Agosto è iniziato da pochi giorni anche se il caldo è entrato nella nostra penisola già da qualche settimana, e con il caldo sono iniziate le prime peregrinazioni dall’entroterra verso il mare. Nel mio caso specifico, sarà stato il delirio dovuto proprio all’eccessiva afa romana, ma lo spostamento è avvenuto in maniera inversa, portandomi ad attraversare l’Italia per raggiungere Mantova, la città dei Gonzaga, e più in particolare Palazzo Te, autentico prodigio dell’architetto Giulio Romano accorso da Roma per volere del duca in persona, Federico II.
Il mio viaggio tra l’altro presenta delle analogie con quello di Giulio Romano, il quale nel 1524 raggiunse Mantova partendo proprio da Roma, con la differenza che l’architetto romano fu invitato e fortemente voluto alla corte Gonzaga, mentre io al massimo sono risultato un fastidioso imbucato nel capoluogo lombardo.
Durante il tragitto ho provato ad immaginare i paesaggi e i percorsi intrapresi dall’originale architetto rinascimentale, con la scontata consapevolezza che ormai tutto è cambiato: chissà cosa avrebbe pensato dell’attuale intorno del nuovo paesaggio urbano che circonda il suo amato Palazzo Te, perfetta sintesi tra una villa extraurbana e un palazzo, il quale oggi giace orizzontale e sembra essere stato risucchiato dalla periferia mantovana, a volte sopraffatto addirittura, specialmente per chi vi accede dall’ingresso orientale, quello vigilato dallo squallido stadio di calcio.
Ma contesto a parte, quello che Giulio Romano si trovò davanti appena arrivato a Mantova con tutta probabilità fu solo una scuderia, abitata dai cavalli tanto cari al marchese Francesco II, da poco scomparso per altro, il quale bonificò l’area paludosa per renderla praticabile. La zona dove sarebbe sorto il palazzo era un’isoletta, destinata nel progetto di recupero immaginato dai Gonzaga allo svago e al riposo.
Il progetto, iniziato probabilmente nel 1525 e concluso nel 1534, arriva praticamente inalterato ai giorni nostri, nel suo impianto fortemente orizzontale che già dall’esterno ad un occhio attento denota delle goffe proporzioni: è il preludio alle sorprese che cela al suo interno. Accedendo nell’ingresso occidentale invece, inizia il giro nelle meravigliose sale, organizzate, e a volte anche affrescate, da Giulio Romano stesso.
Procedendo in senso orario il percorso del visitatore, illuminato dal nuovo impianto a LED recentemente progettato, subisce un crescendo di emozioni attraversando i quattro lati dell’edificio cardine, un impianto quadrato che custodisce un giardino al suo interno, più o meno simmetrico sui quattro lati.
La prima sala importante che troviamo avanzando nel percorso è la “Sala dei cavalli”, nella quale stazionano dei ritratti a grandezza naturale dei destrieri più amati dai Gonzaga: purosangue che destano incredulità al passaggio dell’osservatore, inquadrati da colonne corinzie con sullo sfondo dei paesaggi naturalistici che ricordano la campagna mantovana. Un omaggio, sia al grande amore per i cavalli della famiglia, sia al marchese che quel luogo lo salvò dalla palude.
Avanzando nella camera successiva, quella ad angolo, si entra nel vivo del movimento, si comincia ad intraprendere un percorso emozionale ben più intenso: la sala in questione è quella di Amore e Psiche infatti, utilizzata come sala da pranzo. Al suo interno sono affrescate, con attenta progressione cromatica, le vicende lussuriose e mitologiche legate a Psiche, simbolo dell’amore del duca per Isabella Boschetti. La fonte letteraria delle vicende dipinte sono le metamorfosi di Apuleio. Quest’ultima sala è tra le più belle dell’intero palazzo, nella quale il tempo ad osservare ogni minimo dettaglio delle vicende narrate vola magnificamente, seconda solo alla successiva “sala dei Giganti”.
Prima di accedervi si passa però per un loggiato che affaccia sul giardino grande e le peschiere, ultimo luminoso intermezzo prima di immergersi nella sala che vale l’intero palazzo: il buio avvolge le nebulose colonne traballanti, l’imminente caduta dei giganti sembra avvolgere lo spettatore immerso in uno spazio unico. La totale assenza di punti riferimento, l’assenza di angoli, l’ascendenza cromatica dal basso verso l’alto, sono tutti fattori che rafforzano il coinvolgimento dello spettatore, complice silenzioso della gigantomachia, mentre Zeus dalla cupola dipinta nel vertice della sala lancia fulmini infuriato. E’ un’esperienza complessa quella a cui ci pone Giulio Romano, ricca di contenuti e spunti, anche attuali se vogliamo.
All’uscita dalla sala non è insolita la sensazione di estraniamento, anzi, sentirsi frastornati è quasi un obbligo: in questo caso è consigliabile fare un giro per il grande giardino e infine per il giardino segreto e le fruttiere, con la limitrofa grotta-bagno, per riprendere fiato ed osservare le ultime meraviglie prima di abbandonare Palazzo Te.
Il complesso di Palazzo Te ci pone dinanzi all’opera probabilmente più grande di Giulio Romano, il suo manifesto di estroso architetto e pittore è esposto in forma materica: negli anni a venire lavorerà ancora con i Gonzaga, che a Mantova gli daranno altri incarichi legandolo fortemente al capoluogo lombardo.
Tornando a Roma porterò con me il ricordo di quell’altro Giulio Romano, il maturo architetto che ha sintetizzato l’arte e la sensibilità di Raffaello Sanzio per farne un’opera del tutto inedita e originale, trovando in Mantova la sua nuova patria.