L’autentico Moretti, l’incomprensibile Garrone ed il pretenzioso Sorrentino

Estemporanee riflessioni sui tre film italiani in concorso alla sessantottesima edizione del Festival di Cannes.

Nota dell’autore. L’articolo contiene delle anticipazioni sulle pellicole in questione. Quindi, se non le avete ancora viste, ma avete intenzione di vederle, al fine di evitare sgradevoli reazioni ed isterismi vi consiglio di non procedere nella lettura. Praemonitus praemunitus.

Il migliore è senza dubbio Mia madre di Nanni Moretti. Pellicola che si caratterizza per la sincerità, per l’autenticità, per la chiarezza nel veicolare e diffondere le emozioni ed i sentimenti umani.

Moretti parla semplicemente e commuove, penetra con grazia nell’intimità dello spettatore, descrive la vita per quella che è, senza arrovellarsi in astrusi ed improduttivi ragionamenti. Si esce dalla sala e non ci si deve domandare nulla, il film ha parlato così chiaramente al nostro cuore che interpretare non è necessario, anzi, farlo sarebbe solamente un inutile e sterile esercizio intellettualistico che priverebbe Mia madre di quella poesia intimamente umana che lo caratterizza.

L’opera di Moretti è immediata e asciutta, è questa la sua grande forza, drammatica ed al tempo stesso ironica, soprattutto grazie all’egocentrico attore Barry Huggins (interpretato da un sorprendente John Turturro). Mia madre ci rattrista, negli splendidi occhi di una bravissima Margherita Buy il dolore si riflette in tutta la sua spietatezza. Moretti parla di uno dei distacchi più tormentosi e amari nella vita di un uomo, e a chi c’è già passato ricorda con pacatezza, come un fratello, tutta l’angoscia di quell’orribile momento, mentre a chi dovrà passarci spiega con semplicità ed acume come sarà, consigliandogli magari, ma con un lieve sussurro e senza pretese, di aver maggior tatto ed affetto nei confronti di chi ci ha messo al mondo.

Il racconto dei racconti – Tale of Tales di Matteo Garrone è un film di genere, e il genere o piace oppure non piace, non ci sono vie di mezzo. A me, per esempio, non piace. Personalmente credo che la fiaba riportata cinematograficamente perda incisività. Imporre allo spettatore la fisionomia di un personaggio, di una creatura straordinaria, di un luogo annienta quella componente immaginaria che sta alla base di una fiaba e che è soprattutto la lettura a stimolare e ad alimentare.

Nel titolo ho definito Garrone incomprensibile. Perché? Beh, perché per quanto mi sforzi proprio non riesco a comprendere come un regista autore di pellicole come Gomorra e, soprattutto, Reality, abbia sentito l’impellente bisogno di confrontarsi con un tale genere cinematografico. Un mistero. Tanto per intenderci, come se Cesare Pavese avesse deciso, ad un certo punto della sua carriera letteraria, di scrivere un romanzo di fantascienza. Assurdo ed incomprensibile, appunto.

Comunque, del Racconto dei racconti davvero eccezionale l’ambientazione, che esalta alcune pregevoli ed inestimabili perle del nostro paese: il Palazzo Reale di Napoli, Palazzo Vecchio di Firenze, il Castello di Sammezzano di Reggello (Firenze), Civita di Bagnoregio (Viterbo, Lazio), il Castello Caetani (Sermoneta, Lazio), la gravina di Petruscio e le Grotte di Dio (Mottola, Puglia), le Gole dell’Alcantara (Sicilia), il Castello di Roccascalegna (Chieti, Abruzzo), il Castello di Donnafugata (Ragusa, Sicilia), il Castel del Monte (Andria, Puglia) e le Vie Cave di Sovana (Grosseto, Toscana).

Veniamo infine a Youth – La giovinezza di Paolo Sorrentino. Tra i tre film italiani in concorso alla sessantottesima edizione del Festival di Cannes il peggiore. Sorrentino questa volta è davvero pretenzioso, vanitoso, frivolo, intellettualmente aristocratico e dunque a tratti incomprensibile. Ebbene, quella brillante e sincera chiarezza che caratterizza Mia madre nel film del regista della Grande bellezza è totalmente assente. Rispetto alla pellicola di Moretti siamo agli antipodi. La giovinezza è un esercizio cinematografico malriuscito, un calderone di massime declamate a buon mercato e sentimenti banali in cui regna la confusione. E poi questo ricercare l’ordinario nello straordinario alla lunga stanca, annoia, infastidisce.

Un elitarismo repellente caratterizza il film. Alcune scene poi sono davvero agghiaccianti: terribile quando il vecchio compositore Fred Bellinger (Michael Caine) dirige una mandria di mucche al pascolo – e pensare che in un tale scenario si poteva tentare di dare vita ad un primordiale rapporto panteistico tra l’artista e la natura; addirittura vomitevole l’incubo di sua figlia (Rachel Weisz). Folle la scelta di far interpretare all’attore Jimmy Tree (Paul Dano), perseguitato dal suo vecchio personaggio-robot (tema già ampiamente trattato, e bene, da Iñárritu in Birdman) nientepopodimeno che Adolf Hitler, elemento grottesco straordinariamente fuori luogo.

Citare Novalis è becero manierismo. Un poeta ed uno scrittore eccezionale, certo, ma per chi lo conosce, e la stragrande maggioranza degli spettatori ovviamente ignora chi sia. Il cinema ha una funzione sociale oltreché spettacolare da assolvere, soprattutto un certo tipo di cinema, al quale Sorrentino sono sicuro voglia appartenere. Il regista ha la fortuna di giungere a milioni di persone, e come tale deve assumersi delle responsabilità. Moretti lo ha sempre fatto, Garrone pure – in un modo o nell’altro anche con l’ultima pellicola -, Sorrentino invece, dopo la vittoria dell’Oscar, sembra aver dimenticato ciò, ed essere piuttosto interessato ad arroccarsi su posizioni che gli garantiscano l’approvazione ed il consenso dell’industria Hollywood.

Tra tutti i personaggi che compaiono nella Giovinezza ne salvo uno solo: Maradona. Il regista napoletano dimostra almeno di non aver dimenticato le proprie origini. Anche se immagino che per gli amanti di Marx sia davvero doloroso vedere il ritratto del Moro tatuato sulla schiena del Pibe de Oro.

Personalmente nel film di Sorrentino mi è inoltre dispiaciuta moltissimo la banalizzazione di un atto come il suicidio. Il regista Mick Boyle (Harvey Keitel), vecchio ed intimo amico di Bellinger, si getta dal balcone dopo un’ultima e cocente delusione professionale. La celebre attrice Brenda Morel (Jane Fonda) ha rifiutato la parte di protagonista nella pellicola che egli considera il suo testamento, preferendo di partecipare ad una serie televisiva in cui la ricoprono di milioni. Boyle sa bene che senza la Morel mai nessun produttore gli permetterà di realizzare il film e allora, al culmine della disperazione, si uccide. Ebbene, senza un’indagine psicologica approfondita, Sorrentino mette in scena il suicidio come mera soluzione irrazionale affatto ponderata, ma istintiva, conseguenza dello sconforto. Un’interpretazione riduttiva, che serve solamente ad innescare un finale convenzionale – nella decisione di tornare, da parte di Bellinger, a dirigere un’orchestra – ed eccessivamente incredibile – nella decisione, sempre da parte del compositore, di andare a trovare dopo innumerevoli anni la moglie Melanie (Sonia Gessner), che durante tutto il film viene spacciata per morta ed invece è solo impazzita.

Concludendo, concedetemi quella che potrebbe sembrare una sgradevole cattiveria. Uscendo dalla sala dopo aver visto La giovinezza mi sono chiesto: e se Sorrentino fosse il Baricco del cinema? Mi spiego subito. Se Sorrentino, pur esaltato dalla contemporaneità come un grande regista, al cospetto di cineasti del calibro di Kubrick, Ėjzenštejn, Fellini, Godard, Buñuel, Pasolini, sia in realtà un’insignificante nullità, così come un’insignificante nullità è Baricco, pur idolatrato dall’editoria corrotta e da migliaia di lettori soggiogati, ingannati, al cospetto di scrittori enormi come Dostoevskij, Tolstoj, Mann, Joyce, Proust? La mia ingenita e sconfinata passione per la letteratura mi ha subito e fortunatamente condotto alla consapevolezza che autori come Baricco non meritano di essere letti. Purtroppo non ho mai nutrito la stessa passione per il cinema, e se miei sospetti si rivelassero davvero fondati, significherebbe che scrivendo questo articolo, ma soprattutto vedendo i film di Sorrentino ho solamente perduto del tempo prezioso, che potevo dedicare ad altro, o meglio, ad Altri. Un errore imperdonabile.

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