Betrachtung, in italiano Contemplazione oppure Meditazione, è il primo volume di racconti pubblicato da Franz Kafka (1883-1924) nel 1913. In esso sono presenti, seppur in stato embrionale, quei temi narrativi che caratterizzeranno la successiva produzione letteraria del grande scrittore ceco.
La raccolta contiene 18 brevi prose molte delle quali rappresentano fugaci attimi di riflessione sull’esistenza umana. Eccezion fatta per il primo e l’ultimo dei racconti, la narrazione è scarna, ridotta all’osso, e per tale motivo si può a ragione utilizzare la definizione letteraria di apologo.
Il volume si apre con il racconto Fanciulli sulla via maestra, ed è dedicato al periodo senza dubbio più felice della vita di un uomo, l’unico che meriti davvero di essere vissuto: l’infanzia.
Fanciulli sulla via maestra
Udivo passare i veicoli dinanzi al cancello, talvolta li scorgevo persino, tra gli spazi vuoti, appena mossi, della siepe. Come scricchiolava, nella calda estate, il legno dei raggi e del timone! I braccianti tornavano dai campi e schiamazzavano vergognosamente.
Sedevo sulla nostra piccola altalena e mi riposavo tra gli alberi, nel giardino dei miei genitori. Di fronte al cancello era un continuo andirivieni. Bimbi correvano scomparendo in un baleno; carri di grano transitavano con uomini e donne sui covoni, oscurando le aiuole intorno; verso sera vidi passeggiare lentamente un signore con un bastone, e una coppia di ragazze, che gli veniva incontro, tenendosi a braccetto, s’inoltro salutando nell’erba vicina.
Poi alcuni uccelli saettarono verso l’alto, io li seguii con lo sguardo e li vidi salire in un baleno, infine ebbi la sensazione che non fossero loro a salire, bensì io a precipitare, tanto che mi strinsi alle corde e presi a dondolare lentamente. Quindi il moto dell’altalena si fece più rapido, mentre l’aria rinfrescava e al posto degli uccelli in volo fecero capolino alcune stelle tremolanti.
Mi servivano la cena a lume di candela. Spesso poggiavo entrambi i gomiti sulla tavola e, già stanco, mordevo il mio pane imburrato. Le tende, dalla trama larga, venivano sollevate dal vento tiepido e ogni tanto qualcuno le tratteneva se voleva vedermi meglio e parlare con me. In genere la candela si spegneva presto e per un po’ di tempo le zanzare che aveva radunato continuavano a ronzare attorno al funo scuro. Se uno m’interpellava dalla finestra lo guardavo come se fissassi i monti o l’aria e neppure lui sembrava attendersi una risposta.
Se qualcuno, però, superava il davanzale della finestra e avvertiva che gli altri erano già davanti alla casa, naturalmente mi alzavo, sospirando.
«Perché sospiri così? Che cosa ti è successo? Una grossa disgrazia, assolutamente irreparabile? Non ne potremmo più uscir fuori? Tutto è veramente perduto?»
Nulla era perduto. Correvamo davanti alla casa. «Eccovi, finalmente, grazie a Dio!» – «Tu arrivi sempre troppo tardi!» – «Perché io?» – «Tu, proprio tu, se non ti va di venire, resta a casa.» «Nessuna pietà!» – «Che cosa? Nessuna pietà? Ma come parli?»
Trafiggemmo la sera con il capo. Non c’era notte, né giorno. A volte i bottoni dei nostri panciotti si arrotavano tra loro come denti. A volte correvamo mantenendoci a uguale distanza, il fuoco in bocca, come animali dei tropici. Simili a corazzieri delle guerre di un tempo, calcando i piedi e la testa in aria, scendevano insieme le corte stradine e con la rincorsa nelle gambe risalivamo la via maestra. Alcuni traversavano l’argine, scomparivano dietro la scarpata buia ed emergevano, sembrando quasi degli estranei, sul sentiero di campagna elevato e guardavano in basso.
«Tornate giù!» – «Venite prima su!» – «Già, così voi ci buttate giù, non ci passa proprio per la testa, abbiamo ancora un po’ di giudizio!» – «Dite piuttosto che avete fifa. Avanti, venite!» – «Davvero? Voi? Proprio voi ci buttereste giù? È da vedersi!»
Partivamo all’assalto e, urtati sul petto, ci adagiavamo sull’erba dell’argine lasciandoci cadere volontariamente. La temperatura era uniforme, nell’erba non percepivamo né caldo, né freddo, ci sentivamo solo stanchi.
Coricandosi sul lato destro e ponendo la mano sotto l’orecchio si aveva voglia di dormire. In realtà avremmo voluto drizzarci ancora una volta a testa alta, per poi ricadere in un fossato più profondo. Quindi provavamo il desiderio di lanciarci contro l’aria, le braccia tese obliquamente e le gambe inclinate, per precipitare in un fossato sicuramente più profondo. E non avremmo smesso mai.
Non pensavamo affatto a distenderci completamente, soprattutto con le ginocchia, nell’ultimo fossato, per dormire sul serio e restavamo sdraiati sulla schiena, inclini al pianto quasi fossimo malati. Se un ragazzo con i gomiti stretti ai fianchi saltava sopra di noi, all’argine verso la strada, ostentando le suole scure, strizzavamo gli occhi.
La luna si era già alzata, una vettura di posta passò sotto la sua luce. Si levò anche un venticello percettibile persino nel fossato e il bosco vicino prese a stormire. Ora non si sentiva più il peso di essere soli.
«Dove siete?» – «Venite qui» – «Tutti insieme!»
– «Perché ti nascondi? Smettila con queste baggianate!»
– «Non sapete che la posta è già passata?» – «Già passata! Ma va!» – «Sicuro, è passata mentre tu dormivi.» – «Io dormivo? Ma che stai dicendo?» – «Sta’ zitto, basta guardarti in faccia.» – «Via, ti prego!» – «Vieni!»
Correvamo più vicini, alcuni si tenevano per mano, non era possibile mantenere il capo molto eretto, perché si andava in discesa. Uno lanciò un grido di guerra indiano, le nostre gambe si misero a galoppare a rotta di collo; mentre saltavamo, il vento ci sollevava i fianchi. Nulla avrebbe potuto fermarci; avevamo preso una tale rincorsa che persino quando ci superavamo a vicenda potevamo incrociare le braccia e guardarci intorno.
Ci fermammo sul ponte del torrente; quelli che ci avevano preceduto tornarono indietro. In basso l’acqua percuoteva le pietre e le radici, come se non fosse già sera inoltrata. Non v’era motivo che uno di noi non saltasse sulla spalletta del ponte.
Dietro i cespugli, in lontananza, passò un treno, tutti gli scompartimenti erano illuminati, i finestrini sicuramente abbassati. Uno di noi intonò una canzone scollacciata, ma tutti volevano cantare. Il nostro canto fu più veloce del treno, dondolavamo le braccia, poiché la voce non bastava, le nostre voci si fusero in una moltitudine di suoni in cui ci sentivamo bene. Quando si mescola la propria voce alle altre, è come essere catturati con un amo.
Cantammo così, con il bosco alle spalle, nelle orecchie dei viaggiatori lontani. In paese gli adulti vegliavano ancora, le madri sistemavano i letti per la notte.
Era ormai ora. Baciai quello che mi stava vicino, tesi fugacemente la mano ai tre più prossimi e mi avviai correndo lungo il cammino già percorso, nessuno mi richiamò. Al primo incrocio, quando non mi poterono più scorgere, mi girai e corsi lungo i viottoli per tornare in direzione del bosco. Volevo arrivare in quella città del meridione, di cui nel nostro villaggio si dice: «Laggiù c’è della gente, pensate, che non dorme mai!».
«Perché?»
«Perché non sono mai stanchi.»
«Perché no?»
«Perché sono folli.»
«E i folli non si stancano mai?»
«Come potrebbero stancarsi i folli?» [1]
Se volessimo identificare il fanciullo protagonista del racconto con lo stesso Kafka, potremmo dire che l’autore, bambino, ha raggiunto quella sera d’estate la misteriosa città del meridione, la città dei folli, e non è più tornato indietro. Da lì, ce l’ha raccontata.
In Fanciulli sulla via maestra si narra di un tempo sospeso, che non è più tempo, ma non c’è altro modo per definirlo. Il tempo degli spettri. Il tempo del passato, inconsistente e muto. E gli spettri che lo abitano siamo noi stessi. Gli spettri sono ciò che noi fummo e che non saremo mai più.
Nell’apologo intitolato Il passeggero sembra di leggere delle riflessioni di Josef K. oppure di Gregor Samsa, gli sfortunati protagonisti delle due grandi parabole scritte da Kafka: il romanzo Il processo (1925) e il racconto La metamorfosi (1915).
Il passeggero
Sono sopra una piattaforma di un tram e provo una sensazione di completa insicurezza nei riguardi della mia posizione in questo mondo, in città, nella mia famiglia. Non saprei dire neppure approssimativamente quali pretese potrei avanzare con ragione in un senso qualsiasi. Non sono in grado di giustificare il fatto di trovarmi su questa piattaforma, di reggermi a questa cinghia, di lasciarmi condurre da questo veicolo, né di spiegarmi perché la gente si scansi quando passa il tram oppure proceda indisturbata o si fermi dinanzi alle vetrine. Nessuno me ne chiede la ragione, ma ciò non ha importanza.
La vettura si avvicina a una fermata, una giovane si accosta all’uscita pronta a scendere. Mi appare con estrema evidenza, come se l’avessi toccata. È vestita di nero, le pieghe della sottana sono quasi immobili, la camicetta è attillata e ha un colletto di pizzo bianco a maglie sottili, la sua mano sinistra poggia sulla parete, l’ombrello nella destra è posato sul penultimo predellino in alto. Ha il viso bruno, il naso un poco sottile ai lati e tondo e largo in punta. La sua chioma bruna è folta e qualche capello è in disordine sulla tempia destra. Il suo minuscolo orecchio è ben aderente al capo, tuttavia standole tanto vicino scorgo la parte posteriore del padiglione destro e l’ombra accanto alla sua attaccatura.
A questo punto mi domando: perché non si stupisce di se stessa, tiene la bocca chiusa e non dice nulla di simile? [2]
In Betrachtung non manca un’interessante e insolitamente poetica definizione kafkiana dell’uomo, nell’apologo Gli alberi. Una definizione dell’uomo che si intreccia ad una considerazione sull’apparenza. Tutto, in fin dei conti, è apparenza.
Gli alberi
Giacché siamo come tronchi d’albero sulla neve. In apparenza essi giacciono semplicemente e una spintarella dovrebbe essere sufficiente a smuoverli. No, non è possibile, perché sono attaccati saldamente al suolo. Ma, guarda, anche ciò è solo apparenza. [3]
La raccolta si conclude con il racconto Essere infelici, ed ecco che gli spettri intravisti dal sottoscritto durante la lettura di Fanciulli sulla via maestra divengono i protagonisti. Nel racconto appare il tema kafkiano per eccellenza, quello dell’assurdità dell’esistenza, qui straordinariamente intrecciato al tema dell’atavica, dell’ingenita infelicità umana.
Essere infelici
Quando non ce la feci proprio più – una volta verso sera in novembre – e correvo, come se fosse una pista, sul tappeto sottile della mia stanza, voltandomi di nuovo, spaventato dalla visione della strada illuminata, e trovavo in fondo alla camera una meta nuova nella profondità dello specchio, gridavo solo per udire il grido al quale nulla risponde e nulla toglie la forza di gridare ed esso sale perciò senza contrappeso e non può cessare neppure quando ammutolisce, proprio in quel punto, nella parete stessa si aprì la porta, in fretta, perché la fretta era necessaria e persino i cavalli delle vetture, dabbasso, sul selciato, s’impennarono come cavalli impazziti durante la battaglia, con le gole abbandonate.
Come un piccolo fantasma, un bambino uscì dal corridoio completamente buio, nel quale la luce non era stata ancora accesa e rimase ritto sulla punta dei piedi sopra un’asse del pavimento, che dondolava impercettibilmente. Subito abbagliato dalla luce crepuscolare della stanza, volle coprirsi il volto con le mani, ma si rasserenò ben presto guardando verso la finestra, dove i vapori sospinti dall’illuminazione stradale si arrestavano finalmente sotto il peso dell’oscurità. Stava in piedi dinanzi la porta aperta poggiandosi col gomito destro alla parete della stanza, lasciando che la corrente d’aria gli lambisse le caviglie e il collo e le tempie.
L’osservai per qualche istante, poi dissi «buon giorno» e presi la mia giacca dal parafuoco, perché non mi andava di farmi vedere seminudo. Rimasi un po’ con la bocca spalancata, onde far uscire attraverso essa la mia eccitazione. Sentivo nella saliva un sapore sgradevole e le ciglia mi tremavano sul volto, in poche parole mi mancava soltanto quella visita, veramente attesa.
Il bambino era sempre nello stesso punto presso la parete, premeva la destra sul muro e con le guance imporporate non si saziava di contemplare quanto fosse rugosa la parete bianca sulla quale si era messo a strofinare la punta delle dita. Dissi: «È proprio da me che vuole venire? Non si tratta d’uno sbaglio? È facilissimo sbagliarsi in questa grande casa. Io mi chiamo così e così e abito al terzo piano. Sono proprio io, dunque, la persona che intende visitare?»
«Calma, calma!», esclamò il fanciullo con noncuranza, «è tutto esatto.»
«Allora entri nella stanza, vorrei chiudere la porta.»
«L’ho chiusa proprio adesso. Non si preoccupi, anzi si distenda.»
«Non mi parli di preoccupazioni. È che in questo corridoio abita una quantità di gente e, naturalmente, tutti sono miei conoscenti; la maggior parte torna ora dal lavoro; se sentono parlare in una stanza si credono in diritto di poter aprire la porta senza tanti complimenti per vedere che cosa stia succedendo. È proprio così; questa gente ha lasciato il proprio lavoro quotidiano, a chi mai assoggetterebbero nella provissoria libertà serale! D’altronde questo lo sa pure lei. Mi faccia chiudere la porta.»
«Che succede? Che ha? Per quanto mi riguarda potrebbe entrare tutta la casa. Inoltre le ripeto: ho già chiuso la porta, crede, forse, di essere l’unico capace di chiuderla? L’ho persino chiusa a chiave.»
«Allora va bene. Non chiedo di più. Comunque non c’era bisogno di chiuderla a chiave. Ora si accomodi, visto che è qui. Lei è mio ospite. Si fidi di me. Si sistemi senza alcun timore. Non la costringerò né a restare, né ad andarsene. C’è bisogno che lo dica? Mi conosce così poco?»
«No. Questo non l’avrebbe dovuto dire. Anzi non l’avrebbe dovuto dire assolutamente. Io sono un bambino, a che pro usare tanti complimenti con me?»
«Non è una faccenda tanto grave. Certo, un bambino. Lei, però non è tanto piccolo. Se fosse una fanciulla non dovrebbe rinchiudersi in una stanza insieme a me con tanta faciloneria.»
«Non diamoci pensiero per questo. Volevo dire soltanto: non mi sento particolarmente protetto per il semplice fatto di conoscerla tanto bene, questa circostanza le risparmia solo la fatica di mentirmi. Malgrado tutto, lei fa il complimentoso. La pianti, le impongo di piantarla. Aggiunga inoltre che io non la conosco ovunque e da sempre, soprattutto con questo buio. Sarebbe assai meglio che lei facesse un po’ di luce. No, forse è preferibile di no. Comunque non mancherò di tener presente che mi ha minacciato.»
«Come? Io l’avrei minacciata? Suvvia, la prego! Sono proprio contento che lei sia qui finalmente. Dico “finalmente”; perché è già tanto tardi. Non capisco la ragione per cui sia venuto così tardi. Può darsi che sia stata proprio la gioia a farmi esprimere male e lei abbia capito quindi una cosa del genere. Ammetto anche dieci volte di essermi espresso così; sì, l’ho minacciata di tutto quello che vuole. Purché non si debba litigare, per l’amor del cielo! Ma come può crederlo? Come ha potuto ferirmi a tal punto? Perché vuole per forza guastarmi questi pochi attimi della sua permanenza qui? Un estraneo sarebbe più comprensivo di lei.»
«Lo credo bene; non è una novità. Gentile quanto un estraneo lo sono già per natura con lei. E questo lei lo sa, perché dunque la malinconia? Dica che lei vuole recitare la commedia e io me ne vado istantaneamente.»
«Come? Osa dirmi anche questo? Lei è un po’ troppo ardito. In fin dei conti si trova nella mia stanza. Sta strofinando freneticamente le dita sulla mia parete. La mia stanza, la mia parete! E poi quanto sta dicendo è ridicolo, oltre che impertinente. Lei afferma che è la sua natura a spingerla a parlarmi in questo modo. Davvero? È la sua natura che la spinge? È molto gentile da parte della sua natura. Essendo, però, la sua natura anche la mia, se io per natura sono amabile con lei, lei deve fare lo stesso.»
«Secondo lei questo sarebbe essere amabili?»
«Mi riferivo a prima.»
«Sa lei come sarà dopo?»
«Io non so nulla.»
Mi avviai verso il comodino sul quale accesi una candela. Allora non avevo nella mia stanza né la luce a gas, né quella elettrica. Rimasi per qualche tempo seduto al tavolo, poi mi stancai anche di questo, m’infilai il cappotto, presi il cappello dal divano e spensi la candela. Mentre stavo uscendo inciampai nella gamba di una sedia.
Per le scale incontrai un inquilino che abitava allo stesso piano.
«Esce di nuovo, canaglia?» domandò, poggiandosi sulle gambe, che si trovavano su due gradini diversi.
«Che cosa dovrei fare?» dissi, «ho avuto ora uno spettro nella stanza».
«Lo dice con un tono d’insoddisfazione come se avesse trovato un pelo nella minestra».
«Lei scherza, ma tenga presente che uno spettro è uno spettro».
«Verissimo. Ma che accade se uno non crede affatto negli spettri?»
«Lei ritiene forse che io creda negli spettri? Ma a che cosa mi serve non credere?»
«È semplicissimo. Non deve avere, dunque, più paura se uno spettro viene veramente da lei».
«Sì, ma questa è una paura secondaria. La vera paura è quella della causa dell’apparizione. E questa paura rimane. La sento enormemente dentro di me».
Preso dal nervosismo cominciai a frugare tutte le mie tasche.
«Giacché non aveva paura dell’apparizione stessa, avrebbe potuto benissimo informarsi sulla sua causa!»
«Evidentemente lei non ha mai parlato con gli spettri. Da essi non è mai possibile ottenere un’informazione precisa. È una specie di tira e molla. Questi spettri sembrano dubitare, ancora più di noi, della loro esistenza, il che non dovrebbe recare meraviglia, se si tiene presente quanto sono effimeri».
«Ho sentito, però, che sia possibile nutrirli».
«A questo proposito la sua informazione è esatta. È possibile. Ma chi lo farebbe?»
«Perché no? Se si trattasse, per esempio, di uno spettro femminile» disse dondolandosi sul gradino superiore.
«Ah, già», dissi, «ma anche in questo caso non mi pare opportuno».
Mi misi a riflettere. Il mio conoscente era giunto così in alto che per vedermi doveva chinarsi sotto una volta delle scale. «Comunque», gridai, «se lei mi porta via il mio spettro lì in alto, tutto è finito tra noi, per sempre».
«Ma è stato solo uno scherzo», affermò ritirando il capo.
«Allora sta bene», dissi, ora sarei potuto andarmene tranquillamente a spasso. Però, sentendomi così solo, preferii risalire e mettermi a dormire. [4]
E se il bambino-spettro che appare al protagonista di Essere infelici fosse uno dei bambini sulla via maestra, colui che un tempo egli stesso fu e che non sarà mai più? Così la raccolta avrebbe un andamento circolare che prevede un inizio e una fine, una apertura e una chiusura. Ma forse si tratta solo di una suggestione. Del resto, quando si legge Kafka è sempre un trionfo della suggestione. Una suggestione sinistra, angosciante, inquietante, ma inarrivabilmente affascinante.
NOTE
[1] Trad. it. di Luigi Coppé, in F. Kafka, Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi, Newton Compton editori, Roma 2013, pp. 487-489.
[2] Ivi, pp. 493-494.
[3] Ivi, p. 496.
[4] Ivi, pp. 496-498.