Parigi muta. Parigi si trasforma. Sotto i colpi inferti dallo spietato Barone Haussmann (1809-1891), dispotico ed efficace braccio destro di Napoleone III, la capitale francese viene devastata, distrutta, sfigurata, sconvolta, rasa al suolo e ricostruita, completamente. Al posto delle anguste e strette vie medievali teatro di epiche ed indimenticabili barricate rivoluzionarie, sorgono i «grands boulevards», ampi stradoni facilmente controllabili. È un autoritario anelito all’ordine il motore della riedificazione.
Charles Baudelaire (1821-1867) quelle viuzze le conosceva bene, giovanissimo vi si era trincerato partecipando alle sommosse parigine dell’incontenibile Quarantotto, ed inneggiando a squarcia gola alla morte del generale Jacques Aupick (1789-1857), il suo patrigno arcigno che di rivoluzionario aveva solamente l’anno di nascita. Ora quei vicoli malsani e fetidi non esistono più.
Il poeta gironzola offeso ed altezzoso per la sua città, magari diretto verso una nebbiosa fumeria d’oppio, oppure verso un bordello gravido d’avvenenti meretrici, stentando a riconoscerla. Incredulo ed indignato stringe con rabbia il suo bastone da passeggio, osserva l’incredibile, innaturale metamorfosi e si domanda cosa stia effettivamente accadendo.
Baudelaire, dotato di un’eccezionale e penetrante perspicacia, non tarda a trovare la risposta giusta. È l’inizio di una nuova era. Parigi diviene metropoli. Signore e signori, borghesi ed aristocratici, tossicodipendenti e prostitute, vagabondi ed alcolizzati, ecco a voi la modernità.
Un simile mutamento fisico, maledettamente visibile e, soprattutto, tangibile, cambia le prospettive, i punti di vista e le innumerevoli relazioni che si dipanano all’interno della città. Cambiano i ruoli. Charles Baudelaire è dolorosamente consapevole di tutto ciò e decide di farsi carico di un peso insostenibile: essere il primo poeta moderno. E lo fa scientemente. Non è una semplice etichetta che gli viene appiccicata addosso dai posteri, no, egli si conquista in vita questa ingombrante qualifica con forza e determinazione, cosciente di quanto ciò possa costare caro, di quanto ciò possa causare indicibili sofferenze.
Ebbene, cosa significa essere un poeta moderno? Significa non avere più nulla di straordinario. Significa accettare il ridimensionamento del proprio ruolo. Significa idolatrare l’arte ed i suoi più grandi geni, eppure fare i conti con la meccanica e tiepida fotografia. Significa aspirare alla bellezza, eppure ammirare il macabro, l’orrorifico. Significa bramare l’ideale, eppure precipitare nell’oscuro oblio dello spleen. Significa agognare la gloria e l’immortalità, eppure consacrarsi alla moda ed alla mondanità.
Significa veder ruzzolare la propria aureola nel fango e non piegarsi a raccoglierla, ma lasciarla lì, in una pozzanghera melmosa, a disposizione di chiunque voglia afferrarla. Significa possedere la grazia dell’albatro, ma solo quando è in volo. Significa essere goffi e storditi come quando il magnifico uccello, a terra, afferrato da un manipolo di marinai baldanzosi, viene deriso, schernito, fatto oggetto del rozzo divertimento degli uomini. Significa scovare la propria Musa in una stamberga in cui prostitute disperate e senza avvenire concedono le proprie grazie a chiunque possieda denaro a sufficienza.
Ecco cos’è il poeta moderno, e per comprenderlo appieno non servono le mie inutili e scontate parole, no, bastano i testi di Baudelaire sopra citati: le poesie L’albatro e La musa venale, entrambe contenute nella celebre raccolta I fiori del male (1857), ed il poemetto in prosa L’aureola perduta, incluso ne Lo spleen di Parigi (1869). Bonne lecture, chers amis.
L’ALBATRO
Spesso, per dilettarsi, i marinai
catturano gli albatri, grandi uccelli marini,
che seguono, come indolenti compagni di viaggio,
il bastimento che scivola sugli amari abissi.
Non appena sono stati messi sulla plancia,
questi re dell’azzurro, maldestri e timidi,
abbandonano miseramente le loro grandi ali bianche,
come remi accostati ai loro fianchi.
Come è goffo e docile, questo viaggiatore alato!
Poco prima così bello, adesso com’è buffo e brutto!
Qualcuno con la pipa gli stuzzica il becco,
un altro, zoppicando, imita l’infermo che volava!
Il Poeta è simile a quel principe dei nugoli
che, avvezzo alla tempesta, se la ride dell’arciere;
poi, esiliato sul terreno, tra gli scherni,
le sue ali da gigante gli impediscono di camminare [1].
***
LA MUSA VENALE
O musa del mio cuore, amante dei palazzi,
quando Gennaio sguinzaglierà le sue fredde Bore,
avrai un tizzone per riscaldare i tuoi piedi violacei,
durante le nere noie delle serate nevose?
Rianimerai dunque le tue spalle marmoree
coi raggi notturni che filtrano tra le imposte?
Accorgendoti che la tua borsa è secca come il tuo palato
raccoglierai forse l’oro delle volte azzurrine?
Per guadagnarti il pane di tutte le sere,
ti devi dondolare come fa il chierichetto, l’incensiere,
e cantare Te Deum a cui tu non credi;
oppure ti esibisci, saltimbanco a digiuno,
tra i tuoi vezzi e le tue risa intrise di lacrime non viste,
per far scoppiare le risate della gente [2].
***
L’AUREOLA PERDUTA
«Come! voi qui, mio caro? Voi in questo brutto posto? Voi, il bevitore di quintessenze! Voi, il mangiatore di ambrosia! C’è invero di che restare sorpresi.
– Mio caro, sapete bene quanto mi terrorizzino le carrozze e i cavalli. Poco fa, mentre attraversavo il viale in tutta fretta saltellando in mezzo al fango, in quel caos in movimento dove la morte arriva al galoppo da tutte le parti nello stesso tempo, per un gesto brusco l’aureola mi è scivolata dalla testa nel fango della strada. Non ho avuto il coraggio di raccattarla. Giudicai meno sgradevole perdere le mie insegne che farmi rompere le ossa. E poi, mi dissi, la disgrazia serve sempre a qualcosa. Ora posso andarmene in giro in incognito, compiere azioni basse, darmi ai bagordi come i comuni mortali. Ed eccomi in tutto simile a voi, come vedete!
– Dovreste almeno pubblicare un annuncio della perdita dell’aureola, o fare denuncia al commissario.
– Proprio no! Mi trovo bene, qui. Solo voi mi avete riconosciuto. D’altronde la dignità mi disturba. E poi penso che qualche cattivo poeta la raccatterà e se la metterà in testa spudoratamente. Che piacere far felice qualcuno! Soprattutto qualcuno la cui felicità mi farà ridere! Pensare a X, o a Z! Ah, sarà davvero divertente!»[3].
NOTE
[1] Charles Baudelaire, I fiori del male, Rusconi Libri, 2004, a cura di L. Leonini, pp. 9-10.
[2] Ivi, pp. 15-16.
[3] Charles Baudelaire, Lo spleen di Parigi, Garzanti, Milano 1999, trad. it. di Alfonso Berardinelli, p. 195.
In copertina: Baudelaire fotografato da Étienne Carjat, 1862.