Caproni in itinere. Parte VIII. Il passaggio d’Enea

Un corso di letteratura italiana contemporanea interamente dedicato alla poesia di Giorgio Caproni.

Una docente che oltre ad essere docente è anche poetessa, scrittrice e giornalista: Biancamaria Frabotta.

Uno studente: io.

E poi? Cos’altro? Appunti. Una pioggia di appunti.

Il passaggio d’Enea è la poesia che dà il titolo alla raccolta.

Significato di Caproni del suo Enea:

  • nell’articolo articolo Enea a Genova, pubblicato nel 1948, Caproni dichiara di non essere interessato al mito romano di Enea, è invece commosso dalla solitudine dell’eroe, figlio e padre quando non è ancora pronto per essere padre, posto al centro dell’azione, la guerra, nel momento della sua maggiore solitudine. Deve sostenere Anchise e Ascanio: al centro della sua solitudine;
  • nell’articolo Noi, Enea, pubblicato pochi mesi dopo, appare una seconda chiave di lettura dell’allegoria, che vede l’identificazione autore/personaggio, vedovo e orfano. Il poemetto viene pubblicato nel 1956, anno in cui Montale pubblica La bufera e altro;
  • nel 1956 senso generazionale di Enea;
  • nel 1975 Enea come uomo d’oggi;
  • intervista radiofonica del 1988, Enea povero uomo, simbolo dell’uomo d’oggi, Enea esule, mentre Ulisse torna a casa Enea perde la propria patria, è molto più tragico. Enea simbolo universale dell’esule, vedovo, orfano e senza patria (distrutta dalla guerra, dalla quale fugge), mito dell’esule.

Si tratta della più breve delle ballate in stanze (cinque stanze).

IL PASSAGGIO D’ENEA

1.
Didascalia

Fu in una casa rossa:
la Casa Cantoniera.
Mi ci trovai una sera
di tenebra, e pareva scossa
la mente da un transitare
continuo, come il mare.

Sentivo foglie secche,
nel buio, scricchiolare.
Attraversando le stecche
delle persiane, del mare
avevano la luminescenza
scheletri di luci rare.

Erano lampi erranti
d’ammotorati viandanti.
Frusciavano in me l’idea
che fosse il passaggio d’Enea.

2.
Versi

A l’accent familier
nous devinons le spectre.

La notte quali elastiche automobili
vagano nel profondo, e con i fari
accesi, deragliando sulle mobili
curve sterzate a secco, di lunari
vampe fanno spettrali le ramaglie
e tramano di scheletri di luce
i soffitti imbiancati? Fra le maglie
fitte d’un dormiveglia che conduce
il sangue a sabbie di verdi e fosforiche
prosciugazioni, ahi se colpisce l’occhio
della mente quel transito, e a teoriche
lo spinge dissennate cui il malocchio
fa da deus ex machina!… Leggèere
di metallo e di gas, le vive piume
celeri t’aggrediscono – l’acume
t’aprono in petto, e il fruscìo, delle vele.

T’aprono in petto le folli falene
accecate di luce, e nel silenzio
mortale delle molli cantilene
soffici delle gomme, entri nel denso
fantasma – entri nei lievi stritolii
lucidi del ghiaino che gremisce
le giunture dell’ossa, e in pigolii
minimi penetrando ove finisce
sul suo orlo la vita, là Euridice
tocchi cui nebulosa e sfatta casca
la palla morta di mano. E se dice
il sangue che c’è amore ancora, e schianta
inutilmente la tempia, oh le leghe
lunghe che ti trascinano – il rumore
di tenebra, in cui il battito del cuore
ti ferma in petto il fruscìo delle streghe.

Ti ferma in petto il richiamo d’Averno
che dai banchi di scuola ti sovrasta
metallurgico il senso, e in quell’eterno
rombo di fibre rotolanti a un’asta
assurda di chilometri, sui lidi
nubescenti di latte trovi requie
nell’assurdo delirio – trovi i gridi
spenti in un’acqua che appanna una quiete
senza umano riscontro, ed è nel raggio
d’ombra che di qua penetra i pensieri
che là prendono corpo, che al paesaggio
di siero, lungo i campi dei Cimmeri
del tuo occhio disfatto, riconosci
il tuo lèmure magro (il familiare
spettro della tua scienza) nel pulsare
di quei pistoni nel fitto dei boschi.

Nel pulsare del sangue del tuo Enea
solo nella catastrofe, cui sgalla
il piede ossuto la rossa fumea
bassa che arrazza il lido – Enea che in spalla
un passato che crolla tenta invano
di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo
ch’è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi ritto. Nell’avvampo
funebre d’una fuga su una rena
che scotta ancora di sangue, che scampo
può mai esserti il mare (la falena
verde dei fari bianchi) se con lui
senti di soprassalto che nel punto,
d’estrema solitudine, sei giunto
più esatto e incerto dei nostri anni bui?

Nel punto in cui, trascinando il fanale
rosso del suo calcagno, Enea un pontile
cerca che al lancinante occhio via mare
possa offrire altro suolo – possa offrire
al suo cuore vedovo (di padre,
di figlio – al cuore dell’ottenebrato
principe d’aquitania), oltre le magre
torri abolite l’imbarco sperato
da chiunque non vuol piegarsi. E,
con l’alba già spuntata a cancellare
sul soffitto quel transito, non è
certo un risveglio la luce che appare
timida sulla calce – il tremolio
scialbo del giorno in erba, in cui già un sole
che stenta a alzarsi allontana anche in cuore
di quei motori il perduto ronzio.

3.
Epilogo

Sentivo lo scricchiolio,
nel buio, delle mie scarpe:
sentivo quasi di talpe
seppellite un rodìo
sul volto, ma sentivo
già prossimo ventilare
anche il respiro del mare.

Era una sera di tenebra,
mi pare a Pegli, o a Sestri.
Avevo lasciato Genova
a piedi, e freschi
nel sangue i miei rancori
bruciavano, come amori.

M’approssimavo al mare
sentendomi annientare
dal pigolio delle scarpe:
sentendo già di barche
al largo un odore
di catrame e di notte
sciacquante, ma anche
sentendo già al sole, rotte,
le mie costole, bianche.

Avevo raggiunto la rena,
ma senza avere più lena.
Forse era il peso, nei panni,
dell’acqua dei miei anni. [1]

Didascalia. Caproni nelle sue carte: casa cantoniera su una rotabile. Seconda strofa fantasticheria romana. Descritto un dormiveglia che è anche un’allucinazione. Insonnia a Roma e allucinazione che si trovi a Genova. Rumore delle automobili e fari danno l’impressione di essere a Genova. Immaginazione marina che contrasta con la realtà romana in cui si trova; situazione di transito. Il passaggio è titolo e argomento della poesia. Nell’ultima strofa ecco la comparsa del nuovo vettore: dopo le biciclette, dopo la funicolare è il turno dell’automobile (gli ammotorati viandanti). Tutto ciò produce un fruscio mentale.

Epigrafe. Versi tratti dalla poesia Il viaggio di Baudelaire (poesia che conclude I fiori del male), che Caproni traduce, ma in prosa, secondo lui infatti la rima è intraducibile. Da questi due versi («Lo riconosci, eh, dall’accento quello spettro!») capiamo che ci stiamo per imbattere nel viaggio delle tenebre.

Prima stanza. Protagoniste della stanza sono le elastiche automobili, che ci danno l’impressione di vagare nel profondo. Nei primi quattro versi sistema rimico della ballata. La prima frase sintattica è un’interrogazione, e la domanda sembra essere fatta per iniziare un dialogo. Torna al dormiveglia con un fitto metaforeggiare. È un dormiveglia inquietante (prosciugazioni). Dopo abbiamo un’esclamazione, come accade nel pathos intellettivo, domanda ed esclamazione. È un transito mentale. Deus ex machina: il Dio sembra andare in macchina (ironia). Viaggio nel mare delle tenebre. Nella chiusura compare la clausola. Inizia la piccola sinfonia sui piccoli rumori Leggere di metallo e di gas). Richiamo rovesciato al suono delle biciclette (ritorno alla giovinezza): tornano le piume, ma ora sono aggressive. L’acume è caratteristico della maturità, non della giovinezza. Il fruscio richiama il rumore delle vele (tema del ritorno di Enea).

Seconda stanza. Fino a questo momento poche citazioni, ora ricchezza di rimandi e di citazioni. Rimandi e citazioni che Caproni non dichiara (si veda l’epigrafe). Citazioni dal VI libro dell’Eneide (Enea sprofonda nell’Averno). Caproni segue il precetto di T.S. Eliot: i poeti immaturi imitano, quelli maturi rubano. Si ruba, ma si dissimula. Preghiera di Enea sulla porta dell’Averno: chiede di rivedere il padre. La discesa funzione: divina e pietas (tipicamente virgiliana). Tra gli esempi Enea cita anche l’amore di Orfeo per Euridice. Euridice è la prima figura che compare. Euridice è l’ultima vocazione di Olga nella poesia di Caproni, lo dichiara egli stesso. Anadiplosi: corrispondenza tra l’ultimo verso della prima stanza e il primo verso della seconda stanza (meccanismo che si ripete in tutte le stanze eccetto che nella quarta). L’automobile è il vettore della modernità per eccellenza. Le streghe sono le automobili.

Terza stanza. Asta assurda ovvero gara o rincorsa di un di più (dagli appunti di Caproni). Paesaggio nordico, nebbioso. I Cimmeri sono una popolazione nordica. Sono presenti due montalismi: le folli falene accecate di luce, nella seconda stanza, che compaiono in Crisalide e in Dora Markus di Montale; lemure è un termine montaliano (nell’antica Roma i vaganti spiriti dei morti). Sono presenti accenni a Montale, Virgilio, Baudelaire. Dialogo tra Enea e Anchise nell’Eneide: interroga il padre sul destino delle anime distaccate dal corpo; concessione a poche anime di reincarnarsi. Nel Letè ci si smemora, oblio e memoria (Proust): è questo il familiare spettro della tua scienza? Ma è anche uno specchio.

Quarta stanza. La missione di Enea. È il cuore pulsante del poemetto e del Terzo libro, modello per una non trionfalistica filosofia della ricostruzione. Stanza del punto di estrema solitudine, stanza della solitudine. Enea è al centro della traballante missione.

A Genova, e precisamente a Piazza Bandiera, è presente una statua di Enea. Quando Caproni vi torna la piazza è rasa al suolo, ma la statua è ancora in piedi. Da ciò l’idea della poesia. Idea del fato.

Secondo De Robertis si tratta di epos domestico, secondo la Frabotta si tratta invece di epos della modernità (solitudine, scarsa condiscendenza interiore, figura eterna dell’esule, tenta invano di porre in salvo un passato che crolla).

Accenno ai metri antichi, all’Eneide (il passato). Attualità degli ultimi versi, attualità della domanda. Fuga su una rena: Enea si sta per imbarcare, si deve imbarcare. La falena verde dei fari bianchi: auto che ammoderna il mito.

Quinta stanza. Enea si imbarca. Principe d’Aquitania: riferimento criptato a El Desdichado (Il diseredato), poesia di Gérard de Nerval (1808-1855), esponente del romanticismo gotico che muore impiccandosi. Anche Montale scrive una poesia con questo titolo. È un tenebroso cavaliere errante che compare nel poemetto La terra desolata (1922) di Eliot, ed è da qui che Caproni lo ha rubato. In Nerval è un principe spodestato, protagonista di una storia decaduta, come Enea, come si sente Caproni. Un passato senza avvenire non è un passato storico, è solo una memoria. Quella di Nerval è una condizione metafisica. Principe d’Aquitania legato all’immagine del sole nero (malinconia). Si tratta di una refurtiva nascosta. Oltre le magre torri abolite: è il passato crollato. Nel finale compare la solita alba di Caproni. Risveglio che non è un risveglio. È la solita alba scialba. È il poemetto della solitudine e della fatica: il sole stenta ad alzarsi.

Epilogo. È un vero epilogo, ciò che viene dopo ci smarrisce. Il poeta recupera il suo io (nella didascalia e nell’epilogo), e non è un ammotorato viandante, ma cammina. Rimane lo scricchiolio delle scarpe, un rodio di talpe, è tutto quello che rimane. Caproni non ama il nulla, ama il poco, si accontenta del poco, come suggerisce Calvino. Fra l’amore per il mare e il rancore di aver lasciato il mare. Costole rotte: è la fatica, la fatica di questo passaggio. Raggiunge la terra senza avere più lena.

NOTE

[1] Giorgio Caproni, Il passaggio d’Enea, in Giorgio Caproni, Poesie 1932-1986, Garzanti, 1989, pp. 159-164.

Gli appuntamenti precedenti:

Caproni in itinere. Parte I
Caproni in itinere. Parte II
Caproni in itinere. Parte III
Caproni in itinere. Parte IV. Introduzione ai Lamenti
Caproni in itinere. Parte V. I lamenti
Caproni in itinere. Parte VI. Le biciclette
Caproni in itinere. Parte VII. Stanze della funicolare

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