È il 14 gennaio del 1506 quando dalle gravide viscere di Roma riemerge come per miracolo, tra lo sbigottimento e l’ammirazione generale, l’intera classicità, sotto forma del gruppo scultoreo del Laocoonte. Sì, proprio quel Laocoonte che Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, definisce la più grande opera d’arte mai creata:
«Né poi è di molto la fama della maggior parte, opponendosi alla libertà di certuni fra le opere notevoli la quantità degli artisti, perché non uno riceve la gloria né diversi possono ugualmente essere citati, come nel Laoconte, che è nel palazzo dell’imperatore Tito, opera che è da anteporre a tutte le cose dell’arte sia per la pittura sia per la scultura. Da un solo blocco per decisione di comune accordo i sommi artisti Agesandro, Polidoro e Atanodoro di Rodi fecero lui e i figli e i mirabili intrecci dei serpenti» [1].
Il ritrovamento suscita un’impressione straordinaria, e subito i più illustri umanisti dell’epoca celebrano l’opera, eccezionale testimonianza della longevità del modello dei classici.
Il mito del Laocoonte compare nel II libro dell’Eneide di Virgilio, e di seguito ripropongo proprio la lettura dei magnifici versi dedicati alla fine drammatica del sacerdote troiano e dei suoi due figli, punito da Atena per essersi opposto al dono del cavallo, pronunciando le celebri parole: «[…] ho timore dei Danai / anche se recano doni» [2].
Qui un nuovo avvenimento, più grande
e molto più orrendo, si offre agli sventurati, e turba i cuori
sorpresi. Laocoonte, sacerdote tratto a sorte a Nettuno,
immolava un grande toro presso le are solenni.
Ma ecco da Tenedo in coppia per le profonde acque
tranquille
– inorridisco a raccontarlo – due serpenti con immense
volute
incombono sul mare, e parimenti si dirigono alla riva;
i petti erti tra i flutti e le creste sanguigne
sovrastano le onde; tutta l’altra parte
sfiora il mare da tergo e incurva in spire gli enormi dorsi;
scroscia il gorgo schiumante. E già approdavano,
e iniettati di sangue e di fuoco gli occhi che ardevano,
lambivano con lingue vibrate le bocche sibilanti.
Fuggiamo esangui a quella vista. I serpenti con marcia sicura
si dirigono su Laocoonte; e prima l’uno e l’altro
serpente avvinghiano i piccoli corpi dei due figli
e li serrano, e a morsi si pascono delle misere membra;
poi afferrano e stringono in grandi spire
lui che sopraggiunge in aiuto e brandisce le armi;
avvintolo due volte alla vita, e attortisi al collo
due volte con le terga squamose, sovrastano con il capo
e con l’alte cervici. Egli si sforza di svellere
i nodi con la forza delle mani, cosparso le bende di sangue
corrotto e di nero veleno, e leva orrendi clamori
alle stelle: quali i muggiti d’un toro ferito che fugge
dall’ara, e scuote via dal collo la scure malcerta [3].
Il ritrovamento dell’impressionante gruppo scultoreo segna la cultura rinascimentale, e non solo a livello artistico, ma anche a livello letterario. Tra gli umanisti più importanti, che traggono ispirazione dal Laocoonte, troviamo Pietro Aretino (1492-1556). Egli si riferisce all’opera in almeno due occasioni, nella Vita di Santa Caterina Vergine (1540), dunque in una chiave religiosa, e nelle Lettere, in una chiave meno solenne e tendente al grottesco.
Nel così dir Caterina, la compagnia di coloro che dovevan esser sepolti non pure innanzi al suo punto, ma vivi e senza colpa, fu strassinata dentro alle fosse cupe, onde la vergine, rivolgendosi a quelli che per forza di molte destre pale la ricopersono in un momento con la prossima terra, gridò: «Ben penetreranno codesto suolo i meriti delle beate crature, perciò che la insolente perfidia di Massenzio può soffocare i corpi, ma non l’anime». Ciò detto benedisse il luogo, e segnatolo con la croce, ecco in un tratto rinchiuder nelle botti piene di serpi molti dei prefati cristiani. Né prima ci fur serrati, che si udì con che strepito, con che furore e con quai fischi i fieri animali se gli scagliarono addosso; ma, come quelli che ne avevan cura si credettero che gli aspedi fussero intenti a empiersi nelle carni cristiane, aprirono le gran botti, talché si vidde in che modo le crude bisce avevan concie le constanti membra. Veramente i morsi che potevano far risentire i marmi non altrimenti torcevano le persone dei martiri che si torcano le statue tocche dagli artigli dei minimi insetti. Laocoonte, sculto dalla man dotta dello stile antico, sente più dolore essendo sasso che non sentivano essi che erano di polpa, peroché eglino erano sì astratti nella certezza del premio che dovevano conseguir da Dio, che non si accorgevano del duolo che gli faceva provar Massenzio. Intanto [i] sibillanti serpi se gli rivolgevano intorno al collo quasi monili, pendendogli con le teste in sui petti a guisa di fermagli, e come edera avitichiandosigli per le braccia e per le coscie, circondandogli sopra i fianchi in foggia di terribile cintura. Ma il tosco passatogli oltre per le vene, enfiando tuttavia, gli privò tosto della solita effigie, e ingrossato loro questo membro e quello, d’uomini si trasformarono in mostri, ma non restando perciò d’invocare il Signore, esalarono il principale spirito insieme con l’ultimo fiato.
Dicesi che mentre l’anime dei pazienti salivano al Cielo, che da [un] nuvoletto più bianco e più splendido che la neve ferita dal sole, piovve nettare, onde Caterina tutta lieta disse in voce libera e alta: «Egli è pur vero che il veleno che hanno tolto i serpenti dallo empio cuor di Massenzio è l’ambrosia degli spiriti di quegli che per gustare il mele del Paradiso non ricusano di bere l’assenzio del mondo» [4].
Il sacerdote troiano, pur essendo di marmo, soffre molto di più dei martiri cristiani, e ciò perché nei cuori di questi ultimi brilla la certezza della ricompensa divina. Pietro Aretino in questo passo sottolinea quella che è la principale differenza tra la cultura classica e la cultura cristiana. Mentre la prima è tutta corpo, la seconda è tutta spiritualità. E si tratta di una spiritualità talmente elevata da rendere persino immuni dalle sofferenze fisiche più atroci.
Jacopo Sadoleto (1477-1547) dedica al gruppo scultoreo il carme, in lingua latina, Sulla statua di Laocoonte, tra l’altro pregevole esempio di ecfrasi [5].
Ecco, da un alto cumulo di terra, dalle sue viscere ricche di rovine
un lungo giorno ha riportato alla luce per la seconda volta
Laocoonte, che un tempo stava nelle sale regali
e ornava, Tito, i suoi penati.
Opera di un’arte divina; la dotta antichità
non ne poteva osservare una più nobile. Ora la rivedono,
liberata dalle tenebre, le alte mura della rinata Roma.
Che dire come cosa prima e più importante? Del miserevole padre
o dei figli gemelli? Oppure dei serpenti sinuosi
nelle spirali di terribile aspetto? Le code e le furie dei serpenti,
le ferite e i dolori veri nella pietra moribonda?
L’animo inorridisce a queste cose e dalla muta immagine
urta il petto una pietà mista a grande tremore.
In un lungo cerchio si avvolge la coppia dei serpenti infuocati
con doppie spirali, si aggira con sinuose volute
e stringe i corpi dei tre in un nodo molteplice.
A stento gli occhi sopportano di guardare questa fine
crudele e la morte feroce. Uno dei serpenti, guizzando, si dirige
su Laocoonte e lo avvolge tutto, in basso e in alto,
e infine gli ferisce il fianco con un morso rabbioso.
Il corpo rifugge la stretta: si vedono le membra torcersi
e il fianco piegato indietro per la ferita.
Spinto dal dolore pungente e dal morso dilaniante, egli
leva un gran gemito e, sforzandosi con tutte le forze di strappare i denti crudeli,
oppone, non più capace di sopportare, la sinistra contro il tergo del serpente:
i nervi si tendono e le forze, richiamate da ogni parte
del corpo, invano cercano di opporsi con uno sforzo estremo.
Non può sopportare lo strazio, e per la ferita dà gemiti affannosi.
Ma il serpente, strisciando indietro ripetutamente, si insinua
viscido e lega con un nodo contorto la parte più bassa delle ginocchia.
I polpacci si bloccano e mentre le spire stringono le membra
le gambe si gonfiano e le parti vitali inturgidiscono, perché, interrotte le
pulsazioni,
dilatano le vene livide di nero sangue.
E non meno quella forza crudele infierisce sui figli,
stringendoli in un intreccio rabbioso, e lacerandone le misere membra.
E già, cibandosi del petto insanguinato
di quello che invoca il padre con voce morente,
lo sorregge con l’abbraccio e il potente avvolgimento della spira,
e invece l’altro, che ha ancora il corpo intatto dai morsi,
mentre cerca di sottrarsi alla coda, tirando a sé i piedi,
inorridisce alla vista del misero padre, e guarda fisso verso di lui,
mentre un doppio timore trattiene nel dubbio
il pianto smisurato e la caduta delle lacrime.
E voi, o sommi artisti che avete concepito un’opera così grande
e brillante di lode eterna (sebbene anche con temi migliori
si possa acquistare fama eterna e voi potevate affidare
alla fama futura un’opera molto più brillante,
tuttavia alla lode è offerta qualunque possibilità:
rapire un talento e innalzarlo alle vette più alte),
voi i più grandi nel dare vita alla rigida pietra con figure vive
e a imprimere vivi sensi nel marmo palpitante:
vediamo il movimento, l’ira, il dolore,
e quasi sentiamo i gemiti. Vi innalzò una volta
l’illustre Rodi, da tempo lunghissimo è rimasta nell’oscurità
la bellezza della vostra arte, che la Seconda Roma vede di nuovo alla luce,
celebrandola più volte: la grazia dell’opera antica
è stata concepita con una nuova accezione. Quanto più alto,
dunque, è prolungare il destino con l’ingegno e con qualche fatica
che estendere il fasto, la ricchezza e il vuoto lusso [6].
Jacopo Sadoleto si serve del gruppo scultoreo per sollevare una questione morale riguardante la fama. Egli elogia l’eterna fama frutto dell’ingegno, propria degli artisti, contrapponendola alla fama temporale dovuta alla ricchezza e al lusso, che non eternano l’uomo tanto quanto lo eterna l’arte. Nel carme di Sadoleto sono numerosi i richiami ai versi di Virgilio, ed è splendido il modo in cui egli segue i movimenti dei sinuosi serpenti.
Concludo l’articolo proponendo infine la lettura del sonetto Poi che ‘l Fattor delle lucenti stelle di Benvenuto Cellini (1500-1571).
Poi che ‘l Fattor delle lucenti stelle
dispose veder ir le fiamme al cielo
della città, ch’il bel signor di Delo
e Nettunno formâr fra le più belle,
delle genti troiane ingrate e felle
agli occhi pose un nubiloso velo,
quando ferì di Laocoonte il telo
del palladio caval la finta pelle;
la fede tolse di Cassandra al grido,
e spinse con tranquillo fiato il legno
dell’adultero Pari al greco lido.
Guai a quella città, guai a quel regno
che prende e dice:–Io sol di me mi fido,
dell’uom prudente il buon consiglio a sdegno–.
Attraverso l’esempio della tragica fine di Laocoonte e dei suoi due figli, Cellini ammonisce coloro i quali non ascoltano i consigli degli uomini virtuosi e saggi. I Troiani infatti, suggestionati dalla morte orribile del sacerdote, introducono il cavallo all’interno della città, firmando così la loro condanna a morte.
NOTE
[1] Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXVI, 37.
[2] Virgilio, Eneide, trad. it. di Luca Canali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1985, vv. 49-50.
[3] Ivi, vv. 199-224.
[4] Salvatore Settis, Laocoonte. Fama e stile, Donzelli (collana Virgolette), 2006.
[5] L’ecfrasi è la descrizione di un’opera d’arte. Tra gli esempi più noti, ricordo la descrizione dello scudo di Achille nell’Iliade di Omero, e la celebre poesia di Keats Ode su un’urna greca.
[6] Francesco Buranelli, Il Laocoonte di Agesandro, Polidoro e Atenadoro da Rodi. Atlante fotografico, L’Erma di Bretschneider (collana Cataloghi mostre), 2006.