Caproni in itinere. Parte IV. Introduzione ai Lamenti

Un corso di letteratura italiana contemporanea interamente dedicato alla poesia di Giorgio Caproni.

Una docente che oltre ad essere docente è anche poetessa, scrittrice e giornalista: Biancamaria Frabotta.

Uno studente: io.

E poi? Cos’altro? Appunti. Una pioggia di appunti.

Giorgio Caproni è un poeta che tende all’unità. Tutte le sue poesie lette e ascoltate come una sinfonia.

All’interno del Passaggio d’Enea, nella sezione Gli anni tedeschi, troviamo I lamenti (undici sonetti).

Lamento: religione e letteratura. Pianto di dolore per la morte di una persona. Pianto funebre dai riti religiosi delle origini (Libro delle Lamentazioni di Geremia). Nell’antica Roma era affidato alle prefiche (lamento su schemi metrici fissi), dunque lamento delegato, che non sorge spontaneo (crisi religiosa). Tradizione meridionale: il formulario è fisso, ma libertà nelle prefiche lucane.

Il lamento è un genere dalla durata ampia: il lamento di Achille per la morte di Patroclo [1] (libro diciottesimo dell’Iliade), il Pianto per Ignazio Sánchez Mejías di Garcia Lorca [2] (che Caproni traduce nell’antologia Poesia straniera del ‘900 curata da Bertolucci e pubblicata da Garzanti nel 1958 [3]).

I lamenti è un titolo fortemente connotato. Tra tradizione religioso-letteraria e tradizione musicale (il Lamento di Arianna di Monteverdi [4]).

I primi cinque Lamenti sono del 1947. Caproni li inizia a scrivere tra il 1944 e il 1945 (lamento vero e proprio durante la guerra).

Lamenti come spartiacque tra la vecchia e la nuova maniera.

Caproni, nella recensione a Salvatore Quasimodo (1901-1968), che dall’ermetismo passa alla poesia civile, dichiara che può esistere solo una poesia nella Resistenza e non della o sulla Resistenza.

Caproni dichiara di aver abolito gli spazi nei sonetti per ragioni di equilibrio architettonico e musicale. Quartine e terzine non sono autonome, non sono fine a se stesse, ma formano un unico giro. Architettura e musica saranno aspetti sempre presenti per giustificare la propria poesia.

Caproni pubblica nel 1947 tre articoli teorici in cui spiega, tra le altre cose, perché, relativamente alla sua poesia, parla di architettura.

Scrittura prefabbricata e linguaggio

Esiste una scrittura prefabbricata che non ammette libertà, come le abitazioni prefabbricate limitano l’architetto. La scrittura prefabbricata si caratterizza per i segni convenzionali. Climax: dal giornale al saggio, dal saggio al romanzo, dal romanzo alla poesia. Via via cresce la libertà dell’autore. L’assolutezza della libertà sta nel canto – poesia e musica -; il canto è linguaggio puro (invenzione libera dell’altra realtà che è il linguaggio).

Il quadrato della verità

Si apre con una citazione di Victor Hugo: «Dio ha creato l’universo, l’uomo l’ha nominato». Per Caproni si tratta di due universi distinti. Realtà parallela a quella della natura. La poesia descrittiva non esiste. Il linguaggio ha libertà e responsabilità, crea infatti una nuova realtà. Caproni parla ai neorealisti, secondo lui non si può fare scrittura descrittiva senza scadere in ciò che è standardizzato. Scrittura descrittiva che non serve a niente. Caproni parla della realtà naturale. Ciò che è in natura è inerte, per entrare in comunicazione Adamo l’ha nominato. Sprigionare energia potentemente attiva: il poeta. Le parole non sono natura e non sono neppure concetti. Le parole sono «polle di emozioni»: ovvero segni che non trasmettono nulla, ma generano un’emozione. Non basta avere buoni sentimenti per generare polle di emozioni. Polla: sorgente d’acqua che scaturisce dal terreno. Il lettore deve possedere sensibilità e cultura (conoscenza) per cogliere la polla.

Il poeta sta sul ponte che collega realtà e linguaggio, ponte sul quale transitano verità ed errori (ciò che è falso), sta al poeta non farli passare, perché uccidono l’altra realtà, la realtà della poesia, che è la verità della verità (ecco il quadrato della verità).

La precisione dei vocaboli ossia la Babele

Adamo ha nominato le cose. Bibbia: Adamo vede il cervo e lo chiama. Il cervo scappa. È qui, è in questo preciso istante che inizia l’esilio dall’Eden. Il peccato di Adamo è voler possedere il verbum (la parola) come forma di conoscenza. In questo modo si scaccia da sé dall’Eden. Adamo si perde nella foresta delle parole. Da ciò la torre di Babele. Adamo ha sacrificato al bisogno di conoscenza il peso di realtà che si ha nella poesia (non è conoscenza). Se l’essere non si accontenta di essere, ma vuole anche conoscere si esilia dalla verità, in un luogo dove vige la confusione, la confusione delle lingue. Elogio dei poeti contro i filosofi, che considerano secondaria la realtà della poesia.

Il ciclo di Lamenti è il nucleo fondante del terzo tempo della poesia di Caproni.

«È una poesia di ridotto spessore informativo e di intensa portata espressionistica». Surdic su Caproni.

Nelle stesse parole di Caproni ricorre spesso il termine esilio.

In un’intervista del 1965 Caproni spiega di aver smesso di suonare il violino a causa di un trauma nervoso. Spiega inoltre che la pratica musicale lo ha esercitato alla pazienza e alla scoperta dei sentimenti (propri e altrui).

Il Terzo libro viene pubblicato nel 1968. Nella prefazione Caproni dichiara che gli anni dal 1944 al 1954 sono di bianca e forsennata disperazione, eseguiti sulla quarta corda (toni più solenni); importanza formale.

Il violino è lo strumento più acuto tra gli archi.

Lamenti composti ed eseguiti sulla quarta corda di violino.

Disperata tensione metrica che provoca tortura in chi legge. Ogni strofa entra nell’altra scardinando (torsione). Torsione metrica controcorrente. Sonetto come tetto all’intima dissoluzione causata dalla guerra (dissoluzione non tanto personale, ma “sociale”).

Forsennata disperazione perché tutto gli crolla addosso (istituzioni, dunque anche la poesia). Allora ricorre alla musica, è un equivalente.

Modi tesi e sovraccarichi di esclamazioni e interrogazioni: ahi (canto e lamento); è tutto un enjambement (torsione); fortissimo grado di interazioni; i nomi si ripetono senza pudore, senza vergogna; salti la sintassi, salti il senso, ma la rima va seguita; Caproni ripete sempre le stesse parole (ricorsività lessicale, riduttiva componente tematica).

Il paesaggio di Lamenti è un deserto. Tutto diventa deserto (paesaggio costante nella poesia di Caproni, e la guerra ritorna come il fantasma di Olga).

Morte, vita (cuore, petto, pianto, gemito). Tornano sempre gli stessi elementi cittadini (bar, porte, portoni).

I termini tecnici della musica contribuiscono a ridurre lo spessore informativo.

Le parole non sono più utilizzate in funzione della comunicazione.

Il pensare in musica provoca un altro pensiero.

Effetti scardinanti.

Il timbro musicale è imitato lavorando molto sulla fonetica. Disseminazione di nessi fonetici minimali.

È tutto pensato. Dietro le polle c’è pensiero e tecnica.

Caproni nel 1975: non ho mai cercato schemi prefabbricati. Sonetto monoblocco, dissonante, stridente. Cita Stravinskij, che resta nel sistema dell’armonia, ma provoca effetti stridenti e dissonanze; Caproni fa lo stesso in poesia, equivalenza musica/poesia; la metrica è rispettata, ma il sonetto è violentato.

NOTE

[1]

Poi presero il pasto al campo; ma gli Achei
tutta la notte piansero Patroclo singhiozzando,
e fra loro il Pelide il lungo compianto iniziava,
le mani massacratrici sul petto all’amico posando,
gemendo fitto, come leone bella criniera
cui di sotto ha rapito i piccoli un cacciatore di cervi
nella densa foresta; e quello s’angoscia, ch’è giunto tardi,
e molte gole percorre cercando le tracce dell’uomo,
se le trovasse: lo prende aspra, terribile collera.
Così con grave gemito parlava fra i Mirmidoni Achille:
«Ohimè, vana parola davvero gettai quel giorno
incoraggiando l’eroe Menezio nel suo palazzo:
dicevo che il figlio ricco di gloria gli avrei ricondotto a Oponto,
distrutta Troia, partecipe del bottino.
Ma non tutti i pensieri compie agli uomini Zeus;
è fato che entrambi la stessa terra arrossiamo
qui in Troia; neppure me di ritorno
accoglierà nel palazzo il vecchio cavaliere Peleo,
né la madre Teti; ma qui ha da coprirmi la terra.
E poiché, o Patroclo, dopo di te scenderò sotto terra,
non ti darò sepoltura prima d’aver portato qui d’Ettore,
del tuo uccisore magnanimo, l’armi e la testa.
E davanti al tuo rogo dodici sgozzerò
figli illustri dei Teucri, irato per la tua morte.
Intanto presso le navi curve mi resterai così,
intorno a te le Troiane e le altocinte Dardanidi
piangeranno, di notte e di giorno, versando lacrime,
le schiave che noi guadagnammo con la forza e l’asta robusta,
atterrando opulente città di mortali».

Omero, Iliade, XVIII, vv. 314-342, versione di Rosa Calzecchi Onesti, Giulio Einaudi editore, Torino 2014.

[2]

1 – Il cozzo e la morte

Alle cinque della sera.
Eran le cinque in punto della sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.
Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l’ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combatton la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.
E una coscia con un corno desolato
alle cinque della sera.
Cominciarono i suoni di bordone
alle cinque della sera.
Le campane d’arsenico e il fumo
alle cinque della sera.
Negli angoli gruppi di silenzio
alle cinque della sera.
Solo il toro ha il cuore in alto!
alle cinque della sera.
Quando venne il sudore di neve
alle cinque della sera,
quando l’arena si coperse di iodio
alle cinque della sera,
la morte pose le uova nella ferita
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Alle cinque in punto della sera.
Una bara con ruote è il letto
alle cinque della sera.
Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie
alle cinque della sera.
Il toro già mugghiava dalla fronte
alle cinque della sera.
La stanza s’iridava d’agonia
alle cinque della sera.
Da lontano già viene la cancrena
alle cinque della sera.
Tromba di giglio per i verdi inguini
alle cinque della sera.
Le ferite bruciavan come soli
alle cinque della sera.
E la folla rompeva le finestre
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Ah, che terribili cinque della sera!
Eran le cinque a tutti gli orologi!
Eran le cinque in ombra della sera!

2 – Il sangue versato

Non voglio vederlo!
Di’ alla luna che venga,
ch’io non voglio vedere il sangue
d’Ignazio sopra l’arena.
Non voglio vederlo!
La luna spalancata.
Cavallo di quiete nubi,
e l’arena grigia del sonno
con salici sullo steccato.
Non voglio vederlo!
Il mio ricordo si brucia.
Ditelo ai gelsomini
con il loro piccolo bianco!
Non voglio vederlo!
La vacca del vecchio mondo
passava la sua triste lingua
sopra un muso di sangue
sparso sopra l’arena,
e i tori di Guisando,
quasi morte e quasi pietra,
muggirono come due secoli
stanchi di batter la terra.
No.
Non voglio vederlo!
Sui gradini salì Ignazio
con tutta la sua morte addosso.
Cercava l’alba,
ma l’alba non era.
Cerca il suo dritto profilo,
e il sogno lo disorienta.
Cercava il suo bel corpo
e trovò il suo sangue aperto.
Non ditemi di vederlo!
Non voglio sentir lo zampillo
ogni volta con meno forza:
questo getto che illumina
le gradinate e si rovescia
sopra il velluto e il cuoio
della folla assetata.
Chi mi grida d’affacciarmi?
Non ditemi di vederlo!
Non si chiusero i suoi occhi
quando vide le corna vicino,
ma le madri terribili
alzarono la testa.
E dagli allevamenti
venne un vento di voci segrete
che gridavano ai tori celesti,
mandriani di pallida nebbia.
Non ci fu principe di Siviglia
da poterglisi paragonare,
né spada come la sua spada
né cuore così vero.
Come un fiume di leoni
la sua forza meravigliosa,
e come un torso di marmo
la sua armoniosa prudenza.
Aria di Roma andalusa
gli profumava la testa
dove il suo riso era un nardo
di sale e d’intelligenza.
Che gran torero nell’arena!
Che buon montanaro sulle montagne!
Così delicato con con le spighe!
Così duro con gli speroni!
Così tenero con la rugiada!
Così abbagliante nella fiera!
Così tremendo con le ultime
banderillas di tenebra!
Ma ormai dorme senza fine.
Ormai i muschi e le erbe
aprono con dita sicure
il fiore del suo teschio.
E già viene cantando il suo sangue:
cantando per maremme e praterie,
sdrucciolando sulle corna intirizzite,
vacillando senz’anima nella nebbia,
inciampando in mille zoccoli
come una lunga, scura, triste lingua,
per formare una pozza d’agonia
vicino al Guadalquivir delle stelle.
Oh, bianco muro di Spagna!
Oh, nero toro di pena!
Oh, sangue forte d’Ignazio!
Oh, usignolo delle sue vene!
No.
Non voglio vederlo!
Non v’è calice che lo contenga,
non rondini che se lo bevano,
non v’è brina di luce che lo ghiacci,
né canto né diluvio di gigli,
non v’è cristallo che lo copra d’argento.
No.
Io non voglio vederlo!

3 – Corpo presente

La pietra è una fronte dove i sogni gemono
senz’aver acqua curva né cipressi ghiacciati.
La pietra è una spalla per portare il tempo
Con alberi di lagrime e nastri e pianeti.
Ho visto piogge grigie correre verso le onde
alzando le tenere braccia crivellate
per non esser prese dalla pietra stesa
che scioglie le loro membra senza bere il sangue.
Perché la pietra coglie semenze e nuvole,
scheletri d’allodole e lupi di penombre,
ma non dà suoni, né cristalli, né fuoco,
ma arene e arene e un’altra arena senza muri.
Ormai sta sulla pietra Ignazio il ben nato.
Ormai è finita. Che c’è? Contemplate la sua figura:
la morte l’ha coperto di pallidi zolfi
e gli ha messo una testa di scuro minotauro.
Ormai è finita. La pioggia entra nella sua bocca.
Il vento come pazzo il suo petto ha scavato,
e l’Amore, imbevuto di lacrime di neve,
si riscalda in cima agli allevamenti.
Cosa dicono? Un silenzio putrido riposa.
Siamo con un corpo presente che sfuma,
con una forma chiara che ebbe usignoli
e la vediamo riempirsi di buchi senza fondo.
Chi increspa il sudario? Non è vero quel che dice!
Qui nessuno canta, né piange nell’angolo,
né pianta gli speroni né spaventa il serpente:
qui non voglio altro che gli occhi rotondi
per veder questo corpo senza possibile riposo.
Voglio veder qui gli uomini di voce dura.
Quelli che domano cavalli e dominano i fiumi:
gli uomini cui risuona lo scheletro e cantano
con una bocca piena di sole e di rocce.
Qui li voglio vedere. Davanti alla pietra.
Davanti a questo corpo con le redini spezzate.
Voglio che mi mostrino l’uscita
per questo capitano legato dalla morte.
Voglio che mi insegnino un pianto come un fiume
ch’abbia dolci nebbie e profonde rive
per portar via il corpo di Ignazio e che si perda
senza ascoltare il doppio fiato dei tori.
Si perda nell’arena rotonda della luna
che finge, quando è bimba dolente, bestia immobile;
si perda nella notte senza canto dei pesci
e nel bianco spineto del fumo congelato.
Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti
perché s’abitui alla morte che porta.
Vattene, Ignazio. Non sentire il caldo bramito.
Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!

4 – Anima assente

Non ti conosce il toro né il fico,
né i cavalli né le formiche di casa tua.
Non ti conosce il bambino né la sera
perché sei morto per sempre.
Non ti conosce il dorso della pietra,
né il raso nero dove ti distruggi.
Non ti conosce il tuo ricordo muto
perché sei morto per sempre.
Verrà l’autunno con conchiglie,
uva di nebbia e monti aggruppati,
ma nessuno vorrà guardare i tuoi occhi
perché sei morto per sempre.
Perché sei morto per sempre,
come tutti i morti della Terra,
come tutti i morti che si scordano
in un mucchio di cani spenti.
Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto.
Canto per dopo il tuo profilo e la tua grazia.
L’insigne maturità della tua conoscenza.
Il tuo appetito di morte e il gusto della sua bocca.
La tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria.
Tarderà molto a nascere, se nasce,
un andaluso così chiaro, così ricco d’avventura.
Io canto la sua eleganza con parole che gemono
e ricordo una brezza triste negli ulivi.

Federico García Lorca, Lamento per Ignacio Sánchez Mejías, 1935.

[3] Giuliano Soria, A las cinco de la tarde: nove traduzioni italiane del Llanto por Ignacio Sánchez Mejías di Federico García Lorca, Edizioni Nuova Cultura, 2012.

[4] Questa l’invocazione con la quale si apre il Lamento di Arianna: «Lasciatemi morire, / lasciatemi morire, / e che volete voi, che mi conforte / in così dura sorte, / in così gran martire? / Lasciatemi morire».

Gli appuntamenti precedenti:

Caproni in itinere. Parte I
Caproni in itinere. Parte II
Caproni in itinere. Parte III

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