Tra i pittori russi più importanti del XIX secolo, vi è certamente Ivan Nikolaevič Kramskoj (1837-1887). Tra i fondatori del gruppo di realisti anti-accademici denominato Peredvižniki [1], di cui fu l’indiscusso leader intellettuale per circa un ventennio, scrisse pagine importanti della critica d’arte russa, e durante tutta la sua vita si batté per il processo di democratizzazione della stessa.
Kramskoj fu un eccezionale ritrattista – non si limitò mai a definire la fisionomia del soggetto ritratto, ma tentò di esplorarne i profondi ed oscuri anfratti psicologici -, eppure il suo più grande e celebre capolavoro, Cristo nel deserto (1872), che rappresenta uno dei momenti più elevati dell’intera arte russa, non appartiene a questo genere di dipinti.

Il quadro di Kramskoj persegue un obiettivo ben preciso: l’umanizzazione di Cristo, la rivalutazione terrena del figlio di Dio. Cristo è innanzitutto, e prima di ogni altra cosa, un uomo, e come tale soffre. In particolar modo, il volto del Cristo di Kramskoj è una delle rappresentazioni artistiche più riuscite del dolore. Del dolore e della fatica. Sono infatti la sofferenza, la stanchezza e la spossatezza a solcare, sotto forma di profonde e lunghe rughe, il volto di quell’uomo provato che, seduto su di una roccia, immerso in un paesaggio arido, desolato e, soprattutto, improduttivo, fissa il vuoto e stringe forte le mani.
Il Cristo di Kramskoj è al limite delle sue possibilità umane, deve ricorrere alle sue ultime energie psico-fisiche per poter resistere ancora al digiuno ed alle tentazioni. Già, perché i quaranta giorni trascorsi da Cristo nel deserto, sono caratterizzati dalle celebri tre tentazioni demoniache:
«1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. 2 E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. 3 Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane”. 4 Ma egli rispose: “Sta scritto:
Non di solo pane vivrà l’uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.
5 Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio 6 e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto:
Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo,
ed essi ti sorreggeranno con le loro mani,
perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede”.
7 Gesù gli rispose: “Sta scritto anche:
Non tentare il Signore Dio tuo”.
8 Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: 9 “Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai”. 10 Ma Gesù gli rispose: “Vattene, satana! Sta scritto:
Adora il Signore Dio tuo
e a lui solo rendi culto”.
11 Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano » [2].
Cristo ha detto no, ha rifiutato le lusinghiere proposte del diavolo, ma quanto gli è costato ciò! Ed il Cristo di Kramskoj sembra sentir ancora rimbombare dentro le sue orecchie screpolate, spellate dal sole le parole invitanti di Satana. Ed il suo volto straziato, deformato dalle sofferenze tradisce una feroce e devastante lotta interiore tuttora in atto.
Cristo è un uomo, Cristo è l’uomo, e come tale non può restare indifferente a simili tentazioni. Per questo motivo il suo rifiuto assume i connotati del sacrificio. Un primo sacrificio, prologo di quello definitivo e decisivo della croce.
Parlando di Ivan Kramskoj è doveroso un riferimento al più grande scrittore russo, e per quanto mi riguarda non solo russo, di tutti i tempi: Fëdor Dostoevskij (1821-1881). I due furono ottimi amici, ed il pittore scrisse parole illuminanti, rivolte al collezionista Tret’jakov, riguardo l’ultimo e più imponente romanzo dell’autore, I fratelli Karamazov (1879), dove peraltro Dostoevskij cita proprio un dipinto di Kramskoj, Il contemplatore (1876), per descrivere il parricida Smerdjàkov:
«Non sapevo che posto occupasse Dostoevskij nel vostro mondo spirituale, sebbene, credo, il defunto avesse un’enorme importanza per ogni persona, che ritenesse la vita una profonda tragedia e non una festa. Finiti i Karamazov (e durante la lettura) mi sono più volte guardato attorno con orrore, e mi sono stupito che tutto fosse rimasto come prima, che il mondo non avesse cambiato asse di rotazione. Dopo la riunione di famiglia dal vecchio Zosima, dopo “Il Grande Inquisitore”, ci sono ancora uomini che derubano i loro simili, c’è la politica che professa apertamente ipocrisie, ci sono vescovi intimamente convinti che Cristo sia un loro affare e la pratica della vita il nostro: in una parola è talmente profetico, fiammeggiante, apocalittico, che sembra impossibile restare nello stesso posto dove eravamo ieri, provare gli stessi sentimenti, pensare a qualcosa che non sia il giudizio universale. Vorrei soltanto poter dire che Voi ed io, verosimilmente non siamo soli, ci sono molte anime e cuori in rivolta. […] Dostoevskij rappresenta sicuramente la nostra coscienza patria!» [3].
È possibile trovare numerose affinità tra l’arte di Kramskoj e la letteratura di Dostoevskij. L’indagine psicologica condotta dal pittore attraverso la realizzazione dei ritratti, ricorda quella che Dostoevskij con sapiente ed inarrivabile maestria attua su tutti i personaggi delle sue opere. Concentrandoci poi sull’opera in questione di Kramskoj, il suo Cristo ricorda molto l’Uomo-Dio teorizzato da Kirillov, l’ingegnere nichilista protagonista dei Demoni (1871). In fin dei conti, quello di Cristo non è forse un suicidio?
Attraverso il suo splendido quadro Kramskoj umanizza Cristo, lo riporta ad una dimensione terrena, proprio come Dostoevskij aveva fatto qualche anno prima nell’Idiota (1869), riferendosi proprio ad un capolavoro artistico, Il corpo di Cristo morto nella tomba (1521) di Hans Holbein il Giovane. Un discorso simile verrà affrontato anche da Lev Tolstoj (1828-1910), il Tolstoj post 1881, ergo post conversione, in un discorso più ampio e generale di ridimensionamento terreno della religione che culminerà nel Tolstojsmo e di cui sono presenti numerosi accenni nel suo ultimo romanzo, Resurrezione (1899).
Infine un breve accenno ai già citati Fratelli Karamazov. Come abbiamo visto poco fa, Kramskoj parla a Tret’jakov del Grande inquisitore, il poema di Ivan Karamazov che rappresenta un tesoro letterario universale e di inestimabile valore, che contribuisce in maniera determinante a rendere l’intero romanzo il più grande capolavoro di Dostoevskij. Ebbene, non è affatto escluso che lo scrittore, nel creare il Cristo protagonista del Grande inquisitore, abbia proprio tratto ispirazione dal Cristo di Kramskoj [4]. Sono numerosi infatti i tratti in comune tra i due, entrambi Uomini ancor prima che Salvatori, Messia, Profeti e figli di Dio.
NOTE
[1] I Peredvižniki (in italiano “itineranti” oppure “ambulanti”), fu un gruppo di artisti realisti ed anti-accademici russi, il cui obiettivo era la democratizzazione dell’arte, la sua diffusione nelle campagne. Tra i maggiori componenti dell’associazione ricordiamo, oltre a Kramskoj, pittori del calibro di Leonid Pasternak (il padre del premio Nobel Boris), Vasilij Grigor’evič Perov, Ivan Ivanovič Šiškin ed Il’ja Efimovič Repin.
[2] Dal Vangelo secondo Matteo.
[3] Lettera di Kramskoj a P.M. Tret’jakov (14 febbraio 1881), in I.N. Kramskoj, Pis’ma, tt. I-IV, Moskva, 1965-1966, t. II, pp. 60-61.
[4] Claudia Olivieri, Dostoevskij: l’occhio e il segno, Rubettino, 2003, p. 62.
In copertina: Ivan Nikolaevič Kramskoj, Autoritratto, 1867.