Un nuovo tempo

Ovunque la peste [1], la morte, la distruzione, lo sfacelo socio-economico. Poi la ripresa, lo sviluppo dei traffici commerciali, l’intensificarsi della produzione, la scoperta di nuovi saperi. Un’incontenibile crescita caratterizza il tardo Medioevo, rivoluziona l’intera società, l’intera economia, portando alla ribalta una nuova figura: il mercante. E con esso nasce una inedita e sconvolgente concezione del tempo.

Se il tempo del contadino, e in generale del mondo rurale, era intimamente legato alla natura, al corso del sole, della luna, al ciclo delle stagioni, era dunque più autentico ed umano, terreno, il tempo del mercante è un unico flusso matematico perfettamente misurabile, divisibile e dettagliatamente pianificabile. A scandirlo non sono più le campane delle chiese che annunciano austere le ore di preghiera, ma le torri campanarie pubbliche, che ritmano «le ore delle transizioni commerciali e del lavoro degli operai», fino a diventare «strumento di dominazione economica, sociale e politica dei mercanti che reggono il Comune». La religione perde importanza, viene relegata ad una dimensione intima e privata. Un nuovo, incredibile strumento appare: l’orologio.

È lo storico Jacques Le Goff (1924-2014) a sottolineare tutto ciò con straordinaria chiarezza, nell’opera Tempo della Chiesa e tempo del mercante (1977), di cui proponiamo alcune illuminanti pagine.

«E il mercante? Egli diventa un personaggio dalle operazioni complicate ed estese, nello spazio anseatico e, più ancora, nello spazio mediterraneo dove domina il mercante italiano, le cui tecniche si precisano e i cui tentacoli si allungano dalla Cina, dove va Marco Polo, a Bruges e a Londra dove si stabilisce o invia i propri agenti.
Come il contadino, è in un primo tempo soggetto nella sua attività professionale al tempo metereologico, al ciclo delle stagioni, alla imprevedibilità delle intemperie e dei cataclismi naturali. Per molto tempo non c’è stato, in questo campo, che necessità di sottomissione all’ordine della natura e di Dio, e come mezzo d’azione la preghiera e le pratiche superstiziose. Ma quando una rete commerciale si organizza, il tempo diventa oggetto di misura. La durata di un viaggio per mare o per terra da un luogo a un altro, il problema dei prezzi che, nel corso di una stessa operazione commerciale, tanto più se il circuito si complica, salgono o scendono, facendo aumentare o diminuire i guadagni, la durata del lavoro artigianale e operaio, per questo mercante che è quasi sempre anche un datore di lavoro, tutto ciò s’impone sempre più alla sua attenzione, diviene oggetto di regolamentazione sempre più precisa. La ripresa della coniazione dell’oro, il moltiplicarsi dei segni monetari, la complicazione delle operazioni di cambio risultante sia da questa sorta di bimetallismo, sia dalla diversità delle monete reali a dalle fluttuazioni nascenti, che creano non solo la variabilità del corso commerciale del denaro, ma già le prime “alterazioni” monetarie, ossia le prime misure inflazionistiche e più raramente deflazionistiche: tutto quest’allargarsi del campo monetario richiede un tempo meglio misurato. Il settore del cambio, nel momento in cui l’aristocrazia dei cambiatori succede a quella dei monetieri dell’alto Medioevo, prefigura il tempo della Borsa, in cui minuti e secondi faranno e disferanno intere fortune.
Gli statuti delle corporazioni come i documenti propriamente commerciali – contabilità, relazioni di viaggi, pratiche di mercatura, e quelle lettere di cambio che cominciano a diffondersi nelle fiere di Champagne, divenute fra il secolo XII e il XIII il clearing house del commercio internazionale – tutto mostra che la giusta misura del tempo importa sempre più al buon andamento degli affari.
Per il mercante, l’ambiente tecnologico sovrappone un tempo nuovo, misurabile, cioè orientato e prevedibile, al tempo insieme eternamente ricominciato e perpetuamente imprevedibile dell’ambiente naturale.
Ecco, tra gli altri, un testo illuminante. Il governatore reale dell’Artois autorizza nel 1355 la popolazione di Aire-sur-la-Lys a costruire una torre campanaria, le cui campane suoneranno le ore delle transizioni commerciali e del lavoro degli operai drappieri. L’utilizzazione, a scopi professionali, di una nuova misura del tempo vi è indicata clamorosamente. Strumento di una classe – “poiché la detta città è governata dal mestiere di drapperia” – capace di offrirci l’occasione per cogliere come l’evoluzione delle strutture mentali e delle loro espressioni materiali si inserisca profondamente nel meccanismo della lotta di classe, l’orologio comunale è uno strumento di dominazione economica, sociale e politica dei mercanti che reggono il Comune. E, per servirli, si avverte la necessità di una misura rigorosa del tempo, perché nella drapperia “è opportuno che la maggior parte degli operai giornalieri [il proletariato del tessile] vadano e vengano al loro lavoro a ore ‘fisse'”.
Questo tempo, che comincia a razionalizzarsi, si laicizza nello stesso tempo. Più ancora per esigenze pratiche che per ragioni teologiche, che d’altronde ne sono alla base, il tempo concreto della Chiesa è, adattato dall’antichità, il tempo dei chierici, ritmato dagli uffici religiosi, dalle campane che li annunciano, eventualmente indicato dalle meridiane, imprecise e mutevoli, misurato talvolta dalle clessidre grossolane. A questo tempo della Chiesa, mercanti e artigiani sostituiscono il tempo più esattamente misurato, utilizzabile per le faccende profane e laiche, il tempo degli orologi. Tempo misurabile, meccanizzato addirittura, quello del mercante, ma anche discontinuo, rotto da pause, da momenti morti, affetto da accelerazioni o da rallentamenti – spesso legato con il ritardo tecnico e il peso dei fattori naturali: la pioggia o la siccità, la calma o la tempesta, hanno le loro forti incidenze sui prezzi. In questa malleabilità del tempo, che non esclude l’inesorabilità delle scadenze, si situano i guadagni e le perdite, i margini di profitto o deficitari; lì agiscono l’intelligenza, l’abilità, l’esperienza, l’astuzia del mercante.
E il tempo della Chiesa? Il mercante cristiano lo conserva come un altro orizzonte della sua esistenza. Il tempo nel quale agisce professionalmente non è quello nel quale vive religiosamente. Nella prospettiva della salvezza si contenta di accettare gli insegnamenti e le direttive della Chiesa. Dall’uno all’altro orizzonte le zone d’incontro non si toccano se non esteriormente. Dai suoi guadagni il mercante trae il denaro delle elemosine, con cui alimenta le opere di beneficenza. In quanto essere che dura, sa che il tempo, che lo porta verso Dio e l’eternità, è a sua volta esso suscettibile di pause, di cadute, di accelerazioni. Tempo del peccato e tempo della grazia. Tempo della morte al mondo prima della risurrezione. Talvolta l’affretta con il ritiro finale in un monastero, talvolta, più comunemente, accumula le restituzioni, le opere buone, le donazioni pie, nell’ora in cui minaccia il passaggio sempre terribile nell’aldilà.
Fra il tempo naturale, il tempo professionale, il tempo sovrannaturale, c’è dunque separazione essenziale e insieme incontri contingenti. L’inondazione diventa materia di speculazione ragionata, le ricchezze d’iniquità aprono le porte del cielo. Bisogna dunque eliminare dalla psicologia del mercante medievale il sospetto dell’ipocrisia. Tanto diversamente legittimi sono per lui gli scopi perseguiti in prospettive differenti: il guadagno e la salvezza. Proprio questa separazione permette di pregare Dio per il successo degli affari» [2].

Sono le origini del capitalismo, di lì a qualche secolo destinato a trionfare, destinato a soggiogare il mondo intero. Il capitalismo… questa forza maligna che ci ha resi schiavi dei nostri vizi, e dinanzi alla quale ogni singolo giorno continuiamo a prostrarci con giubilo, incuranti di quanto ciò sia rischioso e venefico.

NOTE

[1] Per un approfondimento sulla terribile epidemia che colpì l’Europa, l’Asia ed il Nord dell’Africa tra il 1347 ed il 1353, si veda l’articolo La peste nera.

[2] J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, trad. it. di M. Romano, Einaudi, Torino 1977, pp. 12-17.

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