Attorno ai protagonisti dei Buddenbrook (1901), il primo romanzo di Thomas Mann (1875-1955), i vari Johann, Bethsy, Thomas e Christian, coloro i quali insomma compongono il nucleo familiare, gravitano innumerevoli altri personaggi, magari minori, ma pur sempre ricchi di fascino e degni di considerazione.
Tra questi ultimi, uno in particolare attira l’attenzione per originalità ed eccentricità: il mediatore Siegismund Gosch. Un individuo pittoresco, quasi grottesco, coltissimo letterato amante di Lope de Vega, dalla fisionomia e dagli atteggiamenti mefistofelici, a metà strada tra il celebre personaggio del Faust goethiano e Napoleone, che «si doleva sinceramente di non essere gobbo».
Thomas Mann lo introduce in tutta la sua bizzarria nel terzo capitolo della quarta parte del romanzo, quando Johann Buddenbrook si trova a dover affrontare, aiutato proprio dal mediatore Gosch, i comici e goffi impeti rivoluzionari dei cittadini di Lubecca (in questo passo dell’opera Johann Buddenbrook pronuncia davanti alla folla la straordinaria ed emblematica frase: «Non son neanche state accese le lampade… Mi pare che vada troppo in là questa rivoluzione»).
«Il console Buddenbrook attraversò rapidamente il suo vasto giardino. Quando uscì nella Bäckergrube, sentì dei passi dietro di sé, e vide il mediatore Gosch che, pittorescamente paludato in un lungo mantello, si recava anche lui alla seduta, su per la stradetta ripida. Sollevando con una mano lunga e magra il suo cappello da gesuita ed eseguendo con l’altra un gesto di deferenza, egli pronunciò con voce soffocata, a denti stretti: – Signor console… la saluto.
Questo mediatore Siegismund Gosch, uno scapolo sulla quarantina, era nonostante i suoi atteggiamenti l’uomo più onesto e più buono della terra; ma era un originale, uno spirito bizzarro. La sua faccia sbarbata si faceva notare per il naso adunco, il mento appuntito e sporgente, i lineamenti marcati e la bocca larga dagli angoli rivolti all’ingiù e dalle labbra sottili, ch’egli teneva sempre serrate con un’espressione cupa e malvagia. Il suo intento – e ci riusciva abbastanza bene – era di fabbricarsi un volto d’intrigante, bello, feroce e diabolico, di rappresentare un personaggio perfido e interessante, che incutesse terrore, un che di mezzo fra Mefistofele e Napoleone… I capelli grigi se li pettinava in giù sulla fronte, per darsi un’aria più fosca. Si doleva sinceramente di non essere gobbo. Fra gli abitanti della vecchia città commerciale, era una figura stravagante e simpatica. Era uno dei loro, perché mandava avanti da buon cittadino la sua piccola, solida, e, nella sua modestia, rispettata agenzia di compra e vendita; però nel suo ufficio stretto e buio c’era una grande libreria piena di opere poetiche in tutte le lingue, e correva voce che da vent’anni egli attendesse alla traduzione di tutti i drammi di Lope de Vega. Una volta, in una recita di dilettanti, aveva sostenuto la parte di Domingo nel Don Carlos di Schiller; quello era stato il punto culminante della sua vita. Mai era uscita dalle sue labbra una parola volgare, e anche nei colloqui d’affari egli pronunciava le frasi usuali con i denti stretti e con una mimica, come se dicesse: “Ah, ribaldo! Fin nella tomba sia abbominio ai tuoi avi!” In un certo senso, egli era l’erede e il successore del defunto Jean-Jacques Hoffstede; però il suo carattere era più tetro e più patetico, e gli mancava del tutto la giovialità scherzosa che l’amico del vecchio Johann Buddenbrook aveva portato in salvo con sé dal secolo passato. Un giorno perdette in Borsa sei talleri e mezzo su due o tre titoli che aveva comprato per speculazione. Allora il suo senso drammatico lo travolse, e lo spinse a dare spettacolo. Si abbandonò su una panca, in una posa come se avesse perduto la battaglia di Waterloo, si premette un pugno sulla fronte e ripeté parecchie volte lanciando sacrileghe occhiate verso il cielo: Ah, maledetto! – Siccome i piccoli guadagni tranquilli e sicuri che egli ritraeva dalla vendita di un terreno o di una casa in fondo in fondo lo annoiavano, quella perdita, quel colpo tragico che il cielo aveva inflitto al perfido intrigante, fu per lui un godimento, una soddisfazione che assaporò per molte settimane. A chi gli diceva: – Ho sentito che ha avuto sfortuna, signor Gosch… Mi dispiace molto… – egli rispondeva: – Eh, caro amico! Uomo non educato dal dolore riman sempre bambino! -. Naturalmente nessuno capiva. Erano parole di Lope de Vega? Stava di fatto che Siegismund Gosch era un uomo coltissimo e strano».
Thomas Mann, I Buddenbrook, trad. it. di Anita Rho, Giulio Einaudi Editore, Torino 2014, pp. 166-168.
Morto Johann Buddenbrook, Gosch, invecchiato ma non meno «tenebroso» e «assetato di cose straordinarie», dimostra tutto il suo attaccamento all’illustre famiglia di commercianti sostenendo la carica a senatore di Thomas Buddenbrook, da poco tempo sposato con la splendida Gerda Arnoldsen, nei confronti della quale il mediatore prova una vera e propria venerazione.
«[…] Siegismund Gosch, il vecchio mediatore Gosch, andava attorno come un leone ruggente, giurando che avrebbe strangolato senza tanti discorsi chiunque non fosse disposto a votare per il console Buddenbrook.
– Il console Buddenbrook, signori miei… quello sì che è un uomo! Ero al fianco di suo padre quando nel ’48 domò con una parola la furia del popolo scatenato… Se a questo mondo ci fosse giustizia, già suo padre, già il padre di suo padre avrebbe dovuto far parte del Senato…
In fondo però non era tanto la persona del console Buddenbrook che accendeva a quel modo l’animo del signor Gosch, quanto la giovane signora Buddenbrook nata Arnoldsen. A dire il vero, il mediatore non aveva mai scambiato una parola con lei. Egli non apparteneva all’ambiente dei ricchi commercianti, non era invitato ai loro pranzi e non scambiava visite con loro. Ma, come s’è detto, Gerda Buddenbrook aveva fatto appena le sue prime apparizioni in città, che già lo sguardo del tenebroso mediatore, sempre assetato di cose straordinarie, l’aveva adocchiata. Con sicuro istinto aveva tosto capito che quell’apparizione era tale da poter mettere un po’ più di contenuto nella sua vita insoddisfatta, e s’era votato come uno schiavo, anima e corpo, a lei che sì e no lo conosceva di nome. Da allora, i suoi pensieri si aggirarono intorno a quella creatura nervosa e riservatissima alla quale nessuno l’aveva presentato, come la tigre intorno al domatore: con la stessa tetraggine, con lo stesso atteggiamento tra mansueto e insidioso con cui per istrada si toglieva davanti a lei, meravigliata, il cappello da gesuita. Questo mondo mediocre non gli offriva alcuna occasione di commettere a vantaggio della dama qualche azione scellerata e nefanda, della quale egli, fosco e deforme, avvolto nel suo mantello, con diabolica impassibilità si sarebbe proclamato autore. Stucchevoli consuetudini non gli permettevano di innalzare quella donna su un trono imperiale, mediante omicidi, misfatti e astuzie sanguinose. Non gli restava altro che votare in Municipio a favore di suo marito, e, forse, dedicarle un giorno la traduzione di tutti i drammi di Lope de Vega».
Ivi, pp. 376-377.
Il mediatore Siegismund Gosch è un personaggio straordinario, eccezionalmente poetico, un unicum all’interno dell’artefatto e sgradevole universo borghese messo in scena da Mann in cui, suo malgrado, è costretto a vivere. Per la sua padrona, Gerda Buddenbrook, farebbe di tutto, commetterebbe persino qualche delittuosa, dissennata e sciagurata azione, spargerebbe del sangue ispirato dal suo animo romantico e mefistofelico, ma le leziose convenzioni sociali del suo mondo non glielo permettono. E così resta nel suo studio stretto e buio, impegnato nella monumentale traduzione dell’adorato Lope de Vega, e nella sognante contemplazione dell’irraggiungibile Gerda.
In copertina: Mark Matveevič Antokol’skij (1843-1902), Mefistofele.