Dopo aver approfondito la vicenda biografica di Jacopone da Todi (1236 circa – 1306), quest’oggi spostiamo la nostra attenzione sulla poetica del religioso. Leggendo le sue Laude l’aspetto che emerge con maggiore chiarezza è senza dubbio l’odio feroce, ossessivo ed inquietante nei confronti del proprio corpo, visto come un pericoloso rivale dal quale scaturiscono la tentazione, il male ed il peccato.
L’intera produzione letteraria di Jacopone si caratterizza inoltre per un marcato, brutale e nero pessimismo, e per il contemptus mundi, ovvero il disprezzo del mondo. In tal senso, non a caso il frate si sofferma solo ed esclusivamente sugli aspetti più oscuri dell’esistenza umana quali il dolore, ed in particolar modo il dolore fisico, la depravazione, il peccato e la morte. Da ciò ne deriva un linguaggio crudo, aspro, a tratti violento – che ricorda quello utilizzato da Dante nell’Inferno – che si allontana clamorosamente dalla contemporanea poesia cortese, caratterizzata dall’esaltazione dei sentimenti e dall’idealizzazione della realtà e, soprattutto, della donna oggetto d’amore e venerazione. Non solo, Jacopone prende le distanze persino dalla poetica francescana, ben più conciliante e piana, serena ed eterea.
Il religioso umbro rifiuta con sdegno la vita sociale, secondo il suo radicale punto di vista dominata solamente dall’egoismo, dall’interesse, dall’ambizione, dal desiderio, dall’ipocrisia, dal peccato. Jacopone, volendo colpire la società, si umilia dinanzi ad essa senza ritegno, incurante delle convenzioni e della propria reputazione: si reca alle feste completamente nudo, procedendo carponi, con una sella d’asino sulla schiena, oppure cosparso d’unguento e avvolto da un manto di piume. E quello che può sembrare il comportamento di un pazzo furioso, si rivela in realtà una spietata critica della vita associata e dell’uomo. L’uomo, bestia tra le bestie e nulla di più.
Jacopone si scaglia con veemenza contro la cultura e l’intellettualismo, sottili forme di vanità fine a se stesse attraverso le quali è impossibili raggiungere la verità di Dio, polemizza contro la Chiesa e la sua deriva temporale, giungendo persino ad opporsi fisicamente a Bonifacio VIII. Opposizione che paga a caro prezzo, con il carcere e, soprattutto, con la scomunica.
Egli brama un completo ascetismo e mortifica, avvilisce il proprio corpo con il digiuno, l’insonnia forzata, l’auto-flagellazione. Il suo scopo è annientare, attraverso i mezzi più brutali e disumani, la dimensione terrena per approdare a quella celeste. In questo senso non mancano bagliori di luce: in primis uno sconfinato amore per Dio. Un amore impetuoso e passionale, ardente e totale, che conduce alle lacrime e all’esaltazione. E nei versi che cantano un tale amore la parola si spezza, rotta dall’emozione e dall’aspirazione, e trionfa un elevato lirismo.
Un ultimo aspetto della produzione poetica di Jacopone che merita di essere sottolineato, si riferisce alla lingua da lui utilizzata nei suoi intensi componimenti. Abbiamo visto come egli rifiuti l’alta società, la cultura, l’intellettualismo. Ebbene, ciò lo porta ad allontanarsi dal cosiddetto volgare illustre e ad avvicinarsi al dialetto umbro, impreziosito, ingentilito dall’utilizzo di provenzalismi e di latinismi, che tuttavia non si pongono l’obiettivo di elevare il registro stilistico, ma di renderlo ancor più vario e dunque di maggior impatto.
In copertina: Albrecht Dürer (1471-1528), Re David penitente.