i confini che le Grazie avevano posto alla sua arte. Egli sapeva che lo strazio che si addiceva ad Agamennone in qualità di padre si manifesta con stravolgimenti del volto che sono comunque brutti. […] Ciò che non poteva dipingere, lo lasciò indovinare. […] Questo nascondimento è un sacrificio che l’artista fece alla bellezza. Questo è un esempio, non di come si deve spingere l’espressione oltre i limiti dell’arte, ma di come la si deve far soggiacere alla prima legge dell’arte, alla legge della bellezza».
È a causa della legge della suprema bellezza, alla quale l’arte soggiace, che gli autori del gruppo scultoreo ridussero le grida in sospiri. Un punto di vista estetico questo, lontano anni luce dalla nostra epoca. E per comprendere appieno la distanza che separa il trattato di Lessing da molta, moltissima dell’arte successiva, basti ricordare un’opera: L’urlo di Edvard Munch, vero e proprio trionfo di quel grido, e di tutte le angosce che si trascina dietro, biasimato da Lessing.
I passi citati sono tratti da Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, a cura di Michele Cometa, Aesthetica edizioni, Palermo 2007.