La terra ha mille patimenti. Su ogni creatura pesa un sasso o un ramo stroncato o una foglia più grande o il terriccio d’una talpa o il passo di qualche animale.
Scipio Slataper, Il mio Carso, 1912.
Cenni biografici
Scipio Slataper nasce il 14 luglio del 1888 a Trieste. Conseguito il diploma si trasferisce a Firenze, per via degli studi universitari. Si laurea in Lettere, con una tesi dedicata al drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828-1906). Nel capoluogo toscano inizia la produttiva collaborazione con la celebre rivista fondata da Papini e Prezzolini La Voce. Per il giornale pubblica bozzetti, recensioni critiche e note polemiche.
Torna a Trieste, e nel 1913 sposa Gigetta Carniel, dalla quale ha un figlio. Inizialmente assume posizioni critiche rispetto alle tesi irredentiste, salvo cambiare idea allo scoppio della Prima guerra mondiale. Convinto sostenitore del conflitto, insieme a molti altri concittadini si arruola come volontario, fino a raggiungere il grado di sottotenente nel primo reggimento dei Granatieri di Sardegna. Muore giovanissimo, combattendo sul Monte Podgora, il 3 dicembre del 1915.
Per il sacrificio, gli viene conferita la medaglia d’argento al valor militare. Singolare come a suo figlio, qualche anno più tardi, spetterà un analogo destino. Arruolato nella Divisione Julia infatti, Scipio Slataper, stesso nome del padre, risulterà disperso in Russia durante la ritirata del 1942-1943, in piena Seconda guerra mondiale.
Le opere
– Lettere triestine
Lettere triestine (1909) è un volume contenente cinque articoli pubblicati da Slataper sulla rivista La Voce dal 1 febbraio al 22 aprile 1909. Caratterizzati da un linguaggio fortemente ironico, analizzano la situazione culturale della Trieste dell’epoca, ponendo in particolar modo l’attenzione sulle mancanze della città. Questi scritti d’inchiesta di Slataper danno il via a reporter più o meno periodici incentrati sulla condizione delle città italiane, ed eseguiti dagli autori del giornale fiorentino. Quel che emerge dagli articoli è una visione negativa di Trieste, tanto negativa che gli abitanti reagiscono sdegnati alle accuse mosse dal loro concittadino.
– Il mio Carso
Il mio Carso, pubblicato nella Libreria della Voce nel 1912, è senza dubbio l’opera più importante e celebre di Slataper. Unico romanzo della sua esigua produzione letteraria, è elaborato sotto forma di autobiografia lirica, ed è diviso in tre sezioni corrispondenti ai tre periodi principali della vita dell’autore: l’infanzia, la giovinezza e la maturità.
Il fulcro dell’opera è rappresentato dalla disperazione provata dallo scrittore-personaggio a causa del suicidio della donna follemente amata e della morte della madre. Ne consegue un lungo, a tratti esasperato dramma interiore che tuttavia si conclude positivamente: la vita viene accettata per quella che è, moderata da principi riconducibili ad un volontarismo etico. Tutto il libro è attraversato dal confronto, più o meno evidente, tra la natura – rappresentata proprio dal Carso – e la città. Quest’ultima corrotta, malata e sordida non può reggere il confronto con la purezza e l’autenticità di un sano paesaggio naturale.
La prosa di Slataper oscilla tra la forma narrativa e quella diaristica, contaminata inoltre da elementi di lirismo ed idillio rievocati soprattutto nelle frequenti celebrazioni del paesaggio carsico.
– La tesi su Ibsen
Come già visto nei cenni biografici, Slataper si laureò a Firenze in Lettere con una tesi su Ibsen. Tale studio critico è un’analisi totale, dunque sia biografica che poetica, del drammaturgo norvegese. L’autore triestino opera una simbolica e significativa contrapposizione tra mondo ibseniano e mondo shakespeariano. L’importanza della tesi di Slataper è confermata dal fatto che ancora oggi il suo lavoro sia una tappa fondamentale per chiunque voglia dedicarsi all’analisi dell’opera di Ibsen.
Un brano
Di seguito, il brano conclusivo dell’opera Il mio Carso, in cui il dramma interiore che ha caratterizzato le pagine precedenti sfocia in un epilogo positivo.
«Carso, che sei duro e buono! Non hai riposo, e stai nudo al ghiaccio e all’agosto, mio carso, rotto e affannoso verso una linea di montagne per correre a una meta; ma le montagne si frantumano, la valle si rinchiude, il torrente sparisce nel suolo.
Tutta l’acqua s’inabissa nelle spaccature; e il lichene secco ingrigia sulla roccia bianca, gli occhi vacillano nell’inferno d’agosto. Non c’è tregua.
Il mio carso è duro e buono. Ogni suo filo d’erba ha spaccato la roccia per spuntare, ogni suo fiore ha bevuto l’arsura per aprirsi. Per questo il suo latte è sano e il suo miele odoroso.
Egli è senza polpa. Ma ogni autunno un’altra foglia bruna si disvegeta nei suoi incassi, e la sua poca terra rossastra sa ancora di pietra e di ferro. Egli è nuovo ed eterno. E ogni tanto s’apre in lui una quieta dolina, ed egli riposa infantilmente fra i peschi rossi e le pannocchie canneggianti.
Disteso sul tuo grembo io ti sento lontanar nel profondo l’acqua raccolta dai tuoi abissi, una sola acqua, e fresca, che porta la tua giovane salute al mare e alla città.
L’acqua delle tue grotte io amo che s’incanala benefica per le strade dritte. Amo queste donne carsoline che stringendo fra i denti, contro la bora, la cocca del fazzolettone, scendono a gruppi in città, con in testa il grande vaso nichelato pieno di latte caldo. E la striscia bianca dell’alba, e il bruciar doloroso dell’aurora fra la caligine della città.
Qui è ordine e lavoro. In Puntofranco alle sei di mattina l’infreddito pilota di turno, gli occhi opachi dalla veglia, saluta il custode delle chiavi che apre il magazzino attrezzi. I grandi bovi bruni e neri trainano lentamente vagoni vuoti vicino ai piroscafi arrivati iersera; e quando i vagoni sono al loro posto, alle sei e dieci i facchini si sparpagliano per gli hangars. Hanno in tasca la pipa e un pezzo di pane. Il capo d’una ganga monta su un terrazzo di carico, intorno a lui s’accalcano più di duecento uomini con i libretti di lavoro levati in alto, e gridano d’essere ingaggiati. Il capo ganga strappa, scegliendo rapidamente, quanti libretti gli occorrono, poi va via seguito dagli ingaggiati. Gli altri stanno zitti, e si risparpagliano. Pochi minuti prima delle sei e mezzo il meccanico con la blusa turchina sale sulla scaletta della gru, e apre la pressione dell’acqua; e infine, ultimi, arrivano i carri, lunghi scaloni sobbalzanti e fracassanti. Il sole strabocca aranciato sul rettifilo grigio dei magazzini. Il sole è chiaro nel mare e nella città. Sulle rive Trieste si sveglia piena di moto e colori.
E levan l’ancora i grossi piroscafi nostri verso Salonicco e Bombay. E domani le locomotive rintroneranno il ponte di ferro sulla Moldava e si cacceranno con l’Elba dentro la Germania.
E anche noi ubbidiremo alla nostra legge. Viaggeremo incerti e nostalgici, spinti da desiderosi ricordi che non troveremo nostri in nessun posto. Di dove venimmo? Lontana è la patria e il nido disfatto. Ma commossi d’amore torneremo alla patria nostra Trieste, e di qui cominceremo.
Noi vogliamo bene a Trieste per l’anima in tormento che ci ha data. Essa ci strappa dai nostri piccoli dolori, e ci fa suoi, e ci fa fratelli di tutte le patrie combattute. Essa ci ha tirato su per la lotta e il dovere. E se da queste piante d’Africa e Asia che le sue merci seminano fra i magazzini, se dalla sua Borsa dove il telegrafo di Turchia e Portorico batte calmo la nuova base di ricchezza, se dal suo sforzo di vita, dalla sua anima crucciata e rotta s’afferma nel mondo una nuova volontà, Trieste è benedetta d’averci fatto vivere senza pace nè gloria. Noi ti vogliamo bene e ti benediciamo, perchè siamo contenti di magari morire nel tuo fuoco.
Noi andremo nel mondo soffrendo con te. Perchè noi amiamo la vita nuova che ci spetta. Essa è forte e dolorosa. Dobbiamo patire e tacere. Dobbiamo essere nella solitudine in città straniera, quando s’invidia il carrettiere bestemmiante nella lingua compresa da tutti attorno, e andando sconsolati di sera fra visi sconosciuti che non si sognano della nostra esistenza, s’alza lo sguardo oltre le case impenetrabili, tremando di pianto e di gloria. Noi dobbiamo spasimare sotto la nostra piccola possibilità umana, incapaci di chetare il singhiozzo d’una sorella e di rimettere in via il compagno che s’è buttato in disparte e chiede: ― Perchè?
Ah, fratelli come sarebbe bello poter esser sicuri e superbi, e godere della propria intelligenza, saccheggiare i grandi campi rigogliosi con la giovine forza, e sapere e comandare e possedere! Ma noi, tesi di orgoglio, con il cuore che ci scotta di vergogna, vi tendiamo la mano, e vi preghiamo d’esser giusti con noi, come noi cerchiamo di esser giusti con voi. Perchè noi vi amiamo, fratelli, e speriamo che ci amerete. Noi vogliamo amare e lavorare».
Scipio Slataper, Il mio Carso, 1912.