Un corso di letteratura italiana contemporanea interamente dedicato alla poesia di Giorgio Caproni.
Una docente che oltre ad essere docente è anche poetessa, scrittrice e giornalista: Biancamaria Frabotta.
Uno studente: io.
E poi? Cos’altro? Appunti. Una pioggia di appunti.
Primo tempo della poesia di Caproni: la poesia di Finzioni.
Nel 1938 scende a Roma e lascia la moglie a Genova (impossibilità economica). Maestro a Trastevere. Roma lo affascina, ma non la Roma barocca, che colpisce Ungaretti (Sentimento del Tempo), bensì la Roma classica.
Secondo tempo della poesia di Caproni: la raccolta Cronistoria (1943).
Nel 1939 viene richiamato alle armi. Nel 1940 partecipa alla campagna di Francia. La sua non è una guerra impegnativa.
Nel 1942 Caproni si accorge che la guerra è senza speranza. Il 1942 è un anno senza speranza. In questo stesso anno, successivo a quello in cui pubblica Finzioni, dà alle stampe un diario di guerra nel quale racconta la campagna di Francia, intitolato Giorni aperti. Non sembra una guerra sanguinosa. Sembra una spensierata scampagnata. Quando scrive questo diario Caproni crede ancora nella guerra. In Giorni aperti lucenti barlumi ungarettiani. Guerra come occasione per diventare uomini. Nella prefazione sembra quasi giustificarsi: riposo, ozio. Parla di assenza e di errore (come con Finzioni si assolve per questo peccato veniale). Questo diario non è una cosa vera. Questo diario non è vero, è una finzione (di nuovo). Finzione che diviene errore a causa della tematica trattata, la guerra. Caproni inizia a sentire il bisogno di dover chiudere la fase della finzione. C’è anche un po’ di paura nella sua giustificazione. La poetica della finzione è ampiamente primo-novecentesca.
Nel 1945 Caproni torna a Roma.
La raccolta Cronistoria è ambientata a Roma. Inaugura la fase del Caproni classicista. Si rivolge alla metrica classica per uscire finalmente dalle finzioni.
Non è il primo a ripristinare la metrica classica. Lo ha già fatto Umberto Saba.
Montale, Ungaretti, Gatto e gli ermetici utilizzano il sonetto.
Caproni stravolge il sonetto (intensa sperimentazione). Il sonetto è un tetto sotto il quale ripararsi quando le case crollano dopo essere state colpite dalle bombe. Sì, il sonetto è consolante.
Caproni definisce l’anno 1942 come «Il più chiuso a ogni nostra speranza».
I sonetti sono plurimi, numerosi. Innumerevoli sonetti che potrebbero continuare all’infinito.
La sezione di Cronistoria intitolata Sonetti dell’anniversario rappresenta la svolta. La protagonista è Olga, la fidanzata morta tra le sue braccia nel 1937. Olga è un fantasma che riappare ogni volta che affiorano i sensi di colpa: aver lasciato Genova, non aver pianto abbastanza Olga. Il fantasma torna periodicamente. Ma il più grande senso di colpa è essere sopravvissuto mentre l’amata è morta.
Roma come cimitero, Roma classica rovine, come divengono rovine le città italiane sotto i bombardamenti. Travertini bianchi come ossa.
Si pone a Caproni un problema etico (risolvere il contrasto finzione/errore). La guerra impone di scegliere tra finzione e realtà. È questo che lo porta a scrivere i Sonetti dell’anniversario. Il senso di colpa non viene rimosso, ma espresso. Caproni riprende il sonetto della prima poesia siciliana, il sonetto di Guinizzelli, ma senza pause tra le quartine e le terzine: egli lo chiama sonetto monoblocco, composto di un’unica strofa. Porta a un monologo delirante.
Cronistoria e in particolar modo la sezione Sonetti dell’anniversario piacquero molto agli ermetici, ma nei versi di Caproni non c’è nulla di ermetico.
Ha inizio l’esplorazione patetica.
Roma paesaggio sconvolto.
Quelli di Caproni sono sonetti unici nel Novecento letterario italiano.
I
Poco più su d’adolescenza ahi mite
fidanzata così completamente
morta. Sulle compagini sfinite
di tante pietre, una scienza demente
riduce già la storia: le nutrite
vampe delle cavalle alla mordente
rena di gioventù – le nostre unite
briglie, frenate nell’etere ardente
della rincorsa e al sonno ora allentate
sulle tue nocche per l’eterno. (O fu
anche il tuo nome una paglia in estate
strinata fra i papaveri – un di più
appena opposto alle corse accecate
per non sperdere a sangue ogni virtù?) [1]
Dentro ci esplode il pathos (interiezione, esclamazione e interrogazione retorica, si equivalgono, tratto caratteristico della poesia espressionista: il grido). Non c’è il controllo della ragione. La scienza è demente, e forse demente è la stessa poesia. Caproni avrebbe potuto scrivere centinaia di questi sonetti. Sonetti che si chiudono ognuno in una cerniera. Il pathos non esplode mai all’esterno, rimane dentro, deflagra e si esaurisce in se stesso. La sintassi è subordinata alla metrica. Forte sfiducia nella capacità comunicativa della poesia. Imprecisato senso apocalittico. Il sonetto è esplicitamente dedicato a Olga («fidanzata così completamente / morta»). Endecasillabi. Il «completamente» è giustificato solamente dalla rima con «demente». Le rime dominano. «compagini sfinite / di tante pietre»: è Roma. «le nutrite / vampe delle cavalle»: è la Maremma natia. «(O fu / anche il tuo nome una paglia in estate / strinata fra i papaveri»: fragilità del nome. Le rime dettano la conclusione. «fu», «di più», «virtù»: associare gli echi. La decodificazione delle due domande conclusive è impossibile.
Nel sonetto lo spazio è abolito per creare una determinata struttura architettonica. Le ragioni sono anche musicali e logiche. Caproni non vuole che le singole strofe si esauriscano in se stesse. Nei sonetti il giro è unico. Ogni verso è legato all’altro, si crea un solo tempo musicale. Caproni crea il sonetto monoblocco. È lo stesso Caproni a spiegarlo nel 1947. Il poeta non vuole l’autosufficienza delle singole strofe. Nulla sta mai in ordine.
ALBA
Amore mio, nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte [2].
Caproni spiega che la poesia è stata scritta verso la fine del 1945 a Roma, in una latteria vicino alla stazione, mentre attende la moglie. È cambiato tutto, è cambiato il tono, il sentimento, ma non lo sgomento. «Qua» è il pilone che sostiene e collega. Nei sonetti di Caproni c’è un disordine prestabilito, che non congela il sentimento espresso. Non c’è spazio per il delirio. Il lessico si è semplificato. «ermo» reminiscenza leopardiana (L’infinito). Nella prima Alba, in Come un’allegoria, mancava il sole, qui invece «sgorga», ma non fuga le morti. Sole sui morti. Sole sulle morti. «tremitìo tra i denti» immagine che ricorre anche in 1944. Sono due poesie sul battito dei denti.
NOTE
[1] Giorgio Caproni, Cronistoria, in Giorgio Caproni, Poesie 1932-1986, Garzanti, 1989, p. 97.
[2] Giorgio Caproni, Il passaggio d’Enea, in Giorgio Caproni, Poesie 1932-1986, Garzanti, 1989, p. 117.
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