I turbamenti di re Carlo

Carlo V d’Asburgo (1500-1558), l’imperatore del regno nel quale non tramonta mai il sole, alla vigilia della decisiva battaglia di Pavia (1525) contro Francesco I di Francia (1494-1547), afferra carta e penna e febbrilmente riporta nero su bianco i suoi pensieri, le sue riflessioni, i suoi turbamenti.

In questi appunti fugaci, in cui Carlo parla delle difficoltà economiche, ma anche, e soprattutto, della sua solitudine («I miei amici mi hanno abbandonato e mi hanno ingannato mentre ero in pericolo») e del suo profondo anelito alla pace («[…] mi sembra che la prima cosa che debbo ricercare, l’aiuto migliore che Dio potrebbe accordarmi, sia la pace»), uno dei sovrani più importanti ed influenti della storia si denuda, mostrandosi per quel che egli innanzitutto è: un uomo.

Un venticinquenne dal potere pressoché illimitato, analizzando senza riserve se stesso e coloro i quali lo circondano, inizia a comprendere di dover necessariamente fare affidamento solo ed esclusivamente sulla propria coscienza, e sull’aiuto divino, per la realizzazione ed il mantenimento di un regno ispirato a quella respublica christiana teorizzata dal suo Gran Cancelliere Mercurino Arborio di Gattinara (1465-1530), umanista grande ammiratore di Dante Alighieri.

«Mentre mi accingo a esaminare la mia situazione, mi sembra che la prima cosa che debbo ricercare, l’aiuto migliore che Dio potrebbe accordarmi, sia la pace. È una cosa bella da dire, ma difficile da avere, poiché tutti sanno che non si può averla senza il consenso del nemico. Perciò bisogna fare un grande sforzo: cosa facile da dire, ma difficile da compiere. Abbastanza spesso è difficile trovare il mezzo, anche se io mi struggo fino alle ossa. – Può sembrare che una buona guerra sia la soluzione migliore. Ma io non ho di che mantenere il mio esercito e ancor meno di che raffozzarlo, quando sia necessario. Mi è mancato il denaro a Napoli. E questo Regno ha abbastanza da fare per difendersi, se sarà assalito. La possibilità di ottenere denaro in questo Paese vanno esaurendosi ogni giorno di più e adesso pare che non si trovi niente.
I re d’Inghilterra non mi aiuta come un vero amico, né mi aiuta secondo gli impegni. I miei amici mi hanno abbandonato e mi hanno ingannato mentre ero in pericolo; gli uni e gli altri fanno di tutto per non più vedermi potente e per mantenermi nello stato precario in cui sono. – E per cominciare: ora che le milizie sono così vicine e pare che non possano più evitare di vincere o soccombere, mi sembra che davvero si debba mandare con ogni sollecitudine una buona somma di denaro al viceré, con una lettera di cambio o in altro modo, per mantenere e pagare il mio esercito, e per evitare che senza di questo si dissolva. Si può supporre che se sarà mantenuto, esso costringerà il re di Francia a combattere, cosa che non può essergli se non di grande giovamento, o a ritirarsi dall’Italia, cosa che gli tornerebbe a disonore; in ognuno di questi due casi, quando il re di Francia fosse reso inoffensivo e il suo esercito tornato in Francia e il Ducato di Milano riacquistato con sicurezza, bisognerebbe diminuire le spese, trattare bene i soldati rimasti, e ancor più quelli che venissero licenziati, per riaverli al bisogno. Ma su tutte queste speranze non devo fare grande assegnamento. – Tenuto conto di queste circostanze e del fatto che le cose non vanno bene per quanto riguarda la pace, che, come ho detto, non si può avere senza la volontà del nemico, né per quanto riguarda la guerra, che conduco con cattive speranze e ricomincerei con speranze ancora peggiori, – sempre per difetto di mezzi, – e mentre vedo e sento che il tempo passa e noi presto passeremo con lui, e io non vorrei passare così senza lasciare qualche buon ricordo di me, e quello che oggi è perduto non si riacquista domani, e sin qui non ho fatto nulla che risulti a mio onore, onde sarei molto da biasimare per avere differito ciò così a lungo; per tutte queste cause e per molte altre non vedrei nessuna ragione che mi impedisse di fare qualcosa di grande e non ne vedo nessuna di differire ciò ancora più a lungo e di non riuscire, col favore di Dio, a diventare più potente e a possedere in pace e in tranquillità quello che Gli è piaciuto donarmi; tenendo conto di tutto questo e ben ponderandolo, non so immaginare nessun altro mezzo col quale potrei ottenere un miglioramento altrettanto generale dei miei affari come con il viaggio in Italia. – Si potrebbero sollevare dubbi riguardo al denaro, riguardo alla reggenza del Paese e per altre ragioni. Per rimediare a tutto questo non vedo mezzo migliore che sollecitare subito il matrimonio dell’infanta di Portogallo e mio, e che ella venga qua il più presto possibile. E che il denaro offertomi insieme a lei sia la maggior somma possibile in contanti (a questo proposito va considerato se sia bene o no parlare contemporaneamente delle spezie); che si soddisfi il re d’Inghilterra e che i trattati rimangano in vigore e che egli non mariti sua figlia in Francia; e poi, cavare una buona somma da questi reami, con lo stesso pretesto di questo matrimonio, e a questo scopo radunare e licenziare le Cortes, e in tal caso lasciare l’infanta di Portogallo, che allora sarebbe mia moglie, reggente di questi reami, per governarli nel miglior modo, secondo i buoni consigli di coloro che le lascerei accanto. – Potrei così intraprendere il mio viaggio fin da quest’autunno, magnificamente e onorevolmente. Dovrei andare a Napoli, dove potrei appoggiarmi al reame, ricevere le mie corone, e nel prossimo inverno armare un esercito, per iniziare nella primavera successiva una grande impresa, offrendo al re d’Inghilterra di attuare il “gran disegno”. Se la pace si potesse avere onorevolmente, accoglierla, e cercarla sempre».

Cit. in K. Brandi, Carlo V, trad. it. di L. Ginzburg e E. Bassan, Einaudi, Torino 1961, pp. 207-209.

In copertina: Anthony Van Dick, Ritratto equestre dell’imperatore Carlo V, 1620.

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