Jacopone da Todi – Il frate ribelle

O Segnor, per cortesia,
manname la malsania.

Iacopone da Todi, Laude.

Il pavimento scricchiola minacciosamente, poi cede all’improvviso. Un tonfo, sordo. Innumerevoli grida di disperazione si rincorrono, si accavallano, si calpestano. Il panico afferra i presenti. Sotto l’abito della sfortunata vittima, un’inattesa sorpresa: il cilicio. Vanna giace a terra, priva di vita. Suo marito, Iacopo dei Benedetti, la piange, stringe forte a sé il corpo morto e intanto osserva, con gli occhi sfigurati dalla sofferenza, il barbaro strumento di castigo ed auto-mortificazione che sporge dalle vesti scompigliate ed insanguinate. Addolorato riflette. Come non ha potuto accorgersi di ciò? Come ha potuto ignorare, nonostante gli anni di convivenza, un tale slancio religioso, vicino al fanatismo, da parte della consorte? Semplice, questo agiato procuratore legale era troppo preso dai piaceri di una vita vissuta tra il godimento e la gozzoviglia. Ma ecco che la vista di quell’inaspettato cilicio cambia tutto. Tutto. Iacopo si spoglia dei propri averi, li dona ai poveri, si denuda, abbandona la vacua mondanità e, senza possedere più nulla, se non se stesso e la fede, si mette sulla strada, iniziando un pellegrinaggio lungo dieci anni. Egli non è più Iacopo dei Benedetti, no. Egli è ora Jacopone da Todi (1236 circa – 1306).

Dopo dieci anni di dolorose peregrinazioni, dopo dieci anni di stenti e di solitudine, di fame e di sete, di freddo e di gelo, di piaghe e di screpolature, «fra’ Jacopone» entra nell’Ordine francescano dei Minori, e qui dimostra da subito tutta la radicalità della sua fede. Fondando la propria ideologia sul concetto del contemptus mundi, ovvero il disprezzo del mondo, che comprende anche, e soprattutto, il disprezzo per il proprio corpo (come emerge dai versi di apertura del suo componimento forse più celebre, posti in esergo al presente articolo), si schiera dalla parte dei cosiddetti “spirituali”, coloro che si impegnano a salvaguardare l’integrità della regola, mantenendone intatta la purezza, e si scaglia contro la corrotta politica temporale della Chiesa di Roma.

Esorta il debole e vecchio Celestino V (tra il 1209 ed il 1215 – 1296) a rinnovare la Curia, a ricondurla su di un piano prettamente spirituale. Il pontefice riconosce un nuovo Ordine, i Poveri eremiti di Celestino, cui Jacopone appartiene, ma poi abdica, stanco e ben consapevole della propria debolezza. Pier da Morrone, questo il nome di Celestino V, era innanzitutto un eremita, non aveva la scaltrezza né l’abilità politica che richiede un ruolo come quello del papa. Scaltrezza ed abilità politica che Bonifacio VIII (1230 circa – 1303) possiede in eccessiva quantità. Il nuovo e spregiudicato pontefice – lo ricorderete, acerrimo nemico di Dante – scioglie immediatamente l’Ordine riconosciuto dal predecessore ed inizia una dura campagna di persecuzione nei confronti degli uomini vicini a Celestino V, tra i quali figura anche Jacopone.

Bonifacio lucra spudoratamente su uno dei bisogni più intimi dell’uomo, il bisogno di credere nell’esistenza di un essere superiore, trascendentale, che vegli su di lui, Dio – bisogno che mette in evidenza tutta la miseria e la debolezza dell’essere umano, potenzialmente grande, concretamente insignificante -, come del resto hanno sempre fatto e continuano a fare tutti i papi della storia, compreso l’ultimo, Francesco, gesuita travestito da francescano.

Jacopone si oppone a Bonifacio con ardore, e nel 1297 sottoscrive il Manifesto di Lunghezza, memoriale nel quale gli avversari del pontefice, capitanati dai cardinali Jacopo e Pietro Colonna, sostengono l’illegittimità dell’elezione di Bonifacio. Il pontefice reagisce con la forza. Scomunica gli oppositori e si avventa militarmente su Palestrina, roccaforte dei Colonna. Il sanguinoso assedio dura addirittura un anno e mezzo. La perseveranza di Bonifacio viene premiata, Palestrina capitola e Jacopone è condannato al carcere a vita. Detenuto nei sotterranei del convento di San Fortunato presso Todi, nonostante la prigionia non smette di scrivere (soprattutto Laude, se ne contano ben 92 di sicura attribuzione) e di polemizzare contro la politica ultra-temporale del pontefice, difendendo ed al tempo stesso divulgando le proprie convinzioni.

Tuttavia la scomunica lo angustia, lo angoscia e si umilia purché venga ritirata. Ma non c’è niente da fare, Bonifacio è irremovibile. Crudele, non ha alcuna pietà dei vinti. Gli insegnamenti del Cristo non sono nulla per lui. Il pontefice giunge persino ad escludere i Colonna ed i loro sostenitori dalle indulgenze del Giubileo del 1300. Un atto di estrema efferatezza e malvagità.

Solamente nel 1303, in seguito all’elezione del nuovo papa, Benedetto XI, Jacopone viene scarcerato a sgravato dalla scomunica. Si spegne tre anni più tardi, nella notte di Natale del 1306. All’inizio dell’epigrafe posta sulla sua tomba si legge: «Qui giacciono le ossa del Beato Jacopone de Benedictis da Todi, frate minore. Impazzito d’amore per Cristo». «Impazzito d’amore per Cristo», beh, non si può dire lo stesso per Bonifacio VIII, il suo odiato rivale, al quale Dante aveva già riservato un bel posticino all’Inferno. Un posticino forse scomodo – giacere in eterno all’ingiù non deve essere proprio il massimo -, ma tutto sommato grazioso. Non trovate?

In copertina: Paolo Uccello, Beato Jacopone da Todi, 1435-1440.

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