Nello «sperimentare» dunque, che riconosciamo nostro (a differenziarci dall’attuale neo-sperimentalismo) persiste un momento contraddittorio o negativo: ossia un atteggiamento indeciso, problematico e drammatico, che coincide con quella indipendenza ideologica cui si accennava, che richiede un continuo, doloroso sforzo di mantenersi all’altezza di una attualità non posseduta ideologicamente, come può essere per un cattolico, un comunista o un liberale: e questo, poi, implica una certa gratuità di quello sperimentare, un certo eccesso, comunque: l’attitudine sperimentalistica sopravvissuta.
P. P. Pasolini, La libertà stilistica, in «Officina», n. 9-10, 1957.
Tra le più importanti ed influenti riviste letterarie italiane della seconda metà del Novecento, occupa un posto di assoluto rilievo «Officina», fondata a Bologna nel 1955 da Pier Paolo Pasolini (1922-1975), Francesco Leonetti (1924) e Roberto Roversi (1923-2012).
La rivista prende le distanze dall’Ermetismo e dalla poesia cosiddetta pura, e dal Neorealismo. Ad essi «Officina» oppone uno sperimentalismo anti-avanguardista, autentico e libero da qualunque ideologia, che guardi senza alcun timore alla letteratura tradizionale – in questo senso, particolarmente significativo il fatto che Pasolini pubblichi proprio sul primo numero della rivista una sorta di resoconto della lirica pascoliana, in occasione del centenario della nascita del grande poeta.
I punti fondamentali di questo nuovo, «vero e proprio» sperimentalismo vengono chiariti e, in un certo senso, teorizzati dallo stesso Pasolini nell’importante articolo emblematicamente intitolato La libertà stilistica, pubblicato nel 1957 sul numero 9-10 di «Officina».
«Al di là di questo sperimentalismo storicamente attuale, quale tradizione recente e persistente del novecentismo (e a questo punto non temiamo più il tono programmatico e parenetico di chi enunci le intenzioni del proprio lavoro) si presenta, con una violenza che trascende l’ambito letterario, la necessità di un vero e proprio sperimentalismo, non solo graduale e intimo, sprofondato in un’esperienza interiore, non solo tentato nei confronti di se stessi e della propria irrelata passione, ma della stessa nostra storia.
Ora c’è stato un periodo di questa nostra storia in cui l’unica libertà rimasta pareva essere la libertà stilistica: il che implicava passività sul fronte esterno e attività sul fronte interno. Ma non poteva trattarsi che di una libertà illusoria, se, in realtà, l’involuzione antidemocratica fascista era effetto della stessa decadenza dell’ideologia borghese, liberale e romantica, che aveva portato all’involuzione letteraria di una ricerca stilistica a sé, di un formalismo riempito solo della propria coscienza estetica. L’elusività, tipica via di resistenza passiva alle coazioni della realtà, assumeva così le forme dell’assolutezza stilistica, classicheggiante, per ipotassi, per grammaticalità esasperata, “ordinante dall’alto”, fin nelle più esteriori e ormai convenzionali dilatazioni semantiche; e lo stesso si può dire per le esperienze letterarie oppositrici, che fanno capo al Pascoli pregrammaticale e realista di genere, il cui sforzo linguistico era un allargamento lessicale meglio che un mutamento stilistico.
Tuttavia questa serie di istituti formatisi per partenogenesi nel primo Novecento dotava chi iniziasse il suo apprendistato fra il ’30 e il ’40 – e, in parte, tuttora – del senso di una estrema libertà stilistica: una lingua fondamentalmente eletta e squisita, classicistica nella sostanza, con le tangenti però della dilatazione semantica, del pastiche, della pregrammaticalità pseudo-realista. Ma erano audacie collaudate: e non c’era invenzione per quanto scandalosa e abnorme che non fosse in realtà prevista. L’inventare, insomma, come in ogni periodo di “fissazione”, era un momento individuato e diventato cosciente di una sorta di specializzazione, che si mescolava ormai abitudinariamente alla stessa ispirazione, che, a sua volta, aveva come oggetto immediato la poesia: la poesia pura. Il salto fra tale lingua che era tutta aprioristicamente invenzione, “lingua per poesia”, e la lingua strumentale, era incolmabile: e ne conseguiva una identificazione fra il poetico e l’illogico, fra il poetico e l’assoluto: il poetare era un atto mistico, irrazionale e squisito. Quindi, come in ogni comunione strettamente gergale, l’invenzione non era mai una innovazione: il desueto rientrava sempre e comunque nella norma.
Lo ripetiamo: in un simile tipo di lavoro, non si poteva non avere il senso, inebriante, di essere estremamente liberi: quasi che non ci fosse fine alla catena delle invenzioni. Era addirittura possibile inventare un intero sistema linguistico, una lingua privata […].
Ma in quella libertà non c’era né scelta né sofferenza: ed era capace di far operare su una sola direzione, quella interiore: in ciò la costrizione di quella libertà era rigorosa. Non c’era spiraglio per riuscirne, neanche per concepire una diversa direzione. Tutta la lingua – forse per la prima volta nella storia della letteratura italiana – era in sincronia, nei suoi vari generi: la fissazione linguistica era perfetta. Soltanto che la sincronia tra prosa e poesia era stata raggiunta portando tutta la lingua al livello della poesia, e la prosa non era più possibile. Neanche quella prosa che fosse un “momento” della poesia. La storia non esisteva più: e il mondo interiore era in definitiva una prigione. Dentro questa istituzione stilistica che prevedeva anche – anzi, soprattutto – la libertà stilistica, non c’era dunque soluzione di continuità per le invenzioni […].
Ciononostante ci abbiamo rinunciato. La stessa passione che ci aveva fatto adottare con violenza faziosa e ingenua le istituzioni stilistiche che imponevano libere esperimentazioni inventive, ci fa ora adottare una problematica morale, per cui il mondo che era stato, prima, pura fonte di sensazioni espresse attraverso una raziocinante e squisita irrazionalità, è divenuto, ora, oggetto di conoscenza se non filosofica, ideologica: e impone, dunque, esperimentazioni stilistiche di tipo radicalmente nuovo. Si capisce: facendo questo, siamo usciti da una posizione sicura, la cui ambizione di assolutezza, di dérèglement garantito, rientrava in qualche modo nella storia, se non altro per forza d’inerzia: e abbiamo rischiato tutte le contingenze e le volgarità che la lotta con l’espressione di un mondo attuale e problematico trascina con sé.
Malgrado questa rinuncia, dunque, alla sicurezza di un mondo stilistico maturo, raffinato e anche drammatico – nell’interno dell’anima – (e di cui del resto non possiamo cessare di restare usufruttuari), nessuna delle ideologie “ufficiali” attraverso cui interpretare la “vita di relazione”, e magari metterla in rapporto con la vita interiore, ci possiede. È una indipendenza che costa terribilmente cara: quanto vorremmo, come usa dire, avere scelto. La base laica e crociana, acquisita attraverso una violenta lotta contro l’irrazionale e il dogmatico che persistono in ogni natura ferita e facilmente in preda dell’angoscia, non è che una base per pentimenti, ricadute, esaltazioni: l’adozione della filosofia marxista è dovuta in origine a un impeto sentimentale e moralistico, ed è perciò continuamente permeabile all’insorgere dello spirito religioso, e, naturalmente, cattolico, ch’essa presupponeva, ecc. ecc.
Nello “sperimentare” dunque, che riconosciamo nostro (a differenziarci dall’attuale neo-sperimentalismo) persiste un momento contraddittorio o negativo: ossia un atteggiamento indeciso, problematico e drammatico, che coincide con quella indipendenza ideologica cui si accennava, che richiede un continuo, doloroso sforzo di mantenersi all’altezza di una attualità non posseduta ideologicamente, come può essere per un cattolico, un comunista o un liberale: e questo, poi, implica una certa gratuità di quello sperimentare, un certo eccesso, comunque: l’attitudine sperimentalistica sopravvissuta.
Ma vi incide anche un momento positivo, ossia l’identificazione dello sperimentare con l’inventare: con l’annessa opposizione critica e ideologica agli istituti precedenti. […]
Da tutto questo si possono trarre due corollari, meglio incidenti nel nostro discorso: 1) Anche lo stile è una forma di possesso, o, come usa dire la terminologia marxista, un privilegio, con la tipica mancanza di coscienza del fatto che caratterizza ogni possesso o privilegio materiale acquisito per appartenenza a una classe dominante (nella specie dominante ideologicamente: attraverso le sue filosofie, dalla rivoluzione francese allo storicismo, e, per quel che meglio ci riguarda, all’irrazionalismo che è l’aspetto letterario, squisito, di quella mancanza di coscienza o riflessione del proprio privilegio culturale e stilistico).
2) Poiché, nell’incosciente erede di istituti sociali, filosofici o stilistici, il mondo si era ridotto a oggetto di poesia, e quindi di un’apparentemente sconfinata libertà linguistica, è chiaro che in seguito alla crisi, e alla rinuncia di quel mondo pieno e concluso – avanzante, all’infinito, solo sul fronte interiore – la lingua che era stata portata tutta al livello della poesia, tende ad essere abbassata tutta al livello della prosa, ossia del razionale, del logico, dello storico, con l’implicazione di una ricerca stilistica esattamente opposta a quella precedente.
Ne deriva una, probabilmente imprevista, riadozione di modi stilistici pre-novecenteschi, o tradizionali nel senso corrente del termine, in quanto rientrati ormai nei confini del linguaggio razionale, logico, storico, se non addirittura strumentale.
Tali modi stilistici tradizionali si rendono dunque mezzi di uno sperimentare che, nella coscienza ideologica, è assolutamente, invece, anti-tradizionalista, tale da mettere, con violenza, per definizione, in discussione la struttura e la sovrastruttura dello stato, e da condannarne, con atto probabilmente tendenzioso e passionale, la tradizione, che, dal Rinascimento alla Controriforma al Romanticismo, ne ha seguito l’involuzione sociale e politica, fino al fascismo e alle condizioni attuali».
P. P. Pasolini, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960.
Teorizzando un nuovo e più autentico sperimentalismo, Pasolini si scaglia contro gli sperimentalismi letterari dell’epoca, in particolar modo contro l’Ermetismo, le cui innovazioni sono solamente illusorie e rientrano comunque in un codice prestabilito. Una libertà stilistica apparente ed effimera quella ermetica, soprattutto perché conduce il poeta ad un colpevole distacco con la realtà storica, dunque politica e sociale, in cui vive.
Pasolini evidenzia la necessità di un contegno letterario che sia davvero e razionalmente conoscitivo, percettivo, e di uno sperimentalismo che sia davvero nuovo ed innovativo, che recuperi il valore della prosa, anche ricorrendo a modelli stilistici tradizionali, e che sia indipendente e libero da qualunque ideologia, compresa quella marxista.