All’interno della letteratura italiana della prima metà del Novecento, con il termine vociani indichiamo quegli autori vicini, più o meno intensamente, all’esperienza intellettuale della rivista La Voce (1908-1916), nella quale si riconoscono soprattutto per il vento di rinnovamento culturale, artistico e politico che impetuoso spira dalle sue pagine illustri.

L’idea vociana di scrittura nasce sotto forma di sperimentazione opposta ai canoni letterari dell’epoca, ancora fortemente ottocenteschi, con il romanzo psicologico come genere letterario dominante, e con il Naturalismo ed il Verismo come orientamenti imprescindibili. Gli autori riuniti attorno al giornale fondato da Papini e Prezzolini, rivolgono lo sguardo verso modelli meno “ortodossi” rispetto ai vari Zola, Balzac, Flaubert e Verga. Preferiscono di gran lunga la lirica francese decadente, appartenente allo stesso secolo, il XIX, ma molto più moderna, dalla quale estraggono e reinterpretano in particolar modo l’atteggiamento simbolico-analogico ed esistenziale. Donano loro grande ispirazione dunque, le lussureggianti cattedrali poetiche di Baudelaire, i versi ebbri di Rimbaud e le creazioni variopinte di Mallarmé.

In contrasto con il pensiero filosofico di Benedetto Croce, i vociani polemizzano inoltre con il diffuso estetismo dannunziano, proponendo una nuova idea di letteratura slegata dalle catene opprimenti della tradizione accademica, capace di riflettere le inquietudini, le angosce e le sofferenze dell’uomo contemporaneo. In questo senso, attraverso l’utilizzo del verso libero, concepiscono la poesia come ricerca esistenziale, svincolata dalle costrizioni metriche, autonoma ed autentica espressione delle necessità e dei tormenti dell’io.

Tali presupposti vociani si concretizzano nella creazione e nell’utilizzo della cosiddetta “poetica del frammento”. L’espressione si fa breve, lapidaria e profondamente significativa, si privilegiano l’istante e la descrizione del particolare. La poesia assume i caratteri propri della prosa, e tra le due modalità di scrittura si realizza un’innovativa contaminazione. Dalla dissolvenza dei generi letterari ne nasce uno nuovo, il poemetto in prosa, già sperimentato da Baudelaire nella sua celebre opera Lo spleen di Parigi (1869).

Il frammento possiede la capacità di smascherare la crisi dell’io, la disgregazione di una realtà incrinata, disordinata, convulsa, caotica e dispersiva nella quale l’individuo si confonde perdendo se stesso. Dinanzi alla negatività di un presente oblioso, il poeta vociano si propone di indagare quei valori spirituali e sociali in via di estinzione, testimoniando così l’esigenza di un impegno e di una partecipazione civile.

Nei componimenti di tali autori spicca prepotentemente il carattere autobiografico e privato. Le loro creazioni, ancor più che raccontare vite, sono testimonianze di esistenze che rigettano l’oggettività positivista, mettendo invece in risalto un’intensa tensione etica ed una dolorosa ansia morale.

Di seguito, un esempio della poetica del frammento, tratto dall’opera Canti orfici (1914) di Dino Campana (1885-1932), anch’esso poeta circoscrivibile all’interno della variegata e florida nebulosa letteraria vociana.

CREPUSCOLO MEDITERRANEO

Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esaltano, di lampade che si accendono, chi t’inscenò nel cielo più vasta più ardente del sole notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi nell’arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici? E le tue vie tortuose di palazzi e palazzi marini e dove il mito si cova? Mentre dalle volte un altro mito si cova che illumina solitaria limpida cubica la lampada colossale a spigoli verdi? Ed ecco che sul tuo porto fumoso di antenne, ecco che sul tuo porto fumoso di molli cordami dorati, per le tue vie mi appaiono in grave incesso giovani forme, di già presaghe al cuore di una bellezza immortale appaiono rilevando al passo un lato della persona gloriosa, del puro viso ove l’occhio rideva nel tenero agile ovale. Suonavano le chitarre all’incesso della dea. Profumi varii gravavano l’aria, l’accordo delle chitarre si addolciva da un vico ambiguo nell’armonioso clamore della via che ripida calava al mare. Le insegne rosse delle botteghe promettevano vini d’oriente dal profondo splendore opalino mentre a me trepidante la vita passava avanti nelle immortali forme serene. E l’amaro, l’acuto balbettìo del mare subito spento all’angolo di una via: spento, apparso e subito spento!

Il Dio d’oro del crepuscolo bacia le grandi figure sbiadite sui muri degli alti palazzi, le grandi figure che anelano a lui come a un più antico ricordo di gloria e di gioia. Un bizzarro palazzo settecentesco sporge all’angolo di una via, signorile e fatuo, fatuo della sua antica nobiltà mediterranea. Ai piccoli balconi i sostegni di marmo si attorcono in sé stessi con bizzarria. La grande finestra verde chiude nel segreto delle imposte la capricciosa speculatrice, la tiranna agile bruno rosata, e la via barocca vive di una duplice vita: in alto nei trofei di gesso di una chiesa gli angioli paffuti e bianchi sciolgono la loro pompa convenzionale mentre che sulla via le perfide fanciulle brune mediterranee, brunite d’ombra e di luce, si bisbigliano all’orecchio al riparo delle ali teatrali e pare fuggano cacciate verso qualche inferno in quell’esplosione di gioia barocca: mentre tutto tutto si annega nel dolce rumore dell’ali sbattute degli angioli che riempie la via.

D. Campana, Canti orfici, a cura di G. Grillo, Vallecchi, Firenze 1991.

 

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