Dopo aver ricoperto la massima carica politica romana, il consolato, ottenendo peraltro risultati brillanti, Cicerone punta a consolidare la propria leadership, tentando di imporre il proprio programma politico. Lo scopo dell’Arpinate è creare una solida alleanza tra la nobiltà senatoria e gli equites, l’ordine equestre, rafforzando così il primato del Senato, ma le sue ambizioni subiscono un duro colpo con la formazione del primo triumvirato (60 a.C.), un accordo privato tra gli uomini più influenti e potenti dell’epoca: Cesare, Pompeo e Crasso. L’esperienza della Repubblica è oramai sul viale del tramonto, il destino di Roma è, di fatto, affare di pochi, pochissimi individui, appena tre. Il Senato perde inevitabilmente potere, e Cicerone vede naufragare il suo progetto politico. La massima istituzione governativa di Roma, che l’Arpinate ha sempre servito con entusiasmo ed onestà, viene ridotta a mero organo di rettifica.
Cesare parte per la Gallia, e fa sì che venga eletto tribuno della plebe un uomo di sua fiducia, Publio Clodio, acerrimo rivale del partito degli ottimati (optimates), opposto al partito dei popolari (populares) e di Cicerone. Clodio propone una legge che prevede l’esilio e la confisca dei beni per tutti coloro i quali abbiano eseguito esecuzioni illegali. Il provvedimento, pensato per colpire l’Arpinate, viene approvato e Cicerone è costretto a lasciare Roma. La sua casa sul Palatino, il quartiere più alla moda di Roma, viene demolita, ed il terreno consacrato alla Libertas.
Dopo un anno e mezzo trascorso tra Tessalonica e Durazzo, Cicerone rientra a Roma, grazie al decisivo appoggio di Pompeo e del tribuno della plebe Tito Annio Milone. Inoltre i beni confiscati gli vengono restituiti. L’Arpinate è costretto dagli eventi politici ad assumere un atteggiamento diverso, meno severo e più conciliante nei confronti di Cesare, giungendo persino a pronunciare un discorso in favore del prolungamento del proconsolato di Cesare in Gallia, il De provinciis consularibus (56 a.C.).
Cicerone non ha perdonato a Clodio la dolorosa umiliazione dell’esilio, ed in questi anni si prodiga con tutto se stesso per colpire ed abbattere l’odiato nemico, ricorrendo alle sue straordinarie doti retoriche. Tra il 56 a.C. ed il 52 a.C. l’Arpinate pronuncia diverse orazioni “anticlodiane”. La prima di queste, la Pro Sestio (56 a.C.), contiene quello che potremmo definire il manifesto dei boni. Cicerone, puntando come sempre a conservare e proteggere le tradizionali istituzioni della res publica, formula il cosiddetto consensus omnium bonorum, un’evoluzione del suo precedente programma politico. L’Arpinate non si rivolge più solamente alla nobiltà senatoria e agli equites, ma ai boni, ovvero tutti quei cittadini romani che hanno a cuore la Repubblica e che fondano le proprie azioni su quei valori morali universalmente riconosciuti. Cicerone aspira alla creazione di un accordo tra tutti gli uomini onesti, devoti alla legge e agli ideali tipicamente romani, contrastando così il potere dei pochi uomini ufficiosamente al comando, e la minaccia rappresentata dai sovversivi populares. Un progetto tanto ambizioso quanto utopistico. L’Arpinate, legato alla tradizione e al modello scipionico, ignora che oramai la forza di un politico si fonda soprattutto sull’esercito.
Il ciclo delle orazioni “anticlodiane” si conclude con la Pro Milone (52 a.C.). Milone, in uno scontro armato, ha ucciso Clodio. In seguito alla morte del cesariano, a Roma scoppiano violenti tumulti, ed il Senato è costretto a nominare Pompeo “console senza collega”. Cicerone si assume la gravosa responsabilità di difendere Milone, ma intimorito dai disordini e dalle minacciose grida dei clodiani, ha un inatteso crollo psicofisico. L’imputato viene condannato all’esilio a Marsiglia. Ironia della sorte, la Pro Milone è tutt’oggi considerata la migliore delle orazioni dell’Arpinate, l’orazione perfetta, e si narra che Milone, dopo averla letta, abbia esclamato «O Cicero! Si sic dixisses, non ego barbatos pisces Massiliae ederem» («O Cicerone! Se avessi parlato così, non sarei qui a mangiare le triglie a Marsiglia»).
Nel 51 a.C. Cicerone viene nominato governatore in Cilicia, e si rende persino protagonista di una vittoriosa, ma in fin dei conti irrilevante, azione militare. Guida l’assalto alla fortezza di Pindenisso, sul confine con la Siria.
Torna a Roma l’anno successivo, proprio alla vigilia della guerra civile. Il 10 gennaio del 49 a.C. Cesare varca infatti il Rubicone, pronunciando la celebre frase «Alea iacta est» («Il dado è tratto») e dichiarando guerra a Roma. L’esercito di Pompeo non riesce ad opporsi, forse disorientato dall’audace e spavalda mossa, e Cesare marcia senza troppi problemi su Roma. Pompeo ed i suoi seguaci sono costretti alla fuga. Dopo molte incertezze, Cicerone decide di seguire Pompeo, insieme a molti senatori, nell’Epiro, ma non a Farsalo, in Tessaglia, dove ha luogo il decisivo scontro tra cesariani e pompeiani (48 a.C.). Rientrato in Italia, l’Arpinate attende a Brindisi il suo destino. Cesare, dimostrando grande signorilità ed altrettanta clemenza, va incontro per primo a Cicerone e lo perdona.
Durante gli anni della dittatura cesariana, Cicerone pronuncia tre soli discorsi – l’oratoria era tenuta sotto strettissima sorveglianza -, Pro Marcello, Pro Ligario e Pro rege Deiotaro, l’ultimo dei quali tenuto addirittura all’interno del palazzo privato di Cesare. L’Arpinate non ha più alcun peso politico e, ad aggravare la già complicata situazione nella quale riversa il grande oratore, intervengono dolorose vicissitudini familiari: la separazione dalla moglie Terenzia e, soprattutto, l’improvvisa morte dell’amata figlia Tullia (45 a.C.). Cicerone trova conforto nella filosofia. In meno di due anni, ed è questo un dato straordinario, particolarmente indicativo dell’enorme caratura culturale ed intellettuale oltreché politica dell’Arpinate, tra la primavera del 45 a.C. ed il dicembre del 44 a.C., Cicerone compone ben quattordici opere filosofiche. Un lavoro impressionante, avvalorato dal fatto che questi testi affrontano praticamente tutte le più importanti e delicate questioni dell’epoca.
Cicerone vuole fornire Roma di un bagaglio di conoscenze filosofiche ancora assente. È il primo, a Roma, a scrivere opere di filosofia, è il primo, a Roma, a riconoscere la grandezza e l’indispensabilità della materia. Per questi motivi Cicerone ha un peso filosofico eccezionale. Tra gli innumerevoli testi concepiti e composti durante questo periodo di allontanamento forzato dalla politica, il più rilevante ed apprezzabile è senza dubbio il De officiis, una sorta di testamento spirituale dell’Arpinate. Voltaire definirà questa meravigliosa opera come la «più saggia, più vera e più utile» che l’uomo abbia mai creato.
Il 15 marzo del 44 a.C. (le celebri Idi di marzo) Cesare viene assassinato, e Cicerone, che esalta i cesaricidi (intimo ed amichevole è il suo rapporto con Bruto), torna a sperare di poter ricoprire un ruolo politico determinante. L’Arpinate si accosta ad Ottaviano – il futuro Augusto, giovane pronipote che Cesare aveva adottato ed erede designato dal dittatore – con lo scopo di influenzarne le scelte, illudendosi di avere un forte ascendente su di lui, e contemporaneamente attacca con violenza Marco Antonio. Contro quest’ultimo, tra il settembre del 44 a.C. e l’aprile del 43 a.C., pronuncia quattordici, infuocate orazioni dette Philippicae, in quanto conformi alle orazioni scagliate da Demostene contro Filippo di Macedonia per la libertà della Grecia. Lo scopo di Cicerone è evidentemente quello di far dichiarare Marco Antonio nemico pubblico di Roma.
Di seguito, un passo tratto dalla II Filippica, nel quale emerge con chiarezza l’ostilità, o meglio, l’odio che Cicerone nutre nei confronti di Marco Antonio, giungendo persino a definirlo, senza alcun timore, «bestia», e la sua ammirazione e gratitudine verso i cesaricidi, considerati alla stregua di giusti ed eroici paladini della libertà:
«30. Ma considerate ora la stupidità di quest’uomo, o meglio di questa bestia. Ecco infatti quali sono state le sue parole: “Marco Bruto, il cui nome proferisco col riguardo dovutogli, sollevando il pugnale insanguinato, gridò il nome di Cicerone: è chiaro dunque che Cicerone era complice”. Tu dunque, tratti me come un criminale, perché sospetti che io abbia avuto un qualche sentore della faccenda, e citi invece con ogni riguardo il nome di chi ha sollevato il pugnale stillante di sangue? E va bene, ammettiamo che l’assurdità sia nelle parole. Ma quanto più grande essa ci appare, se guardiamo al tuo modo di agire e di pensare. Deciditi una buona volta, tu che sei console, a chiarire il tuo pensiero sull’azione compiuta dai Bruti, da Gaio Cassio, da Gneo Domizio, da Gaio Trebonio e dagli altri. Smaltisci la sbornia, ti dico; falla svaporare. O sarà necessario avvicinare un tizzone acceso per destarti mentre te la dormi in una faccenda di capitale importanza? Non vorrai mai capire che tocca a te decidere se gli autori di quel gesto sono omicidi o vindici della libertà? 31. Sta’ un poco attento e per un solo istante cerca di pensare come una persona che non abbia bevuto. Io che sono, come per parte mia dichiaro, intimo amico loro, o, secondo la tua accusa, loro complice, affermo che qui non c’è via di mezzo: se non sono i liberatori del popolo romano, se non sono i salvatori della repubblica, riconosco che sono peggio che sicari, peggio che assassini, anche peggio che parricidi, se è vero che è misfatto più grave uccidere il padre della patria che il proprio padre. Tu, uomo giudizioso e assennato, che ne dici? Che sono parricidi? E perché allora qui in senato o nell’assemblea del popolo romano hai fatto il loro nome sempre con i dovuti riguardi? Perché proprio su tua proposta Marco Bruto è stato esonerato dagli obblighi di legge, nel caso di assenza da Roma superiore a dieci giorni? Perché gli spettacoli in onore di Apollo si sono celebrati con eccezionali attestati di onore a Marco Bruto? Perché sono state assegnate delle province a Bruto e Cassio? […] 32. […] Comunque, eccoti la sostanza del mio ragionamento: sei stato tu stesso a giudicarli del tutto degni dei più alti riconoscimenti, per il fatto di averli assolti dal delitto. A questo punto mi tocca rifare tutto il mio ragionamento. Mi toccherà scrivere ad essi che ove si chiedesse loro se è vera l’accusa che mi fai, non rispondano di no. Altrimenti ho paura che o tornerebbe a loro disdoro l’avermi tenuto all’oscuro della cosa, o ridonderebbe a mia somma vergogna un mio rifiuto al loro invito. Infatti, quale impresa, per Giove santo, è stata mai compiuta, non solo qui a Roma, ma in tutta la terra, che sia più grande? Quale più gloriosa, più degna d’eterna memoria fra gli uomini? Associandomi a questa impresa è come se mi includessi nel cavallo di Troia con i personaggi più importanti?» [1].
La formazione del secondo triumvirato, tra Ottaviano, Marco Antonio e Marco Emilio Lepido, un generale a lui fedele, pone fine alle ultime velleità politiche di Cicerone. Subito dopo la formulazione dell’accordo vengono compilate lunghissime liste di prescrizione. Duemila cavalieri e trecento senatori perdono la vita in una sanguinosa mattanza. Inoltre i loro beni vengono confiscati ed utilizzati per sovvenzionare gli eserciti dei triumviri. Tra le migliaia di vittime, la più illustre è senza dubbio Cicerone. Raggiunto dai sicari nella sua villa di Formia, viene ucciso il 7 dicembre del 43 a.C. Come se non bastasse, il suo cadavere viene brutalmente mutilato. Gli vengono tagliate la testa e le mani, appese dal crudele Antonio «proprio in quel luogo dove aveva parlato in quello stesso anno contro di lui» [2].
Termina così il racconto dell’esistenza di una delle personalità politicamente e culturalmente più importanti della storia di Roma, Marco Tullio Cicerone, l’ultimo baluardo della Repubblica.
[1] Trad. it. di B. Mosca, in M. Tullio Cicerone, Le Filippiche, I, Mondadori, Milano 1963.
[2] Tito Livio, Ab Urbe condita libri, tra il 27 a.C. ed il 14 d.C.
In copertina: Cesare Maccari, Cicerone denuncia Catilina, 1880 circa, affresco situato a Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica Italiana.