Dopo aver esaminato la vita e la poetica di Jacopone da Todi (1236 circa – 1306), ci apprestiamo a concludere il discorso relativo al religioso umbro proponendo la lettura e l’analisi di alcuni dei suoi componimenti più significativi, tratti dalla sua raccolta di Laude, la cui editio princeps, ovvero la prima edizione a stampa, risale al 1490.
O IUBELO DE CORE
O iubelo de core,
che fai cantar d’amore!
Quanno iubel se scalda,
sì fa l’omo cantare;
e la lengua barbaglia,
non sa que se parlare;
drento no ’ pò celare
(tant’è granne!) el dolzore.
Quanno iubel c’è acceso,
sì fa l’omo clamare.
lo cor d’amor è apreso,
che no ’l pò comportare;
stridenno el fa gridare
e non virgogna allore.
Quanno iubelo à preso
lo core ennamorato,
la gente l’à ’n deriso,
pensanno el so parlato,
parlanno esmesurato
de que sente calore.
O iubel, dolce gaudio,
ch’è’ drento ne la mente!
Lo cor deventa savio,
celar so convenente;
non pò esser sofferente
che non faccia clamore.
Chi non à costumanza
te reputa empazzito,
vedenno esvalïanza
com’om ch’è desvanito.
Drent’à lo cor firito,
non se sente de fore.
Se, come emerge dal componimento O Segnor, per cortesia, il corpo non è che una fonte di peccato e depravazione meritevole di essere mortificata con ogni mezzo, se la società non è che un coacervo di ipocrisie ed interessi egoistici, se neppure l’aldilà è una prospettiva consolante, a Jacopone non resta che l’amore mistico per Dio, posto al centro della ballata O iubelo de core.
Un amore intenso, impetuoso, che rappresenta l’unico spiraglio di luce nel pensiero pessimistico del religioso, fondato sul contemptus mundi (“disprezzo del mondo”), e ha in sé tratti della passione carnale, erotica. Ed il poeta non si astrae, non prende le distanze da questo amore totalizzante, non lo canta con lucido e razionale distacco, ma si lascia coinvolgere, o meglio, travolgere. Jacopone scaraventa fuori di sé i versi come se fossero delle grida, delle grida di esaltazione spirituale e di godimento fisico che lacerano il silenzio e la carta.
Ciò che agita il cuore del poeta è qualcosa di inesprimibile, di ineffabile, eppure egli si sforza con tutto se stesso di definirlo, di dargli una forma e questo impegno dà vita ad una struttura lirica particolare, originale, caratterizzata dalla ripetizione quasi ossessiva dei nuclei concettuali fondamentali: l’ardore del sentimento, causa di una gioia incontenibile; la sua forza, che porta il religioso ad urlare; la difficoltà di esprimere a parole la grandezza dell’esperienza amorosa; la solitudine dell’anacoreta preda di una tale, eccentrica passione fuori dal comune.
In questo senso la sintassi non può essere in alcun modo regolare, ma sfilacciata e nervosa, asservita all’impeto sentimentale del religioso, in una sorta di embrionale flusso di coscienza. Le parole spezzano gli argini, come un fiume in piena, fuoriescono dall’animo di Jacopone irruente ed aggressive, senza alcuna mediazione formale.
In copertina: Gustave Doré, Rosa celeste (illustrazione del XXXI canto del Paradiso di Dante), XIX secolo.