Quando morir mi parve unico scampo,
varco d’aria al respiro a me fu il canto:
a verità condusse poesia.Clemente Rebora, Curriculum vitae, 1955.
La vita
Clemente Maria Rebora nasce a Milano il 6 gennaio 1885, quinto di sette figli, da Enrico, massone e garibaldino nella battaglia di Mentana (1867), e da Teresa Rinaldi, brillante poetessa per diletto.
Al termine della scuola il giovane Clemente inizia nel 1903 gli studi di medicina, che abbandona però presto per seguire i corsi di lettere presso l’Accademia Scientifico-letteraria di Milano, dove si laurea nel 1910, con una tesi sul pensiero del giurista, filosofo e fisico Gian Domenico Romagnosi (1761-1835). Non senza difficoltà riesce a superare una crisi depressiva che lo porta, nei mesi dedicati alla composizione dell’ultima fatica accademica, sull’orlo del suicidio. Completati gli studi decide di intraprendere la via dell’insegnamento, divenendo docente in diversi istituti tecnici inferiori e serali. Inoltre collabora con molte riviste, tra le quali “La Voce”, “Rivista d’Italia”, “Diana” e “Riviera ligure”. Risalgono a questo periodo le preziose e salde amicizie con Giuseppe Prezzolini (1882-1982) e Giovanni Boine (1887-1917).
Il debutto letterario avviene nel 1913, con la pubblicazione del volume di poesie Frammenti lirici. L’anno successivo conosce la pianista russa Lydia Natus, l’unica donna amata totalmente, con la quale decide persino di vivere sotto lo stesso tetto, a Milano. Intanto scoppia la Prima guerra mondiale, l’amore svanisce e Rebora viene chiamato alle armi con il grado di sottotenente. Sul Monte Calvario (Podgora in sloveno), a causa di una fortissima esplosione, subisce un violento trauma cranico e resta in stato di shock. Dell’atroce esperienza bellica restano tracce aspre e spietate in diverse delle Poesie sparse scritte proprio negli anni del conflitto, ma pubblicate nel 1947. Tra il 1916 ed il 1919 erra da un ospedale militare all’altro, fin quando viene riformato con la terribile diagnosi di infermità mentale. Fortunatamente ciò non gli impedisce di riprendere le attività di docente e di poeta. Nel 1922 esce la sua seconda raccolta di versi, Canti anonimi, magnifica testimonianza della ricerca spirituale del poeta, orientato prima verso Mazzini, risorgimentale retaggio paterno, nelle cui idee intravede uno straordinario esempio di evangelismo laico dedito al popolo, poi verso la fede religiosa. In questo senso, una svolta epocale si verifica nel 1928. Folgorato dal Cattolicesimo, Rebora vi aderisce completamente prendendo i sacramenti nel 1929, ed entrando, nel 1930, come novizio nel Collegio Rosmini. Per due dei tre anni che trascorre nell’Istituto della Carità al Sacro Monte Calvario di Domodossola ricopre il ruolo di aiuto infermiere. Nel 1936 pronuncia i voti perpetui e viene ordinato sacerdote proprio nel comune piemontese.
L’intensa attività pastorale sottrae inevitabilmente del tempo alla vocazione poetica. Tra il 1936 ed il 1947 compone otto Poesie religiose. Il ritorno sistematico ai versi coincide con la paralisi, e con l’irreversibile aggravarsi della malattia. Certamente, non un caso. Nel 1955 compone il Curriculum vitae, una eloquente e toccante autobiografia, e molte liriche, raccolte nel volume Canti dell’infermità (1956).
Annientato dal male che lo costringe all’immobilità pressoché totale, Clemente Rebora si spegne a Stresa il 1 novembre 1957.
La poetica
La poetica di Rebora è caratterizzata da una costante, e per molti versi drammatica, ricerca spirituale. Dalla sua prima opera, Frammenti lirici (1913), emerge un impegno assoluto accompagnato da una convinta attenzione filosofica e morale verso i problemi esistenziali dell’uomo. Il rapporto doloroso, inquieto con la realtà si concretizza in tematiche e soluzioni stilistico-formali tendenti alla deformazione espressionistica. Il poeta si sforza di trovare degli accordi, o quantomeno dei compromessi con la frenetica ed indifferente vita cittadina, necessari per sopravvivere. Criticando il progresso, la società capitalistica ed industriale, Rebora è il portavoce di una poesia soffocata dalla modernità, una poesia agonizzante che reclama la propria grandezza svanita nel caos della moltitudine. L’io del poeta, solo, perduto nel naufragio dell’evoluzione selvaggia non può più fare affidamento alla solidarietà, è costretto ad emigrare verso una dimensione metafisica che ha i contorni favolosi, ed al tempo stesso beffardi, dell’illusione.
I Frammenti lirici, e con essi i successivi Canti anonimi (1922), sono il ritratto crudo di una visione del mondo arida, avvelenata, impietosa in cui l’uomo è costretto all’isolamento ed alla violenza, defraudato degli antichi valori etici, smarrito nelle false apparenze, nelle finzioni superficiali, nelle vane glorie. L’umanità si fa vacua, la sua esistenza inutile, ancor peggio nociva, per se stessa e la terra intera.
Ad alimentare inevitabilmente tale dissidio la guerra, un folle paradosso, una tragica e gratuita assurdità umana. Nella brutale ferocia del conflitto bellico non resta che la morte, unico sollievo, unica forma di conforto in grado di far riscoprire, ai poveri soldati trucidati, il nobile sentimento della pietà.
Nelle Poesie religiose la conquista della fede cattolica da parte di Rebora dona speranza, lascia intravedere uno spiraglio, una soluzione. Finalmente la ricerca sembra aver raggiunto la meta tanto agognata. Ma dura poco. Nei Canti dell’infermità (1956) la malattia scaraventa nuovamente il poeta nella sofferenza e nella disperazione, questa volta ancora più profonde poiché aggravate dallo sfacelo fisico. Il dramma raggiunge l’apice, la religione, assieme alla poesia, non è altro che una compagna di sventure.
Alcune poesie
In conclusione, alcuni tra i versi più suggestivi e significativi della magnifica e splendente produzione poetica reboriana.
Dai Frammenti lirici
O PIOGGIA FEROCE
O pioggia feroce che lavi ai selciati
lordure e menzogne
nell’anime impure,
scarnifichi ad essi le rughe
e ai morti viventi, le rogne!
Quando è sole, il pattume
e le pietre dei corsi
gemme sembrano e piume,
e fra genti e lavoro
scintilla il similoro
di tutti, e s’empiono i vuoti rimorsi;
ma in oscura meraviglia
fra un terror di profezia
tu, per la tenebra nuda
della cruda grondante tua striglia,
rodi chi visse di baratto e scoria:
annaspa egli nella memoria,
o si rimescola agli altri rifiuti,
o va stordito ai rìvoli di spurghi
che tu gli spazzi via.
Ma per noi, fredda amazzone implacata,
o pioggia di scuri e di frecce
tu sei redentrice adorata
del rinnegato bene;
per noi, che sentiamo insolubil mistero
quando la vita si sdraia alle cose,
mentre l’eterno in martirio di prove
ci sembra spontanea purezza del vero,
tu sùsciti come il silenzio
dove natura è più forte,
operi come la morte
dove immortale è il pensiero.
Oh, lava e scarnifica e spazza
chi fra i bari del mondo non volle aver bazza:
sgrumando la lugubre scoria
che c’inviliva alla gente,
snuderai l’oro e la gloria
che non si vendon né recan piacere,
ma splendono d’un balenìo
che irraggia invisibile sugli altri con Dio.
***
Da Poesie sparse
VIATICO
O ferito laggiù nel valloncello,
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio –
grazie, fratello.
***
Dai Canti anonimi
DALL’IMAGINE TESA
Dall’imagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.