A volte lo guardo negli occhi… e vi leggo tante cose, ma le labbra le tiene chiuse. Più tardi nella vita, che forse gli farà tenere le labbra ancor più serrate, deve pur avere una possibilità di parlare…
Thomas Mann, I Buddenbrook, 1901, Edmund Pfühl su Hanno.
Hanno, l’erede tanto desiderato da Thomas Buddenbrook, è quanto ci possa essere di più lontano dal prototipo del commerciante. Fragile e cagionevole, impacciato e poco incline allo studio, ha ereditato dalla madre, la meravigliosa Gerda, le ombre azzurrine intorno agli occhi e, soprattutto, la passione per la musica.
Guidato dal maestro Pfühl, che «gli pareva un grande angelo che ogni lunedì pomeriggio lo prendesse sulle braccia per innalzarlo dalla miseria quotidiana a un regno sonoro di dolce e consolante austerità» [1], Hanno suona, e non si limita a riprodurre le opere dei più grandi compositori, no, nonostante la giovanissima età, compone egli stesso.
Nel giorno del suo ottavo compleanno, il 15 aprile del 1869, dinanzi alla famiglia, accompagnato dalla madre, pregevole violinista, Hanno esegue al pianoforte una piccola fantasia da lui ideata. E sono straordinarie le pagine dei Buddenbrook (1901) che Thomas Mann (1875-1955) dedica all’esecuzione del pezzo, mettendo in risalto, con l’eccezionale maestria letteraria propria del grandissimo scrittore, le emozioni impetuose che sconvolgono l’animo del piccolo artista, riflettendosi sul suo corpicino gracile.
«Hanno, pallido per l’agitazione, a tavola non aveva mangiato quasi nulla; ma adesso era tutto preso dalla sua opera, che, ahimè, sarebbe durata solo due o tre minuti, e, assorto e rapito, aveva dimenticato ogni cosa intorno a sé. Quella piccola composizione era di natura piuttosto armonica che ritmica, ed era bizzarro il contrasto fra i mezzi musicali, primitivi, elementari, infantili, e l’importanza, la passione, quasi la raffinatezza con cui quei mezzi erano accentuati e messi in valore. Hanno sottolineava ogni passaggio di tono con un cenno in avanti della testa, prolungato e obliquo, e seduto sull’orlo della seggiola, cercava di dare un valore sentimentale ad ogni accordo servendosi del pedale e della sordina. Difatti, quando il piccolo Hanno otteneva un effetto – anche se questo non si limitava esclusivamente a lui stesso – era un effetto di natura meno sensitiva che sentimentale. Il più semplice artificio armonico veniva ad assumere, mediante l’accentuazione marcata e ritardante, un significato enigmatico e prezioso. Sonorità improvvise che si smorzavano languidamente davano a un accordo, a una nuova armonia, a un attacco, mentre Hanno inarcava le ciglia e compieva col busto un movimento di elevazione, di levitazione, uno strano e sorprendente potere sui nervi… E poi venne il finale, il finale tanto caro a Hanno, in cui quell’esaltazione primitiva toccava il suo culmine. Sommesso, puro come un ritocco di campana tremolava l’accordo di mi minore, circonfuso dai perlati “glissando” del violino… Crebbe, aumentò, s’arrotondò adagio adagio; giunto al “forte” Hanno vi aggiunse il do diesis dissonante per passare alla tonalità fondamentale, e mentre lo Stradivario spumeggiava con sonori ondeggiamenti anche intorno a quel do maggiore, egli rinforzò la dissonanza, con tutto il suo vigore, fino al fortissimo. Ma poi rimandò la risoluzione, la negò a se stesso e agli ascoltatori. Che cosa sarebbe stata, quella risoluzione, quell’incantevole, libera ricaduta nel si maggiore? Felicità senza pari, supremo, dolcissimo adempimento. La pace, la beatitudine, il paradiso!… Non ancora… non ancora! Ancora un breve indugio, un ritardo, un attimo di tensione che deve diventare intollerabile perché sia tanto più squisita la liberazione… Per un ultimo, supremo istante gustare ancora quel desiderio prepotente e irrequieto, quella bramosia di tutta l’anima, quell’estrema e convulsa tensione della volontà che respinge tuttavia l’adempimento e la liberazione perché sa che la felicità dura un attimo solo… Hanno si raddrizzò lentamente sul busto, i suoi occhi si dilatarono, le sue labbra chiuse tremarono; a brevi scatti vibranti egli aspirò l’aria attraverso le narici… e poi la voluttà non poté più essere frenata. Venne, lo colse, ed egli non oppose più resistenza. I suoi muscoli s’allentarono, stanco e sopraffatto egli reclinò il capo su una spalla, chiuse gli occhi, e un sorriso malinconico, quasi doloroso, di gaudio ineffabile gli apparve sulle labbra mentre con sordina e pedale, fra i sussurri, i fremiti, gli ondeggiamenti del violino, il suo tremolo, accompagnato solo da cadenze di bassi, scivolò nel si maggiore, crebbe rapidamente fino al fortissimo e si troncò in una breve impennata senza eco» [2].
Hanno sente la musica non solo con il cuore, con lo spirito, ma anche con il corpo, ed i suoi gesti rispecchiano un’emozione torrenziale, travolgente. La musica scorre nelle sue vene scure insieme al sangue, ma nessun familiare può comprenderlo, e ciò che egli prova durante l’esecuzione non si comunica all’uditorio.
Un pomeriggio il piccolo Hanno si rende protagonista di un increscioso episodio straordinariamente emblematico, che annuncia con spaventoso anticipo il tragico destino suo e dell’intera dinastia dei Buddenbrook. Solo in salotto, si avvicina al grosso quaderno di famiglia dal taglio dorato, sorta di laica bibbia borghese contenente la secolare cronaca della stirpe.
«Hanno scivolò indolentemente giù dall’ottomana e andò verso la scrivania. Il quaderno era aperto alla pagina dov’era l’albero genealogico dei Buddenbrook, con grappe, rubriche e date ben chiare, scritto da parecchi antenati, e per ultimo dal babbo. Appoggiando un ginocchio alla seggiola, i morbidi ricci castani contro il palmo della mano, Hanno osservò il manoscritto un po’ in tralice, con la serietà blandamente critica e un po’ sprezzante dell’assoluta indifferenza, e la mano libera giocherellava intanto con la penna della mamma, ch’era metà d’oro e metà d’ebano. I suoi occhi vagavano su titti quei nomi maschili e femminili affiancati e incolonnati, in parte scritti con ghirigori all’antica e ampi svolazzi, con inchiostro scolorito e giallastrao o nero carico, che portavano ancora resti di polverino dorato… Lesse anche, giù in fondo, nella calligrafia minuta e frettolosa del babbo, sotto quello dei genitori anche il proprio nome: Justus, Johann, Kaspar, nato il 15 aprile 1861, e ciò lo divertì un poco. Poi si tirò su, prese con noncuranza la riga e la penna, collocò la riga sotto il suo nome, percorse ancora una volta con l’occhio tutto quel brulichio geneaologico; e infine, con aria quieta e con cura svagata, macchinale e trasognato tracciò con la penna d’oro due belle righe nette attraverso tutto il foglio, la superiore un po’ più spessa dell’infieriore, così come doveva fare su ogni pagina del suo quaderno d’aritmetica. Poi considerò l’opera sua col capo un po’ piegato su una spalla, e se andò» [3].
L’insano e profetico gesto suscita l’ira funesta del padre, che prima inveisce a parole contro il figlio per poi colpirlo in pieno volto con il fascicolo arrotolato. Hanno, portandosi la mano alla guancia risponde, balbettando: «Credevo… credevo… che dopo non venisse più nulla….». E in effetti così sarà.
Thomas Buddenbrook, pratico uomo d’affari, non può comprendere la sensibilità artistica del figlio, il suo sconfinato e viscerale amore per la musica. Così i due sono divisi da una distanza incolmabile, a tal punto che Hanno, in presenza del padre, prova un timore enorme, che lo annienta e, di fatto, lo priva dell’uso della parola. Un punto d’incontro, un compromesso tra di loro è impossibile. Solamente in una circostanza Thomas e Hanno si ritrovano vicini, vicinissimi, riuscendo persino a comprendersi.
Il ricco senatore teme che la moglie Gerda abbia un’adultera relazione con l’avvenente e giovane tenente di origine renana Renee Maria von Throta. Ed è in questa occasione che finalmente padre e figlio raggiungono l’intesa. Un’intesa tacita, estemporanea, fondata sulla preoccupazione che sfocia presto in paura, e sulla sofferenza.
«E poi, improvvisamente, Hanno udì sopra di sé qualcosa che non aveva niente a che fare con quel discorso, una voce sommessa, angosciata e quasi supplichevole che non aveva mai udita e tuttavia era la voce di suo padre: – Il tenente è con la mamma da più di due ore… Hanno…
Ed ecco, a quel suono il piccolo Johann alzò gli occhi bruno-dorati, e li fissò grandi limpidi e amorosi come non mai sul volto del padre, quel volto dalle palpebre arrossate sotto le sopracciglia chiare, e dalle guance smorte e un po’ gonfie, dominate dalle lunghe punte rigide dei baffi. Dio sa quanto poteva aver capito. Ma una cosa era certa, e lo sentirono entrambi, che in quell’attimo, mentre i loro sguardi s’incontravano, ogni indifferenza e freddezza, ogni disagio e ogni malinteso erano scomparsi fra loro, che Thomas Buddenbrook ora e sempre quando non si fosse trattato di vigore, di abilità e di energica avvedutezza, ma di paura e di sofferenza, poteva contare sicuramente sulla confidenza e sulla devozion del figlio» [4].
Insieme alla musica è il teatro l’altra grande passione di Hanno. In particolar modo adora Richard Wagner – affinità con il suo creatore, Thomas Mann, anch’egli, soprattutto in gioventù, grande estimatore dell’autore del Lohengrin. Ed è proprio quest’opera che Hanno, una domenica, ammira a teatro.
«Poi la felicità s’era avverata. Era scesa su di lui, consacrazione e delizia, con i suoi brividi segreti, i suoi palpiti, i suoi singhiozzi che scuotono improvvisi l’anima, tutta la sua ebbrezza estatica e insaziabile… Certo nel preludio i violini mediocri avevano stonato alquanto, e quell’uomo grasso e tronfio dalla barba rossiccia era arrivato nella navicella un po’ a sbalzelloni. Nel palco vicino poi c’era il tutore, il signor Stephan Kistenmaker, e aveva brontolato contro quei divertimenti che distoglievano il ragazzo dai suoi doveri. Ma la dolce, trasfigurata magnificenza dei suoni che udiva lo sollevò al di sopra di tali miserie…
Poi era venuta la fine. La gioia canora e sfolgorante era ammutolita e spenta; con la testa in fiamme, ritrovandosi in camera sua, si era reso conto che appena un paio d’ore di sonno lo separavano dalla grigia realtà quotidiana. Allora lo aveva vinto una di quelle crisi di sconforto che conosceva tanto bene. Aveva sentito quanto male ci possa fare la bellezza, come possa gettarci nella vergogna e nella struggente disperazione, e annientare tuttavia in noi anche il coraggio e la capacità di vivere la vita comune. Si era sentito così terribilmente disperato, e oppresso da un peso così immane, che, come tante altre volte, aveva pensato che non potevano essere soltanto i suoi crucci personali a opprimerlo: fin dal principio un carico aveva gravato sulla sua anima, e l’avrebbe schiacciato un giorno o l’altro» [5].
Hanno è uno spirito artistico, poetico, musicale e come tale schivo e solitario. Non ha che un amico, il selvaggio – nel più nobile senso del termine – e aspirante scrittore Kai Graf Mölln, erede di una nobile famiglia oramai decaduta. Quando Hanno muore prematuramente, ancora giovanissimo, stroncato dal tifo, ponendo fine, ora davvero, all’illustre dinastia dei Buddenbrook, le donne della famiglia, le sole rimaste in vita eccetto l’ipocondriaco, instabile e inaffidabile Christian, fratello di Thomas e Tony, ricordano la struggente, ultima visita di Kai all’amico.
«E poi rievocarono l’ultimo episodio… la visita di quel piccolo conte cencioso che era penetrato quasi a forza nella camera dell’ammalato… Udendo la sua voce Hanno aveva sorriso, benché non riconoscesse già più nessuno, e Kai gli aveva coperto tutt’e due le mani di baci.
– Come, gli ha baciato le mani? – chiesero le signorine Buddenbrook.
– Sì, molte volte.
Tutte rimasero un poco soprappensiero» [6].
Hanno Buddenbrook è l’incarnazione dell’artista. Nell’artefatto mondo borghese rappresenta l’infrazione, la rottura, la fantasia, l’irregolarità. E nei suoi atteggiamenti, nelle sue disposizioni di spirito, nelle sue innate sofferenze, ricorda un altro celebre artista della letteratura, forse il più celebre e più grande nella sua completezza: Stephen Dedalus.
NOTE
[1] Thomas Mann, I Buddenbrook, trad. it. di Anita Rho, Giulio Einaudi Editore, Torino 2014, p. 460.
[2] Ivi, pp. 462-463.
[3] Ivi, pp. 476-477.
[4] Ivi, p. 591.
[5] Ivi, p. 640.
[6] Ivi, p. 688.
In copertina: Antonio Mancini, Lo studio, 1875.