I lanzichenecchi non hanno mai lasciato Roma, appaiono solamente in una nuova veste.
È il mattino del 6 maggio 1527. Una nebbia fitta avvolge Roma, ancora assonnata, inconsapevole della dolorosa umiliazione che la attende.
Siamo nella seconda fase del conflitto franco asburgico, e le truppe spagnole ed imperiali di Carlo V d’Asburgo (1500-1558) [1] – tra le cui fila compaiono i feroci lanzichenecchi, mercenari assetati di violenza – assaltano la città. Le esigue forze dello Stato pontificio non riescono ad opporsi, e gli invasori dilagano.
Dalle finestre di Castel Sant’Angelo – la nebbia si è oramai diradata – Clemente VII (1478-1534), appena fuggito dal Vaticano, assiste impotente allo scempio. I lanzichenecchi, in ogni via spiccano i loro pennacchi singolari e fanno rabbrividire dal terrore, devastano Roma, la mortificano e la offendono. Ovunque vasti incendi, massacri, furti, sfregi, brutalità, malversazioni, soprusi, stupri. Case devastate, chiese depredate, preziosi documenti distrutti, i cui brandelli vengono utilizzati nelle stalle al posto della paglia.
Dimostrando una malvagità, diciamo così, particolarmente raffinata, i lanzichenecchi si accaniscono con ferocia contro gli oggetti sacri. Fanno prigionieri ricchi signori ed agiati cardinali, vittime di tormentose sevizie e liberi solamente dietro il pagamento di ingenti riscatti.
Di seguito, proponiamo la lettura di due brevi testi tratti dalle memorie di un capitano e di un soldato semplice dell’esercito imperiale protagonista del devastante sacco. Mentre nel primo brano viene descritta l’occupazione di Roma, nel secondo si narra dell’assalto alle chiese. Beffarda e schernevole la frase che conclude il primo testo: «Siamo tutti ricchi».
«Il 6 maggio abbiamo preso d’assalto Roma, ucciso seimila uomini, saccheggiato le case, portato via quello che trovavamo nelle chiese e dappertutto, e finalmente incendiato una buona parte della città. Strana vita davvero! Abbiamo lacerato, distrutto gli atti dei copisti, i registri, le lettere, i documenti della curia. Il papa è fuggito in Castel Sant’Angelo con la sua guardia del corpo, cardinali, vescovi, abitanti di Roma e membri della curia sfuggiti al massacro. L’abbiamo assediato per tre settimane fino a che, spinto dalla fame, dovette consegnare il castello. Quattro capitani spagnoli, fra cui un nobile, l’abate de Najera, e un segretario imperiale, sono stati delegati dal principe d’Orange per la consegna del castello. Il che fu fatto. Là abbiamo trovato il papa Clemente con dodici cardinali in un ripostiglio. Il papa ha dovuto firmare la convenzione di resa che gli ha letto il segretario. Tutti si lamentavano miseramente; piangevano molto. Siamo tutti ricchi.
Si sono ricercate le bolle papali, le lettere e i registri nei monasteri e nei conventi per bruciarli e strapparli: i loro brandelli sono serviti al posto della paglia nelle case e nelle scuderie per gli asini e i cavalli. In tutte le chiese, San Pietro, San Paolo, San Lorenzo e anche in quelle piccole, calici, pianete, ostensori e ornamenti sono stati sottratti e i saccheggiatori non trovando la Veronica [2] hanno preso altre reliquie» [3].
Nel diciottesimo libro della sua celebre Storia d’Italia (1561), Francesco Guicciardini (1483-1540) dedica ampio spazio al sacco di Roma, e trattando di questo drammatico evento, non possiamo proprio esimerci dal proporvi le pagine in questione. Lo scrittore fiorentino narra con straordinaria efficacia l’assalto alla città, le crudeli devastazioni. Un tremito di sdegno scuote Guicciardini nella narrazione di quei momenti in cui trionfano morte e distruzione, nella Roma sconvolta da «gridi e urla miserabili delle donne romane e delle monache, condotte a torme da’ soldati per saziare la loro libidine».
«[…] Alloggiò Borbone con l’esercito, il quinto dí di maggio, ne’ Prati presso a Roma, con insolenza militare mandò uno trombetto a dimandare il passo al pontefice (ma per la città di Roma) per andare con l’esercito nel reame di Napoli, e la mattina seguente in su il fare del dí, deliberato o di morire o di vincere (perché certamente poca altra speranza restava alle cose sue), accostatosi al Borgo della banda del monte di Santo Spirito, cominciò una aspra battaglia; avendogli favoriti la fortuna nel fargli appresentare piú sicuramente, per beneficio di una folta nebbia che, levatasi innanzi al giorno, gli coperse insino a tanto si accostorno al luogo dove fu cominciata la battaglia. Nel principio della quale Borbone, spintosi innanzi a tutta la gente per ultima disperazione, non solo perché non ottenendo la vittoria non gli restava piú refugio alcuno ma perché vedeva i fanti tedeschi procedere con freddezza grande a dare l’assalto, ferito, nel principio dello assalto, di uno archibuso, cadde in terra morto. E nondimeno la morte sua non raffreddò l’ardore de’ soldati, anzi combattendo con grandissimo vigore, per spazio di due ore, entrorno finalmente nel Borgo; giovando loro non solamente la debolezza grandissima de’ ripari ma eziandio la mala resistenza che fu fatta dalla gente. Per la quale, come molte altre volte, si dimostrò a quegli che per gli esempli antichi non hanno ancora imparato le cose presenti, quanto sia differente la virtú degli uomini esercitati alla guerra agli eserciti nuovi congregati di turba collettizia, e alla moltitudine popolare: perché era alla difesa una parte della gioventú romana sotto i loro caporioni e bandiere del popolo; benché molti ghibellini e della fazione colonnese deliberassino o almanco non temessino la vittoria degli imperiali, sperando per il rispetto della fazione di non avere a essere offesi da loro; cosa che anche fece procedere la difesa piú freddamente. E nondimeno, perché è pure difficile espugnare le terre senza artiglieria, restorno morti circa mille fanti di quegli di fuora. I quali come si ebbeno aperta la via di entrare dentro, mettendosi ciascuno in manifestissima fuga, e molti concorrendo al Castello, restorono i borghi totalmente abbandonati in preda de’ vincitori; e il pontefice, che aspettava il successo nel palazzo di Vaticano, inteso gli inimici essere dentro, fuggí subito con molti cardinali nel Castello. Dove consultando se era da fermarsi quivi, o pure, per la via di Roma, accompagnati da’ cavalli leggieri della sua guardia, ridursi in luogo sicuro, destinato a essere esempio delle calamità che possono sopravenire a’ pontefici e anco quanto sia difficile a estinguere l’autorità e maestà loro, avuto nuove per Berardo da Padova, che fuggí dello esercito imperiale, della morte di Borbone e che tutta la gente, costernata per la morte del capitano, desiderava di fare accordo seco, mandato fuora a parlare co’ capi loro, lasciò indietro infelicemente il consiglio di partirsi; non stando egli e i suoi capitani manco irresoluti nelle provisioni del difendersi che fussino nelle espedizioni. Però il giorno medesimo gli spagnuoli, non avendo trovato né ordine né consiglio di difendere il Trastevere, non avuta resistenza alcuna, v’entrorono dentro; donde non trovando piú difficoltà, la sera medesima a ore ventitré, entrorono per ponte Sisto nella città di Roma: dove, da quegli in fuora che si confidavano nel nome della fazione, e da alcuni cardinali che per avere nome di avere seguitato le parti di Cesare credevano essere piú sicuri che gli altri, tutto il resto della corte e della città, come si fa ne’ casi tanto spaventosi, era in fuga e in confusione. Entrati dentro, cominciò ciascuno a discorrere tumultuosamente alla preda, non avendo rispetto non solo al nome degli amici né all’autorità e degnità de’ prelati, ma eziandio a’ templi a’ monasteri alle reliquie onorate dal concorso di tutto il mondo, e alle cose sagre. Però sarebbe impossibile non solo narrare ma quasi immaginarsi le calamità di quella città, destinata per ordine de’ cieli a somma grandezza ma eziandio a spesse direzioni; perché era l’anno…… che era stata saccheggiata da’ goti. Impossibile a narrare la grandezza della preda, essendovi accumulate tante ricchezze e tante cose preziose e rare, di cortigiani e di mercatanti; ma la fece ancora maggiore la qualità e numero grande de’ prigioni che si ebbeno a ricomperare con grossissime taglie: accumulando ancora la miseria e la infamia, che molti prelati presi da’ soldati, massime da’ fanti tedeschi, che per odio del nome della Chiesa romana erano crudeli e insolenti, erano in su bestie vili, con gli abiti e con le insegne delle loro dignità, menati a torno con grandissimo vilipendio per tutta Roma; molti, tormentati crudelissimamente, o morirono ne’ tormenti o trattati di sorte che, pagata che ebbono la taglia, finirono fra pochi dí la vita. Morirono, tra nella battaglia e nello impeto del sacco, circa quattromila uomini. Furono saccheggiati i palazzi di tutti i cardinali (eziandio del cardinale Colonna che non era con l’esercito), eccetto quegli palazzi che, per salvare i mercatanti che vi erano rifuggiti con le robe loro e cosí le persone e le robe di molti altri, feciono grossissima imposizione in denari: e alcuni di quegli che composeno con gli spagnuoli furono poi o saccheggiati dai tedeschi o si ebbeno a ricomporre con loro. Compose la marchesana di Mantova il suo palazzo in cinquantaduemila ducati, che furono pagati da’ mercatanti e da altri che vi erano rifuggiti: de’ quali fu fama che don Ferrando suo figliuolo ne partecipasse di diecimila. Il cardinale di Siena: dedicato per antica eredità de’ suoi maggiori al nome imperiale, poiché ebbe composto sé e il suo palazzo con gli spagnuoli, fu fatto prigione da’ tedeschi; e si ebbe, poi che gli fu saccheggiato da loro il palazzo, e condotto in Borgo col capo nudo con molte pugna, a riscuotere da loro con cinquemila ducati. Quasi simile calamità patirono il cardinale della Minerva e il Ponzetta, che fatti prigioni da’ tedeschi pagorono la taglia, menati prima l’uno e l’altro di loro a processione per tutta Roma. I prelati e cortigiani spagnuoli e tedeschi, riputandosi sicuri dalla ingiuria delle loro nazioni, furono presi e trattati non manco acerbamente che gli altri. Sentivansi i gridi e urla miserabili delle donne romane e delle monache, condotte a torme da’ soldati per saziare la loro libidine: non potendo se non dirsi essere oscuri a’ mortali i giudizi di Dio, che comportasse che la castità famosa delle donne romane cadesse per forza in tanta bruttezza e miseria. Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli che erano miserabilmente tormentati, parte per astrignergli a fare la taglia parte per manifestare le robe ascoste. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de’ santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de’ loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi. E quello che avanzò alla preda de’ soldati (che furno le cose piú vili) tolseno poi i villani de’ Colonnesi, che venneno dentro. Pure il cardinale Colonna, che arrivò (credo) il dí seguente, salvò molte donne fuggite in casa sua. Ed era fama che, tra denari oro argento e gioie, fusse asceso il sacco a piú di uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora quantità molto maggiore. Arrivò, il dí medesimo che gli imperiali preseno Roma, il conte Guido co’ cavalli leggieri e ottocento archibusieri al ponte di Salara, per entrare in Roma la sera medesima; ma inteso il successo si ritirò a Otricoli, dove si congiunse seco il resto della sua gente; perché, non ostante le lettere avute di Roma che disprezzavano il suo soccorso, egli, non volendo disprezzare la fama di essere quello che avesse soccorso Roma, aveva continuato il suo cammino. Né mancò (come è natura degli uomini, benigni e mansueti estimatori delle azioni proprie ma severi censori delle azioni d’altri) chi riprendesse il conte Guido di non avere saputo conoscere una preclarissima occasione, perché gli imperiali, intentissimi tutti a sí ricca preda, a votare le case, a ritrovare le cose occultate, a fare prigioni e a ridurre in luogo salvo i fatti, erano dispersi per tutta la città, senza ordine di alloggiamenti senza riconoscere le loro bandiere senza ubbidire i segni de’ capitani; in modo che molti credetteno che se la gente che era col conte Guido si fusse condotta con prestezza in Roma non solo arebbeno conseguito, presentandosi al Castello non assediato né custodito di fuora da alcuno, la liberazione del pontefice ma ancora sarebbe succeduta loro piú gloriosa fazione, occupati tanto gli inimici alla preda che con difficoltà, per qualunque accidente, se ne sarebbe messo insieme numero notabile: essendo massime certo che, ancora poi per qualche dí, quando per comandamento de’ capitani o per qualche accidente si dava alle armi, non si rappresentava alle bandiere alcuno soldato. Ma gli uomini si persuadono spesso che se si fusse fatta o non fatta una cosa tale sarebbe succeduto certo effetto, che se si potesse vederne la esperienza si troverebbeno molte volte fallaci simili giudizi» [4].
I lanzichenecchi non hanno mai lasciato Roma, appaiono solamente in una nuova veste. Non sono più i barbari e lascivi mercenari dai singolari pennacchi che bruciano, stuprano e saccheggiano le chiese. Sono quei politici e quei dirigenti che senza ritegno banchettano sulla città arricchendosi; sono quei turisti ignoranti ed irrispettosi che sporcano ed ebbri si tuffano nelle fontane storiche; sono quei cittadini indifferenti che se ne fregano, e che ignorano quanto siano fortunati a trascorrere la propria esistenza tra le inestimabili bellezze della città che più di ogni altra ha scritto molte delle pagine più belle ed importanti dell’intera storia dell’umanità.
NOTE
[1] Per un approfondimento su Carlo V d’Asburgo si consiglia la lettura dell’articolo I turbamenti di re Carlo.
[2] Il velo della Veronica è una celebre reliquia cristiana. Si tratterebbe di un panno di lino nel quale sarebbe impresso il volto di Cristo. Secondo la leggenda la santa avrebbe asciugato il volto sfigurato del Salvatore durante la sua ascesa sul Golgota.
[3] A. Chastel, Il sacco di Roma, 1527, trad. it. di M. Zini, Einaudi, Torino 1983, pp. 67-79.
[4] F. Guicciardini, Storia d’Italia, 1561, libro diciottesimo, capitolo ottavo.
In copertina: Francisco J. Amérigo, Sacco di Roma, 1884.