L’uomo ciceroniano

Delle quattordici opere di carattere filosofico composte da Cicerone tra il 45 a.C. ed il 44 a.C., in un periodo di febbrile impeto creativo, il De officiis (I doveri) è l’ultima. Questo vero e proprio testamento spirituale non ha la consueta e prediletta forma del dialogo, ma quella inedita della lettera. Una lettera estesa, suddivisa in tre libri, indirizzata al figlio Marco.

Il I libro tratta di ciò che è onesto (honestum), in un’accezione particolare del termine, che indica al tempo stesso la bellezza morale e la buona fama ad essa conseguente, il II libro di ciò che è utile, infine il III dei rapporti, delle relazioni tra i due concetti, e secondo Cicerone ciò che è utile coincide sempre con ciò che è onesto. L’Arpinate giustifica così l’uccisione di Cesare: uccidere un uomo è un atto spregevole, certo, ma è onesto quando si tratta di un tiranno, e soprattutto quando lo si fa a vantaggio di tutti, dell’intera società, dell’intera cittadinanza, e non solo appannaggio di pochi, di una élite.

Il De officiis godrà di un’immensa fortuna. In particolar modo l’Umanesimo ne trarrà numerosi insegnamenti. In questo senso, proponiamo proprio il passo dell’opera in cui Cicerone fornisce la sua definizione di uomo. Sono numerosi i punti in contatto con l’antropocentrismo umanistico-rinascimentale, a dimostrazione dell’universalità e dell’importanza non solo delle convinzioni, ma dell’intera personalità dell’Arpinate: la ragione distingue l’uomo dagli animali, e grazie ad essa egli aspira alla verità, alla bellezza, all’armonia, all’ordine e alla creazione di una civiltà fondata su ideali di solidarietà e di giustizia.

«[11] Anzitutto a tutti gli esseri viventi la natura ha dato l’istinto di conservare se stessi, la vita ed il corpo, di evitare tutto ciò che può nuocere, e di ricercare e procacciare le cose necessarie al sostentamento della vita, come il cibo, il ricovero ed altre cose dello stesso genere. Ugualmente comune a tutti è l’istinto di procreare e la cura della prole. Ma fra l’uomo e la bestia v’è grandissima differenza. La bestia, solo in quanto è stimolata dal senso, conforma le sue attitudini a ciò che è vicino e presente, poco affatto curandosi del passato o del futuro. L’uomo invece, poiché è dotato di ragione e per mezzo di quella è in grado di cogliere le concatenazioni, vede le cause delle cose, non ne ignora i prodromi e per così dire gli antecedenti, confronta le cose simili e congiunge intimamente le cose future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita e preparare le cose necessarie per viverla.
[12] E questo stesso istinto naturale, mediante la forza della ragione unisce l’uomo agli altri uomini, crea una corrispondenza che si manifesta nel linguaggio e nella socievolezza, ispira soprattutto uno straordinario amore verso la prole, induce a desiderare adunanze e riunioni: per questi stessi motivi gli uomini cercano di procurarsi quelle cose che sono necessarie alla vita e alle sue comodità, e non solo per se stessi, ma per la moglie, per i figli, per tutti gli altri che essi amano e devono proteggere. Questo pensiero stimola gli animi e li rende più grandi in vista delle azioni da intraprendere.
[13] Ed è soprattutto propria dell’uomo la diligente ricerca del vero. Tanto che, non appena siamo liberi da faccende ed occupazioni, allora desideriamo vedere, ascoltare, conoscere cose nuove e, per condurre una vita piena di soddisfazioni, riteniamo necessaria anche la conoscenza dei fatti segreti e delle meraviglie della natura. Da ciò si comprende che ciò che è vero, semplice e sincero, è soprattutto conveniente alla natura dell’uomo. Una certa brama di preminenza è congiunta al desiderio di conoscere il vero, in modo che un animo ben nato a nessuno vuole essere soggetto, se non a chi dà precetti, a chi insegna, e a chi nell’interesse comune è investito di giusta e legittima autorità; dal che nasce la grandezza d’animo e il disprezzo delle cose umane.
[14] Né invero è piccolo privilegio della ragione umana che soltanto l’uomo possa conoscere cosa sia l’ordine, il decoro e la misura nei fatti e nelle parole. E così non v’è altro animale che conosca la bellezza, l’armonia, l’ordine delle cose visibili; e la ragione naturale trasportando per analogia queste proprietà dagli occhi all’animo, tanto più egli ritiene che si debbano conservare la bellezza, l’armonia e l’ordine nei detti e nei fatti, si guarda dal commettere atti indecorosi o di femminea mollezza, e, in ogni suo pensiero e azione, si dà cura che nulla si faccia o si pensi a capriccio. Di tutto questo si forma e si compone quell’onesto che noi consideriamo, il quale, anche se non è pubblicamente onorato, è tuttavia onorevole, e anche se non è lodato da nessuno, è per se stesso degno di lode».

Cicerone, I doveri, introd. e note di E. Narducci, trad. it. di A. Resta Barrile, Rizzoli (BUR), Milano 1987.

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